Après moi le déluge. Melancholia di Lars von Trier e l’apocalittica psicopatologica
La crisi nelle arti dell’occidente è crisi nella misura in cui la rottura con un piano teologico della storia e con il senso che ne derivava (piano della provvidenza, piano dell’evoluzione, piano dialettico dell’idea) diventa non già stimolo per un nuovo sforzo di discesa nel caos e di anabasi verso l’ordine, ma caduta negli inferi, senza ritorno, e idoleggiamento del contingente, del privo di senso, del relativo, dell’irrelato, dell’incomunicabile, del solipsistico… Sussiste il pericolo, nell’attuale congiuntura culturale, di molte catabasi senza anabasi: e questo è certamente malattia.
Ernesto De Martino, La fine del mondo, cap. V
Una donna affetta da depressione manda all’aria il suo matrimonio il giorno stesso delle nozze. Pochi mesi dopo un pianeta gigantesco si scontra con la Terra distruggendo ogni forma di vita, se non il pianeta stesso. Questa è, in una sintesi estrema ma fedele, la trama di Melancholia di Lars von Trier, presentato con non poco clamore al Festival di Cannes 2011, e dove la sua protagonista Kirsten Dunst ha vinto il Prix d'interprétation féminine.
Capitolo centrale della cosiddetta “Trilogia della depressione” del regista danese, Melancholia è allo stesso tempo una riflessione molto attenta e personale sulla depressione e una rappresentazione poetica e orgogliosamente anti-scientifica della fine del mondo. Lo spunto per Trier nacque da una seduta di psicoterapia a seguito di uno dei numerosi episodi depressivi di cui il regista ha fatto esperienza nel corso della vita; in quell’occasione il suo terapeuta gli aveva detto che in situazioni di pericolo le persone affette da depressione reagiscono in un modo più calmo e “razionale” perché pensano in partenza che tutto andrà nel peggiore dei modi. L’idea di questo rovesciamento dei ruoli confluì poi, complice il dilagare sul web di teorie apocalittiche all’avvicinarsi del fatidico 2012, in una storia divisa in due parti: il primo atto, intitolato Justine, dal nome della protagonista, mostra la festa per il matrimonio fra Justine e Michael, che lei rovina isolandosi in camera, rifiutandosi di avere rapporti con il neomarito e facendo sesso infine con un ragazzo a caso; basta questa serata a distruggere il suo matrimonio e a farle perdere il lavoro. Il secondo atto è intitolato Claire, dal nome della sorella della protagonista, interpretata da Charlotte Gainsbourg; mostra Justine, Claire, il figlio e il marito di quest’ultima prepararsi a vedere il passaggio davanti alla Terra del pianeta errante Melancholia, che però all’ultimo – come predetto da Justine – cambia la sua rotta dirigendosi contro il nostro pianeta.
C’è un po’ di Bergman, un po’ di Tarkovskij, un po’ di De Sade e molto del Romanticismo tedesco in questo film, a cominciare dal prologo wagneriano sulle note del Tristano e Isotta. Come già accennavamo, ben poca scienza: a differenza di altri film apocalittici che cercavano di dare una spiegazione scientifica possibile o perlomeno plausibile alla fine del mondo, Melancholia non si prende affatto il disturbo; c’è un pianeta che gira per il cosmo, prima oscura Antares e poi si dirige verso il sistema solare, così è. Scarsa attenzione, come faceva notare il critico statunitense Roger Ebert, anche per un altro dei topoi del cinema apocalittico contemporaneo, il ruolo dei mezzi di comunicazione: fatto salvo un sito internet “complottista” che Claire, facendo innervosire il marito appassionato di astronomia, consulta, il piccolo nucleo famigliare sembra del tutto isolato nella sfarzosa villa di campagna in cui prende luogo tutto il film, non ci sono servizi al telegiornale, dichiarazioni del “Presidente” per raccomandare ai cittadini di mantenere la calma, in effetti non sappiamo neanche in quale paese del mondo siamo. È tutto personale, individuale, soggettivo; ed è tutto raccontato, allo stesso tempo, con un trasporto e una ineluttabilità unici che rendono il pianeta Melancholia lo “scherzo tragico” di una natura maligna che prima mostra agli uomini il corpo celeste che si allontana e poi lo fa tornare contro la Terra – è il bambino ad accorgersene, grazie a un rudimentale strumento fabbricato dal padre. Non c’è nessuna spiegazione logica a questa apocalisse: la morte collettiva e personale è mostrata quale essa è, puro scacco della natura; una natura che addirittura contraddice la scienza, gli scienziati e i loro calcoli – una natura leopardiana, matrigna appunto, o forse, peggio ancora, indifferente. Ontogenesi e filogenesi, o per meglio dire “ontolipsi” e “filolipsi” si danno il cambio fra il primo e il secondo atto per trasmettere lo stesso messaggio di fondo – l’ontogenesi che ricapitola la filogenesi che ricapitola l’ontologia: un pessimismo cosmico risoluto e trionfante, irrazionale e immotivato.
