La poesia è un corpo vivente. Conversazione con Alessandro Negrini
in collaborazione con Ruairi Conneely. L’intervista è stata registrata a Dublino, grazie a Writers’ Garage. La foto di Alessandro Negrini è di Simone Paccini
Tides è visibile su Streeen.
Your browser doesn't support HTML5 audio
Ruairi: Sei un poeta e uno scrittore, tra le altre cose. Nella tua biografia si dice che sei diventato regista per caso. Come si diventa regista casualmente?
A vent’anni volevo diventare un poeta, ma un giorno ho letto una frase di Benedetto Croce, citata da Fabrizio De André: «fino a vent'anni siamo tutti poeti, oltre quell'età, ci sono solo due categorie di persone che scrivono poesie, poeti e cretini... Ho sempre avuto paura di scivolare sulla seconda categoria. Così ho cambiato direzione e forse è successo che ho tradotto la poesia in qualcos'altro, spero in poesia visiva in qualche modo. Penso che la poesia fluisca comunque nel nostro sangue. Non è necessario scrivere letteralmente poesie per essere un poeta. Ricordo che una volta ero a Derry qualche anno fa, in un pub, il Dungloe Bar. Per qualche motivo ero un po’ malinconico e un vecchietto venne da me chiedendomi se stavo bene. “Sì, risposi, sto solo pensando”. Lui è andato al bar, è tornato con un whisky, poi mi ha messo una mano sotto il mento sollevandomi leggermente la testa e ha detto: "Pensa alto". Quello è stato un momento di poesia. Quel gesto era il gesto di un poeta. Probabilmente non ha mai scritto una poesia in vita sua, ma ha tradotto la sua poesia in un gesto. Quindi, penso, il nostro obiettivo, il nostro vero obiettivo se vogliamo essere poeti è quello di cercare ovunque la poesia. La poesia è un corpo vivente.
Gian: Io come te vengo dall’Italia e vivo in Irlanda. Volevo chiederti se Tides parla anche di un confine interiore presente in te, oltre che del confine tra Repubblica d'Irlanda e Inghilterra. Non è facile definire la nostra identità quando ci si sposta dal punto di origine in un altro luogo. In che modo il film ti riguarda personalmente?
Uno degli argomenti che galleggia nel film – il film è davvero costruito come un fiume, e come un fiume contiene molte correnti – è la domanda “Dove siamo a casa? dov’è casa?”. Hai ragione, sono questioni molto vicine alla mia vita, perché ho trascorso più della metà della mia vita fuori dal mio paese di origine. Ma credo che siamo tutti in esilio, non solo le persone espatriate, in esilio da un paese che non esiste ancora. Uno dei miei riferimenti è Gilles Deleuze e una volta lui disse che l'arte deve costantemente cercare il paesaggio, ma un paesaggio da venire. È a questo che apparteniamo. Sfortunatamente, la nostra capacità di cercare questo paesaggio ancora da venire, di cercare una prospettiva ancora invisibile, è stata mutilata da questa società, nella quale siamo tutti atomizzati. Penso che il ruolo degli artisti sia – è una specie di paradosso – iniettare un senso di nostalgia per un paese che non esiste ancora, il paese che esisterà lì dove siamo. La poetessa Marina Cvetaeva, scrivendo a Boris Pasternak, nella loro corrispondenza, parlava di un Paese dell'Anima, e non in senso religioso. Penso che abbiamo perso quel senso di identità, l'idea che la nostra famiglia sia fatta da persone incontrate su un treno, in un ristorante o alla fermata dell'autobus. La ricerca di queste famiglie allargate fa parte del mio fare film e della mia stessa vita, forse proprio perché vivo all'estero da molto tempo.
R: Da quanto tempo vivi a Derry?
Dall'arrivo dell'Armada spagnola, probabilmente. Un tempo abbastanza lungo. Vivo all’estero da 25 anni e più. Sebbene, negli ultimi tre anni, non ci sono stato molto, ho viaggiato molto per lavoro.
R: Cosa ti ha portato lì? Come hai scoperto Derry come luogo particolare?
All'epoca ero affascinato da questo posto che aveva appena lasciato la Guerra, o i Troubles, come la chiamano loro. Adoro questo modo di definire una guerra. “Abbiamo dei disordini”...
R: È molto irlandese, un po’ eufemistico.
