Con il digitale, alla ricerca della verità della pellicola. Conversazione con Vladan Radovic
In occasione dell’uscita del volume Il traditore, raccontato dall’autore della fotografia Vladan Radovic, pubblichiamo qui un’intervista più breve e generale sul percorso di Radovic. Nato a Sarajevo, esordisce come autore della fotografia nei primi anni Duemila, distinguendosi presto come uno degli artisti della luce più capaci e versatili della sua generazione. Tre volte candidato ai Nastri d’argento, nel 2015 ha vinto il David di Donatello per la fotografia di Anime nere, ricevendo una seconda candidatura nel 2017 per La pazza gioia. Nel 2019 Il traditore vede la collaborazione con Marco Bellocchio, che gli frutta diversi nuovi premi e candidature, tra le quali la candidatura al David di Donatello per la Migliore fotografia.
Quali sono le tue origini, e in che modo ti sei formato come cinematographer e hai iniziato a lavorare nel settore?
Fin da bambino sono sempre stato appassionato di cinema e di fotografia. Mio padre è un documentarista e spesso mi portava con sé nelle sue giornate di lavoro. Un giorno è tornato a casa con un regalo per me, dicendo che quell’oggetto avrebbe potuto interessarmi, era un ingranditore. Da allora ho iniziato a sviluppare rullini e stampare fotografie nel bagno di casa mia… Un’altra passione d’infanzia erano i libri d’arte che mio padre collezionava e che passavo lunghi pomeriggi a sfogliare. Sono abbastanza convinto che quest’attività abbia contribuito molto a formare il mio immaginario e il mio modo di “vedere”… Infatti ancora oggi quando leggo una sceneggiatura la associo visivamente a uno o più pittori.È un processo creativo irrazionale dal quale mi faccio “inquinare” per creare le immagini del film. Appena finito il liceo ho fatto il test d’ingresso alla scuola di cinema di Belgrado. E non mi hanno preso. Nell’estate del 1992 sono venuto in Italia, avevo 22 anni; contavo di fermarmi solo un paio di mesi, poi la situazione politica in Jugoslavia si è aggravata e ho deciso di rimanere. Mio padre aveva degli amici a Pisa; mi hanno ospitato e trovato un lavoro in una scuderia di cavalli. È stato un periodo molto bello e ancora oggi i cavalli sono una mia grande passione. Quando c’erano le gare, scattavo fotografie ai fantini e alle corse, e le portavo a sviluppare nel laboratorio di Lucca dove con il tempo ho fatto amicizia con gli stampatori che alla fine mi hanno preso a lavorare con loro. Ho lasciato i cavalli per la stampa, con la quale mi sono cimentato per un paio d’anni facendo anche fotografie di matrimoni nel fine settimana. Guadagnavo bene, ma sapevo che prima o poi avrei fatto il Cinema. Così un giorno sono andato a Roma e ho tentato l’iscrizione al Centro Sperimentale di Cinematografia. Il corso era tenuto dal grande Giuseppe Rotunno che è stato il mio maestro assoluto e al quale sono ancora legatissimo. Da quel momento è iniziato un lungo e bellissimo percorso che mi ha portato dove mi trovo ora (mi ritengo ancora alla ricerca..!), fatto di grandi esperienze e profonde amicizie…
L’inizio della tua carriera si è intrecciato con l’inizio della carriera registica di Francesco Munzi. Come è nata questa collaborazione e cosa ti ha portato?
Francesco stava preparando il suo primo film, Samir, ha visto un cortometraggio che ho fatto ‒ Racconto di guerra di Mario Amura ‒ e mi ha chiesto di collaborare. Ci siamo incontrati ed c’è stata una buona intesa dall’inizio. E abbiamo fatto insieme il nostro esordio. Il film è andato a Venezia e ha ottenuto un buon successo di critica e di pubblico. Fu un ottimo inizio per Francesco e diede anche a me una grande visibilità. Poi abbiamo fatto altri due film che hanno avuto successo internazionale.
L’impressionante fotografia di Anime nere, drammatica storia di mafia ambientata nella provincia calabrese, ti ha fruttato il primo David. Come hai lavorato per ottenere le tinte cupe di questo film, di cui, se non ricordo male, una parte consistente delle scene sono in notturna?
Durante la preparazione del film abbiamo passato molto tempo in Calabria a fare sopralluoghi. Francesco mi ha chiesto se potevo “spegnere” il sole calabrese e questa richiesta apparentemente assurda è stata di grande ispirazione. Anche il paesaggio calabrese offriva moltissimi spunti visivi. I contrasti tra le bellezze naturali e l’orrore dell’abusivismo edilizio, il mare e le lande desolate. Queste forti suggestioni visive accompagnate dalle esperienze umane vissute durante i sopralluoghi hanno dato forma e profondità alla storia e alla sceneggiatura e di conseguenza al mio lavoro. Perché, come dice il mio maestro Peppino Rotunno, la fotografia deve essere al servizio del racconto…
In tempi più recenti hai iniziato anche a collaborare con Laura Bispuri, girando con lei il corto Biondina e i suoi film Vergine giurata e Figlia mia, acclamati a Berlino. Credi che cambi qualcosa per un direttore della fotografia lavorare con una regista donna, soprattutto se affronta tematiche come quelle della Bispuri?
