Elogio di Claudio Caligari
«Tumbas»
Mentre pensavo alla scrittura di questa memoria, di questo elogio, di questo omaggio a Claudio Caligari, ecco, mentre ci pensavo – e i ricordi e le idee mi si confondevano e si accavallavano sino a formare un grumo inestricabile, intenso e paralizzante – leggevo Tumbas di Cees Nooteboom, una sorta di grande viaggio nei cimiteri di tutto il mondo e di soste più o meno lunghe dinanzi alle lapidi di scrittori e di poeti le cui opere di certo non si sono consumate come il tempo della vita dei loro autori. Quel libro, tutto votato a ciò che resta, indica al lettore la persistenza e non l’oblio, la presenza e non il suo contrario e, anzi, finisce per confermare la meravigliosa suggestione di Pier Paolo Pasolini (contenuta in un celebre saggio incluso in Empirismo eretico) circa il rapporto di senso tra il montaggio e la morte, laddove sarà proprio questa seconda (il montaggio ultimo e definitivo) a dare significato compiuto alla vita degli uomini, così sottraendola al caos, alla casualità, al magma indistinto e tempestoso dell’accadere quotidiano. Ma i morti, coloro che se ne sono andati scomparendo dal nostro sguardo – e sebbene ricomposti in una limpidezza estrema, in una specie di quadratura del cerchio – non smettono tuttavia di chiamarci, di volerci accanto. Il libro di Nooteboom questo sembra voler suggerire, e se quel grumo rimane infine in larga parte opaco e paludoso, affollato com’è di occasioni, pure qualche lampo lo illumina a intermittenza, per zone e per macchie di luce. Allora, per cominciare, non bisogna nascondere nulla, e devo dire subito che non ne ho le prove, non posso cioè dimostrarlo carte alla mano, ma sono sicuro e credo fermamente che Caligari si sia ammalato e sia morto di dolore, di frustrazione, di pena. I suoi tre film furono felicissime e splendide parentesi dentro un susseguirsi ultratrentennale di rifiuti disinvolti, superficiali, spesso sprezzanti, di ostacoli insormontabili, di ottusità, di sordità, di miseria morale, di viltà politica, di tirchieria culturale, di vero e proprio e disumano gelo. La cosiddetta industria del cinema, umiliandolo, ha condannato alla fatica dell’inazione una pietra preziosa, un talento immenso, un autore che riconobbe nell’irriducibilità il proprio vessillo. Ma, appunto, l’irriducibilità ha un costo altissimo, sanguinoso.
L’arte dell’attesa. Ho conosciuto Claudio Caligari nella seconda metà degli anni Ottanta, forse nel 1986, in casa di comuni amici oggi dissolti, ad Arona (dove era nato nel 1948). Amore tossico, il suo primo lungometraggio, era uscito nel 1983, dopo essere passato affatto inosservato dal Lido di Venezia, sostenuto in quei giorni di festival dalla passione irruente e combattiva di Marco Ferreri. Quel tardo pomeriggio d’estate – il cielo azzurrato, stampigliato di nuvole bianche e veloci, una brezza leggera che muoveva le foglie degli alberi nel bel giardino – lo ricordo perfettamente, Claudio era chiuso in se stesso, ombroso, addirittura scontroso e sospettoso. Parlava poco e quel poco che diceva era segnato da una non troppo sottile vena polemica e risentita. Confesso che quel giorno non ebbi né mostrai nei suoi confronti alcuna forma di simpatia, sebbene avessi ammirato molto, al pari di quei pochi che erano riusciti a vederlo, il film d’esordio. L’antipatia fu reciproca, d’altronde. Gli occhi intelligenti, d’acuto lignaggio intellettivo, in un volto ancor giovane che pure sembrava scolpito su di una pietra antica, a mostrare, senza mai ridere o delle volte solo e appena accennando ad un sorriso che pareva una ferita, una compunta serietà, un altero stare nel mondo e in un mondo (quello del cinema) difficile, spesso ignorante e volgare e cinico. Gli chiesi dei suoi progetti futuri e mi rispose che ne aveva alcuni, che stava aspettando risposte dai produttori cui si era rivolto. Fede un paio di nomi che ora non riporto perché non lo meritano e poi perché non provino vergogna (ammesso poi che ne siano capaci). Nel corso del tempo, Claudio non fece che aspettare, quasi sempre invano. Fu costretto a imparare l’arte dell’attesa e a mettere in conto l’altrui elusività, l’altrui noncuranza. Forse vi si abituò, ma non smise di sentirsene avvilito, umiliato, offeso. Tutto questo però lo compresi più avanti e di colpo l’antipatia si tramutò in affetto e in amicizia. E in un sentimento di partecipazione, di solidarietà. Mi pareva, il suo, un destino feroce, segnato da un elemento tragico. Un’incredibile e cruenta fatalità lo chiudeva in un’eterna coazione a ripetere che non prometteva nulla di buono per la sua vita. Ma quella sera, intanto, dopo cena, disse che l’indomani doveva tornare a Roma. Una risposta. Attendeva una risposta.
