Ricordo di Gianni Di Venanzo, uno dei più grandi innovatori della fotografia cinematografica
Gianni Di Venanzo è considerato dalla maggior parte degli addetti ai lavori come il più importante e innovativo autore della fotografia dell’Italia del dopoguerra. Figlio di Enrico e Palmina, Feliciano (questo il vero nome) Di Venanzo nacque a Teramo il 18 dicembre del 1920. Ebbe due sorelle, Delia e Giulia. Non ancora maggiorenne, si trasferisce con la famiglia a Roma, dove inizia a frequentare l’appena nato Centro Sperimentale di Cinematografia, che però, dopo appena un anno, nel 1941 abbandona per entrare in qualità di assistente operatore nella troupe di Massimo Terzano ‒ tra i maestri del bianco e nero dell’epoca ‒ per il film Un colpo di pistola (1942) di Renato Castellani, alla sua prima regia, con Assia Noris, Fosco Giachetti e Antonio Centa. Sempre nello stesso anno collabora quindi con Tino Santoni per Miliardi, che follia! (1942) di Guido Brignone, dove è accreditato come Feliciano, e con Aldo Tonti per Fari nella nebbia (1942) di Gianni Franciolini, fino a quando è costretto a interrompere la propria esperienza cinematografica perché richiamato alle armi: presta servizio presso il reparto cinematografico dell’esercito.
Come operatore alla macchina Di Venanzo collabora nuovamente con Tonti che insieme a Domenico Scala firma la fotografia di Ossessione (1943) di Luchino Visconti; con Ubaldo Arata prende parte, come assistente operatore, a Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, mentre con Otello Martelli partecipa a Paisà (1946), diretto ancora da Rossellini e, nelle vesti di co-operatore insieme a Carlo Carlini, a Caccia tragica (1947) di Giuseppe De Santis. È quindi operatore alla macchina per una vera e propria leggenda della nostra cinematografia G.R. Aldò in La terra trema di Visconti (1948) e in Miracolo a Milano di Vittorio De Sica nel 1951. Infine, insieme a Michel Kelber, è operatore in La bellezza del diavolo (1949) di René Clair.
Queste collaborazioni maturarono in un periodo chiave per la fotografia cinematografica italiana, fino ad allora improntata a un’illuminazione di stampo classico, piuttosto autonoma rispetto alla narrazione, e in quel momento improvvisamente proiettata nel mondo nuovo del dopoguerra. Era necessario innovare il modo di lavorare anche per le difficoltà economiche del periodo, per la difficoltà nel reperire sistemi di illuminazione tradizionali, e soprattutto per le opportunità di girare dal vero e in spazi aperti. Di Venanzo, muovendosi all’interno del Neorealismo, riesce a fare sua l’esigenza di cambiamento della fotografia cinematografica del tempo: abbandonare la teatralità della luce, propria degli studi cinematografici, per far ricorso anche a fonti naturali e reali (lampioni, abajour, insegne luminose), in nome di un’illuminazione più autentica.
Così, dopo la tragica, prematura scomparsa di Aldò, avvenuta nel 1953 in seguito a un incidente stradale durante la lavorazione di Senso di Luchino Visconti, Di Venanzo raccolse la sua grande lezione, facendola propria unitamente alle esperienze con Terzano e Martelli.
Parallelamente alla collaborazione con i grandi cinematographers appena citati, Di Venanzo illumina diversi cortometraggi ‒ Ponti e porte di Roma, La primavera del papa, Procida ‒ e documentari, in particolare sotto la regia di Marcello Pagliero. Nel 1945 è tra i responsabili delle riprese del documentario Giorni di gloria (1945), co-firmato da Luchino Visconti, Giuseppe De Santis, Marcello Pagliero e Mario Serandrei, nel quale riprende la fucilazione dei nazifascisti Pietro Caruso, Federico Scarpato e Pietro Koch.
L’esordio ufficiale come autore della fotografia in un lungometraggio avviene con Carlo Lizzani con il film Achtung! Banditi! (1951), con Andrea Checchi e Gina Lollobrigida. Di Venanzo illumina il film in chiave naturalistica, con uno tocco moderno: operatore alla macchina Carlo Di Palma, insieme al quale era stato assistente dell’operatore Vincenzo Seratrice in Roma città aperta.