Partiamo dal presupposto che sono “femminista”. Dico questo per far riflettere sul fatto che nel lavoro che facciamo non deve esserci nessuna differenza di genere. Non è il genere a fare la differenza bensì il talento e la creatività di ogni individuo. Anche nello scegliere gli elementi della mia squadra mi baso solo su questi criteri, cerco persone brave e di talento, che siano donne o uomini, e mi baso molto sulle loro capacità. Il mio è un lavoro di squadra e molto spesso ho più donne che uomini all’interno del mio reparto, perché le donne sono bravissime a fare questo lavoro. Con Laura abbiamo fatto due cortometraggi. E già dopo il primo sapevamo che avremmo fatto un lungo percorso comune, un biglietto di sola andata che ancora non sapevamo dove ci avrebbe portato e che ci ha fatto fare due bellissimi viaggi creativi insieme. Lei nei suoi film affronta con sensibilità e intelligenza tematiche delicate, e ho trovato fin da subito affinità con il mio mondo. Con lei ogni progetto comportava una nuova sfida. Ad esempio, in Vergine giurata, abbiamo cercato con la fotografia di unire due mondi apparentemente in totale contrasto per avvicinarci alla visione della protagonista.
Il tuo nome è associato a ottimi film del realismo cinematografico. Nondimeno ti sei cimentato anche con la commedia, collaborando in particolare con Paolo Virzì per La pazza gioia, Notti magiche e Tutti i santi giorni. Cosa cambia per te, a livello di luce e di inquadrature, quando si passa da un realismo drammatico alla commedia?
Ognuno di noi quando legge una storia, immagina delle atmosfere che sono legate al racconto. Quando ci immergiamo in una storia tutti immaginiamo la scena nella nostra mente, chiaramente ognuno a modo suo (e questo è il bello). Mentre la maggior parte delle persone lo fa nella propria fantasia, io, per lavoro, devo concretizzare e rendere visibile a tutti quell’immagine. Questa immagine deve essere funzionale al tipo di racconto che facciamo (Peppino ce lo ripeteva tante tante volte… quindi non ho paura di ripetere la storia della luce al servizio della storia…).
Con Sydney Sybilia e Matteo Rovere ti sei affacciato anche al cinema di genere con la trilogia di Smetto quando voglio. Come è stata per te questa esperienza?
È stata un’esperienza magnifica! Ho avuto la fortuna di incontrare un giovane “luminare” Sydney che mi ha spinto a uscire fuori dagli schemi di colore. Anche in questo caso la mia luce ha seguito la linea del racconto. E partendo dallo spettro di colori fisici (quello studiato da Newton per intenderci), siamo entrati nel mondo della “chimica”, esplorando colori per così dire “sintetici” che ovviamente rispecchiavano gli stati alterati dei personaggi. Ci siamo divertiti così tanto che lo abbiamo fatto per tre volte…
Nella tua filmografia più recente spicca Il traditore di Marco Bellocchio, girato tra Italia e Brasile e presentato a Cannes a maggio 2019. Come sei arrivato a collaborare con Bellocchio e quali nuove sfide ti ha portato questa pellicola?
Una volta ho letto in un’intervista di Marco Bellocchio, al quale hanno fatto la stessa domanda, che ha scelto me perché il suo direttore della fotografia era occupato. Il traditore è un film bellissimo fatto da un grande maestro, girato in molti mesi e in tanti paesi diversi. La scoperta era osservare questo signore giovanissimo al lavoro, e insieme a lui imparare così tanto. Ero io a sentirmi più anziano accanto a lui. La sua libertà di spirito e il suo estro creativo vanno davvero oltre l’immaginazione e mi hanno dato tantissimo. Una grande lezione che ho tratto da lui è che il Cinema è semplice ‒ che detto così può sembrare riduttivo ‒ ma il senso vero e profondo è che quando hai una buona idea non devi aggiungere altro.
Quali sono i tuoi modelli e maestri nell’arte della fotografia cinematografica?
Federico Fellini prima di tutto! Essendo uno dei registi preferiti di Rotunno, ho ereditato questa passione. Dopodiché più che maestri ci sono dei film (quasi dei matrimoni) che mi hanno segnato la vita. John Alcott e Stanley Kubrick con Barry Lyndon, Bill Butler e Milos Forman con Qualcuno volò sul nido del cuculo, Robby Muller e Jim Jarmusch in Down by Law. La lista è molto lunga, ma mi fermo qui. Poi, visto che si comincia a invecchiare, la mia regola è imparare dai giovani (Munzi, Sybilia, Rovere, Bellocchio…) e per adesso sto andando bene spero…
Preferisci assumere anche il ruolo di operatore o dopo aver impostato le luci affidi il compito a un altro?
Una volta il direttore della fotografia si firmava come “operatore”. E questo perché i due ruoli sono sempre stati molto legati. E anche ora che normalmente sono due figure distinte ci deve essere un grandissima intesa tra i due professionisti. Solo quando avviene questa fusione tra lo sguardo creativo dell’operatore e l’idea del DOP, allora si realizza quella magia, quel qualcosa in più che fa la differenza, e si crea un’immagine. Credo che molto di questo abbia anche a che fare con i rapporti umani.
Tu hai iniziato a lavorare come direttore della fotografia negli stessi anni del passaggio dalla pellicola al digitale. Cosa prediligi della pellicola e quali vantaggi invece dà, a tuo parere, il digitale? Se giri in digitale, quale modello di macchina da presa preferisci?
La pellicola ha di buono che ha raggiunto la perfezione. Mi spiego, oggi noi con il digitale ‒ che ha potenzialità infinite ‒ ci rifacciamo agli splendidi modelli che la pellicola ha creato con la sua storia. Nella maggior parte dei casi cerchiamo di dare un “effetto pellicola” alle nostre immagini digitali. Ormai è banale dirlo, ma abbiamo capito che l’eccessiva risoluzione e qualità toglie verità alle immagini. Quella grana e quel difetto chimico sono portatori di una verità che ha che fare con la vita di ognuno di noi, bella e imperfetta.