Ero affascinato da questo posto che rappresentava – di nuovo – un diverso tipo di confine. Il confine tra passato e futuro, un confine storico e non solo geografico. A quel tempo ho sentito il fascino di questa energia di cambiamento nell'aria, il fascino del voltare pagina. Era palpabile in quel momento. Poi è stato normalizzato in un modo che sta diventando meno attraente. D'altra parte, è ancora un posto fantastico per la sua umanità. Cammini per strada e le persone ti salutano anche se non hanno idea di chi sei, o forse a maggior ragione per questo. Forse a quel tempo avevo bisogno di un posto che mi abbracciasse. Derry è un grande villaggio più che una città, mi viene in mente un'altra bellissima frase che dice "la casa è il paese che ti aspetta, anche se non ci sei". Purtroppo Irlanda e Regno Unito stanno cambiando, si sta smantellando questo tesoro che era l'idea che "l'altro" non è un pericolo ma un incontro.
R: In Tides la voce narrante è quella del fiume che attraversa Derry, il Foyle. Quindi è il posto stesso che parla. Hai dato voce al luogo, al di là dei conflitti umani. È stata una scelta consapevole? Hai voluto tagliar fuori le voci umane in conflitto?
Questo è esattamente il punto. Il più delle volte senti le voci delle persone divise da un muro. In questo caso è un muro liquido perché il fiume, a Derry, agisce come una sorta di confine tra protestanti e cattolici. Quando ho deciso di girare il film, volevo che fosse il confine stesso a dare il suo punto di vista. Perché quando le persone sono divise da un muro, la cosa più pericolosa non è il muro stesso, ma il fatto che ci si abitui a quel muro. È come essere prigionieri e iniziare a mettere fiori alle finestre della cella piuttosto che cercare una via d'uscita. Ho affrontato questo tema nel mio film precedente, Paradiso: la difficoltà di infrangere una divisione cristallizzata. Ho passato molto tempo a cercare di capire quale lingua potesse parlare il fiume. Come poteva parlare? L'unica lingua possibile era la poesia. Non volevo che il testo avesse un approccio storico, ma poetico. La poesia è un linguaggio che non è quotidiano, non parli così quando sei in un bar o con i tuoi genitori, non parli in rime o in metafore. Ma il fiume lo fa perché in questo modo può smascherare e rivelare la realtà. Il fiume Foyle poi è sorprendente. Il vento da nord è così forte che a volte sembra che stia andando indietro. Era una metafora perfetta, perché la storia non va sempre avanti ma va avanti e talvolta drammaticamente indietro. Questo continuo movimento della storia oggi è molto visibile in tutto il mondo. Stiamo andando indietro su molti fronti. Inoltre il Foyle è un po’ anarchico, ci sono pochi fiumi sopra l'equatore che scorrono verso nord. Mi dava l’idea di un modo di vivere anarchico.
R: E perché hai scelto una voce femminile?
Non lo so. Fin dall'inizio, ancor prima di decidere di girare un film sul fiume Foyle, ho sempre pensato al fiume Foyle come a una "lei". Non ho una risposta logica a questo. All'inizio, pensavo a una voce più matura, ma poi ho cambiato idea, perché sarebbe stato più banale, quasi un luogo comune. Ho consultato il mio amico e professore di teatro all'Università di Derry Giuliano Campo (vocal coach nel film) che mi ha suggerito una scelta più drastica, usare la voce di un’adolescente. È stato un suggerimento meraviglioso perché mi ha dato la possibilità di avere una voce che contiene saggezza e innocenza allo stesso tempo. Ecco cos'è un fiume, nasce in ogni istante, non muore, è vecchio e giovane allo stesso tempo. Volevo che il fiume parlasse in modo poetico e la giovane voce femminile, la bravissima Emma Taylor, ha creato un'angolazione diversa. Perché è il mio modo di raccontare la Storia. Se posso fare un riferimento, una delle cose che ha influenzato la mia espressione artistica è un dipinto di Diego Velazquez, esposto a Dublino alla National Gallery. Il titolo è La serva (Kitchen Maid with the Supper at Emmaus). Nella parte anteriore c'è una donna, una domestica e sta pulendo le stoviglie. È ovviamente una vecchia cucina. Sembra stanca e probabilmente è alla fine della sua giornata di lavoro. Dietro, sullo sfondo, attraverso una porta aperta, un lungo tavolo. E intorno a quella tavola c'è l'Ultima Cena. Quindi, per la prima volta, vedi l'Ultima Cena attraverso il punto di vista della persona che l'ha cucinata e poi ha messo a posto. Quando ho visto il dipinto ho pensato che era così che volevo raccontare la Storia, dal punto di vista della cucina piuttosto che del salotto.