Ostia. L’idroscalo di Ostia, a partire dal due novembre del 1975, è il luogo del sacrificio, dell’offerta di sé. Uno spazio simbolico dentro cui il corpo, poeticamente inteso, si trasforma in economia politica. È, quello slargo sterrato e polveroso, l’epicedio alla sacralità insanguinata, negata, abolita, laddove la vita ormai non conta nulla, non ha più valore, avendo perduto ogni necessità. Quel paesaggio scabro e detritico, che la morte e la decomposizione dell’umano hanno reso struggente, rimanda certo al genocidio culturale perpetrato da un potere di inaudita pervasività. Ma anche, in forma assai cruda, al delitto, all’omicidio. Per questa ragione i due protagonisti di Amore tossico, vanno a morire ai piedi del monumento che ricorda l’assassinio di Pasolini, senza saperne nulla, in una inconsapevolezza che finisce per renderli martiri ovvero testimoni di una guerra perduta, di una santità priva di religione, miserabile e derelitta e dunque ancor più preziosa. Essi non hanno (né potrebbero averla) una coscienza di classe, ed è questo dato di fatto a renderli fragili, indifesi, addirittura complici. Bersagli perfetti. Pure, ciò detto, è difficile negare che questo sia un film anche religioso, come Accattone, come Mamma Roma o come una pellicola di Robert Bresson. Di una religiosità tutta terrena, concreta, senza resurrezione, senza regno dei cieli. Sì, qualcosa di sacro. Sotto tale aspetto, per Caligari, Pasolini rappresentò una scelta morale e un’opzione politica. Anche a lui, come capitò a Pasolini, la discesa a Roma finì per rivelargli un mondo, anzi un universo tutto da scandagliare. Ma a lui, per privilegio o dannazione generazionale, non restava che trasformare la merda metaforica di Salò in merda tossica. Una presa d’atto da parte di un giovane autore che si era formato negli anni Settanta, quando cominciò a girare, con strumentazione povera ed essenziale, durante le tumultuose assemblee studentesche nelle aule dell’Università Statale di via Festa del Perdono, a Milano. Il battesimo di una promessa, di una speranza nel tempo in cui la speranza era forse ancora possibile. D’altronde ho sempre pensato a Claudio come a un orfano. La sua forza, il suo impegno, la sua dedizione, la sua tenacia venivano da quella tradizione, da quella sconfitta.
«Lo sguardo ostinato»
Nel 1992 commentammo insieme la morte, a quarantaquattro anni, di Serge Daney. In un chiosco nei pressi della Piramide Cestia e del Cimitero degli Inglesi, a Roma, vidi gli occhi di Claudio (ed è stata, per me, l’unica volta) brillare di commozione. Lui considerava giustamente Daney al pari di un fratello mai incontrato, di un compagno di via, di un testimone decisivo. Ne considerava persino le stigmate esistenziali come qualcosa di cruciale per spiegare lo stato e le mutazioni del cinema. La delusione e il disincanto tragico del grande critico francese Caligari li assumeva come propri, come una minaccia di deriva in atto e a venire. «Non solo la critica scompare», disse, «ma anche il cinema sta perdendo la propria forza d’urto politica e l’antagonismo che è stato il sale necessario della mia generazione, il nutrimento della nostra coscienza». Ammirava, di Daney, la vitalità morale, l’intelligenza teorica, l’inquietudine, il nomadismo. Ma non di meno l’energia fisica di quell’uomo capace di partire per l’India, per il Canada o per un paese africano soltanto per assistere alla proiezione di un film altrimenti difficile da recuperare. Necessità della visione. Necessità del conflitto. Quando, nel 1993, uscirono in italiano i diari di Daney, segnalai a Caligari alcuni passaggi. Uno era il seguente, datato 1990: «Il critico era necessario quando nella società c’era un luogo in cui la violenza, il senso, il bisogno di dire rappresentavano come un nodo, un grumo. Ma questa necessità viene meno a partire dal momento in cui il “diritto alla creazione”, come dicevano i comunisti, è aperto e riconosciuto a tutti. Il critico dava notizie di certi viaggiatori ad alto rischio personale. Gente come Tarkovskij, Godard, Cassavetes, Fassbinder. Quando tutto questo viene rimpiazzato dall’autoprogrammazione turistica dell’individuo, il critico non serve più a niente». “Viaggiatori” solitari e “ad alto rischio personale”. Come Claudio volle sempre essere. Lo sappiamo: amava il cinema – non solo farlo ma vederlo – più della propria vita. Quando, ad esempio, usciva nelle sale un film di Martin Scorsese, andava al cinema al primo spettacolo del primo giorno di programmazione. Era il soffio delle immagini create e ricevute a farlo respirare, a dargli vita. Fame e sete insieme, inesauribili.