Una linea di lettura che forse non è stata mai esplorata fino in fondo per analizzare il cinema di Lars von Trier dagli esordi fino all’ultimo La casa di Jack è quella che prende in esame l’evoluzione delle posizioni religiose che il regista, fra una provocazione e l’altra, ha dichiarato nelle interviste: figlio di una coppia di comunisti atei in una nazione protestante, a un certo punto della sua vita, sull’inizio degli anni ’90, si è convertito al cattolicesimo, forse più «per fare incazzare un po’» i suoi compatrioti che per altro. Durante la promozione di Antichrist ha iniziato a parlare di un crescente avvicinamento all’ateismo a cui sarebbe infine approdato in concomitanza con la realizzazione di Melancholia: «Sono sicuro che siamo soli nell’Universo. Non c’è nessun dio».
Fra il ’96, anno de Le onde del destino, e il 2000, anno della Palma d’oro a Dancer in the Dark, i personaggi della sua “Trilogia del cuore d’oro” erano stati idealisti puniti dal mondo per l’irriducibile bontà dimostrata in un atto che, in due film su tre, è sacrificio per un'altra persona. Personaggi cristologici tout court. Successivamente, nella sua mai conclusa “Trilogia del sogno americano” – iniziata con Dogville e proseguita con Manderlay –, la protagonista Grace, una donna buona, figlia di un capo criminale, entrava messianicamente in contatto con una comunità rurale. All’inizio i rapporti con i paesani sono buoni, poi degenerano fino a che Grace, esasperata, attua un vero e proprio eccidio della comunità con l’aiuto del padre. Un cristologico un po’ atipico, insomma.
La Trilogia della depressione – che oltre a Melancholia comprende Antichrist, del 2009, e l’opera-mondo Nymphomaniac, del 2013 – fa un passo ulteriore in questa catena di personaggi che dal Cristo dei Vangeli si è andata muovendo verso Nietzsche per approdare a De Sade: protagoniste dei tre film sono donne che, esempi cristallini della concezione del “femminile masochista”, assumono comportamenti violentemente autodistruttivi e distruttivi verso gli altri. Un regista come Tarkovskij, nel suo Sacrificio, che analizzeremo nell’ultimo capitolo di questa rubrica, in una situazione di apocalisse imminente mostrava l’improvviso rivelarsi di un personaggio cristologico che riusciva a cambiare le cose, contro ogni logica e prevedibilità, arrivando a far scomparire ogni ricordo dello scoppio di una guerra nucleare. Lars von Trier attua il procedimento inverso: il suo personaggio para-cristologico Justine è consapevole dell’apocalisse prima degli altri, e non può fare altro che annunciarla. Justine sembra quasi attirare, come fosse un magnete, il pianeta contro la Terra. Ma quando gli altri si accorgono della fine del mondo imminente, con Claire che ha un attacco di panico e suo marito che si suicida, è lei ad officiare un rito, costruendo per il bambino una simbolica capanna sotto la quale i tre personaggi attenderanno la fine tenendosi per mano. In un mondo senza Dio e senza salvezze ci sono personaggi come Justine che, generalmente “suicidati” e stigmatizzati dalla società come il Van Gogh artaudiano, al momento dell’angoscia, quando la situazione si ribalta, sono loro i “sani”, i “lucidi”, e sanno trovare nell’amore e nell’unità ricomposta la via d’uscita da un cosmo nemico dell’uomo.
Il pianeta Melancholia – termine che in inglese significa proprio depressione – potrebbe anche sembrare una proiezione della protagonista. La fine del mondo che segue alla fine del suo matrimonio e della sua vita sociale è sospetta. Non che la seconda parte del film debba essere interpretata come una fantasia di Justine; essa è una narrazione oggettiva all’interno della finzione filmica. Su questo punto non vanno interpretate tanto le dinamiche interne del film quanto il corpo filmico per intero, e le sue strutture portanti. Non è allora difficile ricondurre tutta l’ispirazione a un vissuto della fine del mondo, al Weltuntergangserlebnis analizzato da Karl Jaspers. Si prendano ad esempio le prime scene del secondo atto, quando Justine, a seguito di un nuovo episodio depressivo, torna nella villa di campagna del marito di Claire. Questa, dopo aver faticosamente costretto Justine con l’aiuto del cameriere Little Father a fare un bagno, porta la sorella in sala da pranzo dicendole con un grande sorriso di aver fatto preparare l’arrosto che le piaceva. Sollevata, Justine si siede a tavola e inizia a mangiare la carne, ma subito si blocca con una lacrima: la carne «sa di cenere». Ciò è tipico, come evidenziava Jaspers, di ogni vissuto delirante: «gli oggetti, le persone, gli eventi sono non familiari, spaesati (unheimlich), raccapriccianti, ovvero bizzarri, strani, misteriosi o sovrannaturali»; «oggetti ed eventi significano qualcosa ma di indeterminato», commentava De Martino, ma «questa disposizione delirante senza contenuto determinato è assolutamente insopportabile» e allora il malato si convince di essere oggetto di persecuzioni, o di aver commesso crimini mostruosi, o al contrario di essere stato santificato da un dio, oppure ancora che il suo mondo stia per finire. Questi mutamenti, generalmente disforici e opprimenti per lo stato d’animo di chi ne fa esperienza, possono assumere tratti anche euforici: come si vede ad esempio nella sicurezza e nella serenità che a tratti Justine sembra dimostrare nella seconda parte del film, o nella scena dai colori fatati in cui Claire ritrova la sorella nuda nel bosco e intenta a “specchiarsi” nel pianeta Melancholia sempre più vicino alla Terra.
