Sardegna tragica. Conversazione con Salvatore Mereu su "Assandira", Sardegna, turismo
Salvatore Mereu (Dorgali, 1965) è un regista sardo. Dopo la laurea al DAMS di Bologna si diploma in regia al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Dopo alcuni cortometraggi come Notte rumena e Miguel, nel 2003 viene distribuita la sua opera prima Ballo a tre passi, film a episodi che l’anno successivo gli frutta il David di Donatello per il miglior regista esordiente. Il suo secondo lungometraggio, Sonetaula, tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Fiori, viene presentato nel 2008 al Festival di Berlino nella sezione Panorama, mentre quattro anni dopo arriva Bellas mariposas, tratto da un racconto di Sergio Atzeni e selezionato in concorso alla sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia. Nel 2020 viene presentato a Venezia, in selezione ufficiale fuori concorso, il suo quarto lungometraggio, Assandira, tratto dall’omonimo romanzo di Giulio Angioni e interpretato da Gavino Ledda, Marco Zucca e Anna König. Ambientato nella Sardegna rurale degli anni ’90, sospesa fra una solarità accesa e un livore oscuro, Assandira racconta con la struttura di un giallo la fondazione e la caduta di un agriturismo per turisti stranieri, e le complesse dinamiche familiari che si instaurano fra l’anziano Costantino, il figlio Mario e la sua compagna tedesca Grete, prima che Mario perda la vita nel rogo dell’azienda.
Quali sono le tue origini? Come è nata in te la passione per il cinema e qual è stata la tua formazione?
Io sono nato in un paesino di provincia che si chiama Dorgali, in provincia di Nuoro, dove il cinema arrivava come in tutti i luoghi, con la sala parrocchiale o il cinema di paese. Da bambino però andare a cinema non era il mio passatempo preferito, allora la cosa che mi piaceva di più era il calcio. Ho cominciato a sviluppare la passione per il cinema negli anni del liceo, a Sassari, quando ci fu una retrospettiva su Truffaut. I suoi film mi colpirono e pian piano ho cominciato a cercare di capire come far diventare il cinema un mestiere. Ho fatto il DAMS a Bologna, ma lì si studiava il cinema da un punto di vista più che altro teorico; ho poi frequentato il corso di regia del Centro Sperimentale di Roma, che è stata sicuramente la chiave di volta della mia carriera, il momento e la dimensione migliore per iniziare a misurarmi con il mezzo cinematografico. Accedere al Centro Sperimentale per un ragazzo che veniva dalla provincia e non aveva rapporti con l’industria era molto difficile, ma essenziale: all’epoca il Centro Sperimentale era la sola scuola di cinema possibile, selezionavano solo sei studenti di cui uno obbligatoriamente straniero e non c’era l’offerta formativa decisamente più variegata che c’è oggi – io stesso adesso da diversi anni mi occupo di formazione presso l’Università di Cagliari, dove tengo corsi di regia e di sceneggiatura. Né dall’altro lato si giravano tanti film in Sardegna, perché ancora non c’era la Film Commission.
Cosa ti ha insegnato il Centro Sperimentale? Qual è stato il tuo percorso da regista fino ad Assandira?
Il Centro Sperimentale, oltre a essere una scuola di cinema, dava la possibilità di realizzare dei piccoli corti e lì per la prima volta mi sono misurato con una troupe, e ho iniziato a capire l’importanza che hanno i collaboratori. La scuola, in un certo senso, già nelle esercitazioni, ti anticipa quello che poi troverai fuori, nel mondo della professione, e ti fa capire da subito che il cinema è un lavoro di squadra: avere l’idea non è che una parte del percorso, avere la capacità di condividerla e di motivare gli altri è la chiave di volta per portare a casa il film. Dopo il Centro sono riuscito a girare abbastanza presto il mio primo lungometraggio, un paio di corti fatti duranti e dopo il CSC mi hanno dato la possibilità di essere “scoperto” da Gianluca Arcopinto, produttore molto importante in quegli anni, che ha dato a molti la possibilità di esordire. Avevo presentato ad Arcopinto un soggetto e insieme a lui e a Occhipinti, allora sia produttore che distributore, ho fatto il mio primo film, Ballo a tre passi, presentato alla Settimana Critica Venezia dove vinse il premio come Miglior film. In seguito vinse il David miglior opera prima, ha ricevuto tre candidature ai Nastri, un Ciak d’Oro e ha partecipato a molti festival tra i quali il Sundance: quel primo film mi ha dato la possibilità guadagnare credito nella professione che avevo la pretesa di continuare a fare restando in Sardegna.