G: C’è un’inversione, come nella bella scena delle foglie che tornano sugli alberi.
Anche quella scena fa parte del mio tentativo di dare uno stato d'animo onirico al film. Le foglie tornano in vari modi. Alla fine le vedi galleggiare sotto l'acqua. Le foglie che tornano sugli alberi simboleggiano in particolare la possibilità di recuperare i sogni infranti, perduti, dimenticati. Quando ho iniziato a fare ricerche sul fiume Foyle e a intervistare le persone, una delle cose che emergeva spesso nelle loro storie era che ognuno di loro, in un momento della propria vita, aveva dovuto dimenticare o mettere da parte un sogno. Un sogno che li teneva in vita 20-30 anni prima era stato dimenticato a causa della guerra. Questa cosa succede ovunque nel mondo. C'è un momento nella vita in cui ti viene insegnato che il tuo sogno deve essere messo da parte. Per me è importante trasmettere il messaggio che a volte le foglie possono tornare all'albero. Puoi riafferrare il tuo sogno, la tua promessa, il cassetto dove è riposto ha una chiave, nonostante ti abbiano insegnato a dimenticarlo. C'è sempre una piccola parte dentro di te in grado di vedere le foglie tornare all'albero. L’importante è creare questo senso di nostalgia per un luogo che esisteva, che palpitava. Un luogo in cui osavi sognare un destino tuo. La società non ha bisogno di sognatori, ma di lavoratori obbedienti. Ai bambini già a scuola si chiede di essere sensibili a questa necessità della società, che è un altro modo di mutilare l'infanzia.
G: Il film funziona perfettamente intrecciando vari livelli e varie correnti, come dicevi prima. Puoi dire qualcosa sul tuo processo di lavoro.
È stato un lungo processo. Di solito lavoro accumulando molto materiale, come un mosaico. Cerco di ritagliare le cose che sento: la parte più difficile è ritagliare le cose. Ricordo un altro aneddoto che ho letto da qualche parte. Michelangelo era nel suo studio con il suo apprendista. Ad un certo momento inizia a camminare attorno al blocco di marmo, senza mai fermarsi. L'apprendista non capisce cosa stia succedendo e chiede: "Maestro, perché non smetti di camminare intorno a questo blocco?". E Michelangelo: "Sto ascoltando la statua che c’è all'interno". È quello che fanno anche i cineasti. Siamo addestrati ad ascoltare il corpo vivente del film che fluttua tra il materiale raccolto. Il materiale era molto, sia girato, sia d'archivio, appartenente alle persone del luogo. Il materiale d’archivio non proveniva dalla BBC; è tutto in Super 8 ed è stato girato dalla gente comune negli anni '50, '60 e '70. Anche il montaggio è stato un processo molto lungo. A volte capita che hai un sogno e lo racconti ad un amico e ci sono alcuni elementi così concreti da sembrare reali. Il mio tentativo era quello di realizzare un film così reale che potesse sembrare un sogno. L'elemento onirico era davvero importante. Ho avuto ottimi collaboratori, il DOP viene dalla Norvegia, Odd Geir Saether. Ha lavorato per David Lynch e, per molti meno soldi, per me; ho avuto un meraviglioso montatore di Belfast, Stuart Sloan. Avevo completa libertà, rispetto al film precedente, perché non avevo una scadenza. Non era un lavoro per la BBC, ad esempio, come Paradiso. Non avere una scadenza può essere pericoloso, ma d'altra parte ti dà completa libertà. Mi ci sono voluti due anni dalla sceneggiatura originale al montaggio finale.
G: Un'altra domanda riguarda la colonna sonora e come è stata elaborata. Come ci hai lavorato? È stata una collaborazione con un altro artista? Hai dato delle linee guida, o come è andata?