A un livello non tanto narrativo quanto strutturale, Melancholia può allora essere ricondotto alle esperienze di apocalissi psicopatologica. Nel suo La fine del mondo De Martino parlava di apocalissi psicopatologiche sia in relazione ai case-studies di Jaspers – contadini svizzeri che, anche a seguito del progresso dell’industria, avevano perso i loro punti di riferimento, da ciò ricavando deliri schizofrenici talvolta curiosamente simili al mundus patet dell’Antica Roma – sia riguardo alla letteratura borghese del tardo ’800 e della prima metà del ‘900. Se i contadini svizzeri facevano esperienza di una fine del mondo perché non trovavano più la loro quercia o perché il nuovo era entrato nella natura sotto forma di aeroplani, perché insomma alcuni vecchi legami si erano recisi e il loro mondo rurale era radicalmente cambiato, scrittori occidentali e borghesi quali Sartre, Rimbaud, Montale e Thomas Mann vivevano già in un mondo quasi strutturalmente programmato a creare simili disagi. Non è sempre detto che quella avvertita dai personaggi di questi scrittori sia una fine del mondo in senso stretto come quella che vivono Justine di Melancholia, il Gustav Aschenbach de La morte a Venezia o il contadino di Berna che, a seguito dell'abbattimento di una quercia che era sempre stata davanti casa sua, aveva concepito una visione apocalittica che vedeva il suolo sprofondare portando gli uomini sotto terra, il cui caso clinico apre La fine del mondo di De Martino. L’esperienza apocalittica di personaggi quali il Roquentin di Sartre può anche essere più sottile, come una silenziosa rivolta degli oggetti che lentamente perdono la loro funzione strumentale fino a ribellarsi contro l’uomo. La protagonista di Melancholia si trova così. cronologicamente e artisticamente, alla fine di una schiera personaggi che portano l’apocalisse dentro i loro cuori, e chiude idealmente una narrazione a più voci simbolicamente aperta dal norvegese Edvard Munch all’alba del XX secolo. Vale peraltro la pena notare che Melancholia ha lo stesso titolo che avrebbe avuto il romanzo di Sartre nelle intenzioni dell’autore, prima che l’editore Gallimard suggerisse La nausée.
Il capitolo centrale della Trilogia della depressione è il più cupo: non si chiude con un omicidio, con un sacrificio “espiatorio” come Antichrist o Nymphomaniac, si chiude con la più totale distruzione di ogni forma di vita, ormai bollata come “malattia dell’Universo”, e fa il paio con il capitolo finale de La casa di Jack, prolungamento della Trilogia, con il serial killer protagonista della vicenda che scende nell’Inferno dantesco senza uscire a riveder le stelle, anzi, sprofondando nelle fiamme dei dannati che forse conducono all’unico Dio crudele. Il dramma dell’Occidente contemporaneo, la sua potenziale crisi senza precedenti nella storia dell’uomo, sta tanto nell’assenza di un Dio a cui ricondurre l’agire quotidiano, quanto nella nuclearizzazione di una società i cui membri sono sempre più isolati l’uno rispetto all’altro – insomma nell’assenza di un eschaton comunitario e trascendente che dia respiro alla crisi attuale. Allora anche i riti di festa diventano indigesti, aridi, fin troppo platealmente falsi: la madre di Justine (Charlotte Rampling) l’ha già capito, e non aiuta il già instabile equilibrio psichico della figlia alzandosi in piedi a dire di non credere al matrimonio; ma se quella della madre della sposa è una ribellione sterile e tutto sommato un po’ ipocrita, la protagonista, così come anche il protagonista di Festen di Thomas Vinterberg, dà voce a una rivoluzione autodistruttiva, che la porta ad attirare contro di sé le “maledizioni” di tutti gli invitati, dal wedding planner nevrotico Udo Kier fino al suo stesso marito. La depressione può assumere, per chi ne fa esperienza, tratti di violenta epifania: epifania dell’artificialità dei valori che regolano il proprio mondo, dolorosa consapevolezza di non potervi più aderire e, allo stesso tempo, di non poterne creare dei nuovi. Allora ben venga una fine del mondo, in un cupio dissolvi che non si limiti alla propria persona come un suicidio ma che sia desiderio di distruzione totale, unica dissoluzione di un dolore individuale tanto profondo quanto apparentemente “immotivato”.