Come hai letto il romanzo di Angioni da cui è tratto Assandira? Come si è svolto poi il complesso processo produttivo del film?
Io leggo tanti libri alla ricerca di una storia, dei quattro film che ho fatto tre sono tratti da romanzi. Assandira di Giulio Angioni mi era stato consigliato da un’amica che mi aveva detto che nel libro c’era un buon film, e quando, dopo Bellas mariposas, si sono create le condizioni per pensarci seriamente ho acquisito i diritti e ho iniziato a svilupparlo. Il percorso produttivo non è stato affatto semplice, il film costava molto più di quello che in quel momento mi poteva essere offerto, per completare il budget ci abbiamo messo più tempo del solito. È stato sicuramente determinante da questo punto di vista aver fondato nel frattempo la nostra società di produzione Viacolvento – mia e di mia moglie – con la quale avevamo già co-prodotto Bellas mariposas ed eravamo stati produttori associati di Sonetaula. Avere una società nostra è stato determinante per disporre di quella libertà che è fondamentale nell’affrontare un progetto complesso come Assandira, e in generale per portare a termine alcuni progetti che difficilmente troverebbero realizzazione con i classici produttori di cinema.
Assandira segna il ritorno di Gavino Ledda come protagonista di un film più di trent’anni dopo il suo Ybris. Come è nata l’idea del suo coinvolgimento? Com’è stato dirigere uno scrittore e, di fatto, un attore non protagonista?
L’idea di averlo è nata da una foto che ho trovato sul Web che lo ritraeva sotto una quercia. Quando ho visto quella foto mi sono reso conto che lui poteva essere un personaggio del film. Avevo la preoccupazione che la gente lo conoscesse troppo come scrittore e che questo minasse la credibilità del personaggio che volevo costruire sullo schermo, però facendo i primi provini mi sono convinto che questa intuizione poteva funzionare. Ledda ha iscritta nel volto la storia di un mondo antico che è stato spazzato via dalla modernità, e per questo motivo era l’interprete ideale del mio film. Non ha mai fatto nulla di importante a livello di recitazione ma da subito ha dimostrato di essere un interprete abbastanza sensibile e acuto. Per quanto, dopo, abbiamo dovuto lavorare molto per trovare la giusta misura della sua recitazione. Oggi faccio davvero fatica a immaginare il film senza di lui.
Il tuo stile di regia è caratterizzato da lunghi piano sequenza che seguono i personaggi negli ambienti in cui si muovono. Come sei arrivato a questo stile? Quali registi sono i tuoi principali modelli e cosa comportano tecnicamente questi piani sequenza?
Ho scelto il piano sequenza perché mi sembrava il modo migliore per raccontare la storia. Il piano sequenza non prevede tagli e ti dà impressione che quello che sta accadendo davanti ai tuoi occhi succeda veramente. È una tecnica che ti fa guadagnare realismo. La difficoltà vera è gestirlo con dei non-attori, perché buona parte del film è fatta da non-attori. Spesso i non attori davano i ciak migliori nei primi take, quando il reparto fotografia e i fonici non hanno ancora rodato bene la sequenza. Soprattutto per un film come Assandira, in cui alcuni piani sequenza durano anche 5 o 6 minuti, era difficile trovare un punto di equilibrio fra la recitazione, che doveva essere il più possibile realistica e spontanea, e l’esigenza di avere una macchina da presa che non facesse sbavature o errori, visto che stava molto vicina al corpo degli attori. Sono comunque contento di questa scelta perché non penso che sia mai sfociata in un esercizio fine a sé stesso, non abbiamo mai mosso la macchina da presa in un modo descrittivo, erano sempre gli attori e le loro interazioni a farla muovere. Io vedo tanto cinema come spettatore, e col tempo ho capito che rinunciare all’artificio del montaggio mi faceva guadagnare di volta in volta maggiore realismo e verità, e così sono arrivato a fare questa scelta di regia. Il piano sequenza però non l’ho inventato certo io, c’è tutta una tradizione di cinema, anche del reale, dove la macchina sta addosso agli attori e non interferisce con la scena.