La musica è stata importantissima per Tides. Ho passato molto tempo a pensare alla musica e poi a scegliere i compositori. Il compositore principale si chiama Cris Ciampoli, è italiano. Volevo assolutamente che la musica non fosse solo un commento. Doveva essere qualcosa di più di una cornice. Come posso dirlo…. ci sono momenti in Tides in cui sento che la musica ha una personalità. Non è solo qualcosa che si aggiunge. La musica deve essere in grado di rendere le immagini più forti, non deve “colorarle”, come succede a volte. È come una certa luce. Come la luce nei film noir. Non è solo un elemento. Se togli le luci, metà del fascino scompare. Per me la musica ha la stessa importanza. Un riferimento che ho dato ai compositori era Nino Rota, il compositore italiano, perché ho un'ammirazione per lui. Stavo cercando diversi tipi di musica perché nel film l'umore cambia a seconda dei momenti. A volte è giocoso. A volte è più drammatico, soprattutto nella parte degli immigrati. In alcune parti la musica è più intensa, in altre più delicata, perché volevo che il film contenesse delle oscillazioni. È così che va la vita. Oscilliamo costantemente tra dolcezza e malinconia. Mi piacciono questi due ingredienti, non in competizione, ma che ballano insieme. Ecco, volevo che la musica danzasse con il film. Quindi, sì, potrei dire che la musica è una ballerina.
R: Cosa pensi dell’attuale incredibile sviluppo tecnologico intorno all’immagine?
Non sono troppo preoccupato per questo. Ciò di cui sono preoccupato è che, al momento, sembra che i cineasti siano più interessati alla tecnologia che alla narrazione. Lo storytelling non ha necessariamente bisogno di una videocamera 4K. Non ha necessariamente bisogno di effetti speciali digitali. Se servono la storia, sono essenziali. La mia paura è che la narrazione sia al servizio della tecnologia e non viceversa. La cosa a cui tengo molto è la storia e il modo in cui trasmetti la storia. Perché questo è il problema al giorno d'oggi. Vedi molti film meravigliosamente realizzati con storie molto deboli.
G: Ci consigli un libro e un film?
Consiglio un libro di uno scrittore uruguaiano, Eduardo Galeano. Si intitola Le vene aperte dell'America Latina. È il libro che Chavez ha regalato a Obama quando si sono incontrati per la prima volta. Mi piace questo libro perché narra la storia da un punto di vista poetico e dal punto di vista della domestica di Velasquez che ha cucinato l'Ultima Cena. Vorrei poi che la gente vedesse un film di un regista norvegese che ho avuto il piacere di incontrare, Knut Erik Jensen, si intitola Stella polaris. In tutto il film c'è solo un momento di dialogo. L'intero film è un sogno. Mi piacciono i film che camminano accanto ai sogni. Quando sei al cinema sei di fronte a uomini che, in scala, sono otto volte più alti di te. Psicologicamente, diventi un bambino. Ciò non accade quando guardi un monitor o un televisore perché sei tu otto volte più alto del personaggio. Stella polaris è un film meraviglioso.
G: Vivendo in Irlanda, quali sono le tue sensazioni riguardo alla Brexit?
Nell'Irlanda del Nord ci sono molte persone preoccupate. Tutti gli stranieri sono completamente persi. Gli italiani che conosco sono molto, molto preoccupati. Non hanno idea di cosa accadrà. Si sentono di nuovo sfollati, da un momento all'altro ti senti sgradito. Sentirsi il benvenuto è uno degli elementi che determina la parola Casa. Il problema principale è che al momento esiste una malattia universale, che si chiama amnesia storica. Una malattia che quotidianamente tenta di contagiarci. Ogni giorno ci svegliamo e ci viene chiesto di dimenticare il nostro passato. L'Irlanda e il Regno Unito hanno conosciuto forti emigrazioni. I paesi che ora impediscono alle persone di entrare sono paesi composti da persone che venivano da fuori, pensiamo per esempio agli Stati Uniti. Non abbiamo idea di cosa accadrà e penso che sia davvero importante far sentire la nostra voce. Bisogna far ricordare che l'immigrazione è sempre esistita, che la “purezza” non esiste. L'identità non è fatta di purezza. Gli Irlandesi furono invasi dai Celti e dai Vichinghi, e vogliamo parlare dell’identità italiana? Gli Stati Uniti d'America dovrebbero essere quelli degli indiani. Penso che la Brexit potrebbe essere una buona occasione per iniziare a ripensare quale sia il ruolo degli artisti in questa società. Cosa possiamo fare? Non solo gli artisti, ma forse soprattutto gli artisti. Gli artisti non possono più tirarsi fuori da questo olocausto culturale. Riprendiamoci le foglie che hanno staccato dai nostri rami.
Guarda Tides su Streeen