Totus tuus
Delle volte Claudio, nei momenti più bui e di massima esasperazione, sembrava reclamare per sé il diritto alla paranoia come se si trattasse di un conforto, di una consolazione. Pensava di essere vittima di un complotto, di una cospirazione generale. Anche questa pulsione mi sembrava un retaggio di una stagione ormai conclusa e sepolta. Legava, con nervosa impazienza, con mesto rancore, i fili di una definitiva dissolvenza ai suoi danni da parte di partiti politici, di enti pubblici, di case di produzione e di distribuzione. Lui dimenticava, in quei frangenti, quanto fosse anarchico e caotico il nuovo potere. Ma non sempre era così, il mio amico. Nel 2005, per il trentennale della morte, fummo invitati nelle Marche a parlare di Pasolini e del suo cinema. Per lui furono due giornate molte belle. Socievole con gli amici ospiti, disteso, persino sorridente, Claudio mostrava anche a me un volto nuovo. Pronunciò, durante il suo intervento tutto a braccio, parole bellissime, di grande intelligenza e acutezza analitica. Incantò la platea. A cena si mostrò brillante e ironico. Restammo, in albergo, a chiacchierare fino a tardi. Sebbene quello fosse per lui un periodo buio, si abbandonò all’ottimismo della volontà. Era felice di avere incontrato un attore meraviglioso e un galantuomo come Valerio Mastandrea, lo straordinario protagonista del suo film L’odore della notte, datato 1998. Prima e dopo quell’occasione, a Claudio piaceva tornare su Mastandrea che considerava un prezioso compagno di lavoro e una presenza fraterna. Le immagini e la dinamica di quel film erano ovviamente ammirevoli, ma Caligari si mostrava soprattutto orgoglioso della scrittura letteraria, dell’impasto di timbri che caratterizzava il racconto fuoricampo del poliziotto, aulico e popolare, alto e basso, lirico e melmoso. Claudio era un intellettuale, ma per lui il cinema (il cinema senza aggettivi) era una fede, quasi una superstizione. Era ammorbato di cinema, questo è il punto. Perché dalle superstizioni non ci si salva.
Viaggio di ritorno
Non essere cattivo è diventato un film testamentario, un addio. Caligari torna a Ostia a tanti anni di distanza con una tessitura perfetta a chiudere un cerchio fatto di riferimenti, di omaggi, di sottolineature, di rimandi. Pasolini, la partitella di pallone, il chiosco attorno al quale si svolgono e si avviano le perigliose esistenze dei personaggi. Il chiosco ha la medesima funzione narrativa del bar Necci di via Fanfulla da Lodi in Accattone (un accattone, un magnaccia da strapazzo, ricordiamolo, c’era anche in Amore tossico). Ogni cosa pare illuminata da una luce troppo umana – che poi è la luce della tradizione, anzi del desiderio della tradizione, della perduta forza del passato, quando la speranza era ancora possibile. Il sentimento politico, in ogni film di Caligari, ha sostanza biologica. Ed è straziante vedere come Claudio, mentre moriva, abbia sentito l’urgenza e la necessità di chiudere la sua ultima opera con l’immagine di un neonato, di una nuova vita. Lui che portava incise le stigmate del rifiuto, lui che rifiutava di cedere alle leggi del mercato, lui che mai si era sognato di svendere la propria poetica pur di lavorare, lui che avrebbe potuto ripetere (come uno dei suoi maestri) «il mondo non mi vuole più e non lo sa», ecco, proprio Claudio Caligari, che sembrava avere abolito dal proprio orizzonte il principio della speranza, ci indica infine una piccola luce accesa sul futuro. Ci mancano di certo i film che non gli hanno permesso di realizzare. Invece ci nutriranno per sempre quelli che ha lasciato. Enzo Di Mauro