Tutti i tuoi film hanno gran parte dei dialoghi in dialetto sardo. In Assandira c’è poi un prezioso effetto di plurilinguismo fra dialetto sardo, tedesco, inglese e italiano. Come ti prepari a scrivere le battute? Dietro le tue sceneggiature c’è uno studio filologico della lingua, o ti limiti a trasferire sulla carta quello che senti o dici quotidianamente?
La mia lingua madre è il sardo, l’italiano l’ho imparato a scuola. Quella è la mia lingua. Il mondo che ho sempre raccontato, anche quando partivo da romanzi scritti in italiano, è un mondo che usa ancora la lingua sarda. Anche nel caso di Assandira un personaggio come quello di Ledda non potrebbe che parlare sardo, un pastore come lui l’italiano non lo ha imparato se non a scuola, quando ha avuto la fortuna di andarci. Dal punto di vista filologico e della ricostruzione del mondo in cui il film è ambientato è sicuramente obbligatorio l’utilizzo della lingua sarda. Senza dubbio è una scelta per certi versi radicale, perché in termini di possibilità di incontro col pubblico non paga. Facendo una scelta di campo come quella della lingua ti alieni automaticamente una parte del pubblico in un paese come Italia che non ha l’abitudine al sottotitolo, per cui in sala arriva come film straniero. Mi sembra però una scelta obbligata, che ho sempre ripetuto fin dal primo film.
In Assandira c’è un particolare equilibrio fra universalità e specificità, fra tragedia greca e – in senso buono – provincialismo. Il fatto stesso che quasi tutte le vicende siano tematicamente e geograficamente concentrate attorno all’agriturismo che dà il nome al film, nonché intorno al rogo finale, sembra avere molteplici rimandi che vanno dalla tragedia greca al romanzo russo, fino alla letteratura di Pavese e al cinema di Tarkovskij. Come pensi si possa trovare un equilibrio tra particolare e universale?
Su questo non posso non ricordare quanto diceva Tolstoj, provando a dare una chiave di lettura ai suoi libri: «Se tu racconti bene il tuo villaggio stai sicuro che arriverai al mondo». Sembra una frase fatta, ma è vero. Al di là della declinazione geografica, le storie delle persone si assomigliano ovunque e hai molte più possibilità di arrivare a tutti se parti da qualcosa che conosci profondamente, piuttosto che da qualcosa che hai ereditato o che vivi di seconda mano. Se fai al meglio il tuo lavoro hai più chance di arrivare a tutti. Nel caso di Assandira è un limite pensare al film come storia sarda. Al suo interno non c’è solo la rappresentazione di un mondo esteriore, quello della Sardegna di questi anni trasformata dall’industria turistica, ma c’è anche una dinamica narrativa che ha come modello la tragedia greca, un’indagine sui conflitti tra padre e figlio che appartengono alla natura umana a prescindere dall’ambientazione. Tutto questo era già nel libro, a cui mi sono molto appoggiato, innanzitutto perché mi ci sono molto riconosciuto. Se si sceglie un romanzo per ricavarne un film è perché quel libro ti dà modo di raccontarti, anche se non lo hai scritto tu.
Assandira, in modo particolare, e tutti i tuoi film rappresentano in modo problematico l’irrompere della modernità nella Sardegna rurale. Uno dei temi cardine è il contrasto fra la percezione turistica e la sua realtà effettiva, il fatto che per rendere l’agriturismo più appetibile ai turisti stranieri la famiglia Saru deve rendere la Sardegna e i sardi stessi molto più “primitivi” di quanti essi siano. Secondo te come si sta sviluppando il rapporto fra Sardegna e modernità e come invece si dovrebbe sviluppare?
A questa cosa ti posso rispondere parzialmente. Il libro di Angioni era un libro per certi versi profetico: è stato pubblicato nel 2004 e anticipava questa deriva del turismo, dell’uso smodato della tradizione, della ricerca della primitività a tutti i costi. Il diventare brand da vendere ai turisti, come se l’esperienza turistica in Sardegna fosse più un reality o un safari che un’esperienza concreta all’interno della tradizione e del gusto locali, all’interno della specificità autentica di un luogo. In alcune aree della Sardegna negli ultimi anni sono nati agriturismi che danno la possibilità, dopo pranzo, di fare un “incontro col bandito”: una degenerazione che ha prodotto dei veri e propri reality, dove un bandito o presunto tale arriva al tavolo travestito a uso consumo dei turisti. Un grandioso soggetto di Ennio Flaiano, da cui Marcello Fondato trasse poi I protagonisti, raccontava di un gruppo di gitanti della Costa Smeralda che, annoiati di stare lì nel villaggio, decidono di fare un viaggio nella Sardegna rurale perché un tour operator ante litteram ha promesso loro un incontro con un famoso bandito, con il quale sperano di potersi fare una foto tutti insieme, come da un safari speri di portare a casa la foto con la giraffa. Il soggetto di Flaiano era bellissimo, I protagonisti non è il film migliore di Fondato ma comunque resta un documento molto interessante perché stiamo parlando di una pellicola del 1968, e questo ti dà misura di quanto questa deriva del turismo fosse già in atto quarant’anni fa. Angioni era un grandissimo sociologo e antropologo, ha studiato a fondo il mondo agropastorale, trattandolo nei suoi saggi per poi portarlo, attraverso l’intreccio e l’affabulazione, anche nei suoi romanzi. Non è stato però il dato sociologico, che pure mi interessava, a motivarmi a girare Assandira – per quanto io stesso avvertissi e avverta l’indignazione verso quest’uso morboso della tradizione, una forzatura a danno di poveri Cristi di cui si calpesta completamente la dignità. La cosa che più mi interessava di tutta questa storia era l’idea di un microcosmo umano – una famiglia – tanto sballottata dentro questo mondo fino a perdere i propri punti di riferimento.
Assandira è l'ultima tappa di una lunga tradizione di cinema sardo che fa capo almeno a Banditi a Orgosolo di De Seta, di cui avevi recuperato uno degli attori non professionisti per il film Sonetaula. Dopo le "incursioni" di De Seta e dei Taviani, la Sardegna è diventata una vera e propria terra cinematografica che ha dato i natali a registi significativi come te, Giovanni Columbu, Gianfranco Cabiddu, la new entry Mario Piredda. Come pensi che cambi la narrazione cinematografica della Sardegna quando sono i sardi a farlo?
Fino agli anni ’80, prima che ci fosse una generazione di registi “nativa”, i film più belli sulla Sardegna li avevano fatti tutti dei non sardi, a cominciare da Banditi a Orgosolo di De Seta. De Seta però aveva un’indubbia capacità di diventare un indigeno nei luoghi dove andava, questo emerge benissimo già dai documentari che ha girato negli anni ’50 in Sicilia e Calabria, come Contadini del mare o Un giorno in Barbagia, fino a Contadini di Orgosolo. In questi brevi documentari il suo sguardo mostrava già la capacità di raccontare quei mondi come se in quei posti ci fosse nato, e Banditi a Orgosolo è la realizzazione drammaturgica di quello sguardo, uno sguardo che raccontava benissimo la Sardegna pur provenendo da un regista non sardo. Oggi fortunatamente non è più così, altri registi come Columbu e Piredda hanno dato prova del fatto che si può raccontare questo mondo dall’interno e su questa linea si è collocato anche il lavoro che ho fatto in questi anni, credo che al momento ci siano quattro o cinque autori corregionali che stanno raccontando la Sardegna con uno sguardo da sardi.
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