Decisivo poi il film a episodi, prodotto da Marco Ferreri, L’amore in città (1953): la pellicola, costruita su un progetto di Cesare Zavattini, lo porta di fatto all’attenzione del cinema italiano. Grazie a L’amore in città, girato quasi tutto in esterni e in ambienti reali, Di Venanzo ha la possibilità di lavorare e confrontarsi con registi del calibro di Carlo Lizzani ‒ con cui aveva già collaborato e collaborerà nuovamente per Cronache di poveri amanti del 1954 ‒, Michelangelo Antonioni, Francesco “Citto” Maselli, Federico Fellini, Dino Risi e Alberto Lattuada. È l’inizio di una carriera folgorante che in poco più di un decennio ne sancisce la leggenda: uno stile, quello di Di Venanzo, segnato da decisi contrasti tra luci e ombre, che trova il suo tratto distintivo nell’uso della luce diffusa, soprattutto riflessa, declinata facendo ricorso a tessuti, lenzuoli, panni bianchi o polistiroli, in alcune tra le pagine più belle della nostra fotografia cinematografica. Maestro del bianco e nero, ebbe il merito di liberarsi definitivamente delle limitazioni dovute a un tipo di illuminazione “pesante” ‒ si pensi ad esempio ai pesantissimi e ingombranti “bruti”, proiettori che di norma illuminavano i set dall’alto ‒, aiutando di fatto il regista a sfruttare appieno le potenzialità e le possibilità della macchina da presa, anche e soprattutto in relazione allo spazio, trovando un equilibrio tra l’uso delle piccole fonti di luce (photofloods/photospots montate su pinze) e l’illuminazione di stampo classico. Sebbene per gli esterni si utilizzassero archi e proiettori, non mancò di illuminarli anche con le photofloods, quando necessario: è noto che inventò una struttura in legno simile a una cornice, sulla quale erano sistemate proprio queste lampade, che poteva essere applicata intorno alla macchina da presa, sulla sua parte anteriore. L’aver “facilitato” l’illuminazione comportò anche una maggiore velocità nell’allestimento del set: qualità che non dispiaceva affatto ai produttori. Al fianco di Michelangelo Antonioni ‒ insieme al quale girerà Le amiche (1955), Il grido (1957), primo suo nastro d’argento, dove l’elemento della nebbia contribuisce a rafforzare la luce diffusa, La notte (1961) e L’eclisse (1962) ‒ si compie la sua ricerca stilistico/tecnica che riesce destrutturando definitivamente l’artificiale luminosità del set, dando luce a sentimenti e moti dell’animo umano, portando a maturazione la lezione di Enzo Serafin, che lo aveva preceduto al fianco di Antonioni per Cronaca di un amore (1950) e La signora senza camelie (1954). Con Gianni Di Venanzo il set acquisisce una dimensione simbolica e realistica allo stesso tempo: i codici visivi della rappresentazione/messa in scena cinematografica di colpo appaiono rivoluzionari e moderni. Una fotografia mai compiaciuta e sempre al servizio della narrazione, della costruzione dei personaggi e delle loro dinamiche psicologiche.
Oltre alla collaborazione con Antonioni, ricordiamo quelle con Valerio Zurlini ne Le ragazze di San Frediano, (1955), Antonio Pietrangeli ne Lo scapolo (1956), Mario Monicelli ne I soliti ignoti (1958), Francesco Rosi ne La sfida (1958), I magliari (1959), secondo nastro d’argento, Salvatore Giuliano (1962), terzo nastro d’argento, Le mani sulla città,(1963), Il momento della verità, 1965), Mario Camerini in Crimen (1960), Joseph Losey in Eva (1962), Lina Wertmüller ne I basilischi (1963), Luigi Comencini ne La ragazza di Bube (1963) e Citto Maselli ne Gli sbandati (1955), I delfini (1960) e ne Gli indifferenti (1964). In quest’ultimo film, Di Venanzo stabilisce con Maselli, allievo di Antonioni, una collaborazione particolare: sin dai provini decidono di rinunciare al controluce ed elaborano una illuminazione al limite della sottoesposizione, spenta, che caratterizza l’intera opera, avvolgendola di un’atmosfera funerea. Contemporaneamente Di Venanzo si cimenta nella fotografia di pellicole ascrivibili al genere “musicarello”, Nel blu dipinto di blu (1959) di Piero Tellini, con Domenico Modugno, e Urlatori alla sbarra (1960) di Lucio Fulci, con Adriano Celentano.
Sotto l’egida di Di Venanzo si formano come operatori alla macchina i futuri autori della fotografia Erico Menczer e Pasqualino De Santis. Il primo fu il fedele collaboratore di Di Venanzo fino al 1960, quando esordì alla direzione fotografica con il film Le pillole di Ercole di Luciano Salce; il secondo, a partire da La notte (1961) in poi, sarà l’operatore di riferimento di Gianni in tutti i successivi film. Fu lo stesso Menczer a suggerire a Di Venanzo due nomi per sostituirlo, quello di De Santis appunto e quello di Luigi Kuveiller: quando Di Venanzo, per La notte, scelse De Santis, Menczer prese con sé Kuveiller per Le pillole di Ercole. Come è noto Di Venanzo non prese di buon grado la decisione di Menczer di sciogliere il loro sodalizio per passare alla direzione fotografica: insieme avevano trovato una perfetta sintonia e il suo abbandono lo turbò molto.
Con Federico Fellini Di Venanzo illumina quello che tutti considerano essere stato il capolavoro di entrambi: 8½ (1963), che gli varrà il quarto nastro d’argento. Il film ‒ premiato con due Oscar: miglior film straniero e i costumi di Piero Gherardi ‒ negli anni sarà vera e propria fonte d’ispirazione per intere generazioni di registi. Per quest’opera epocale Di Venanzo seppe rendere il tono fantastico della storia al pari della sua sospensione onirica: una fotografia che segna il trionfo dei bianchi e dei neri, senza tonalità intermedie. Il carosello finale di tutti i personaggi del film, declinato sulle note di Nino Rota (La passerella d’addio), è un vero e proprio inno all’arte e alla vita, e tra i finali più celebri dell’intera storia del cinema.
Al fianco di Fellini, Di Venanzo fotograferà ancora Giulietta degli spiriti (1965), il primo lungometraggio a colori del regista. Un film in cui il cinematographer alterna volti in ombra a scenografie illuminate con tonalità sgargianti, con una voluta dialettica tra colori vivi e zone più in ombra. C’è da sottolineare come l’approccio di Di Venanzo nei riguardi del colore sia stato lo stesso di quello applicato al bianco e nero, o meglio si può dire che tentò di riprodurre nel colore le possibilità del bianco e nero. Per lui forse il colore era troppo vicino alla realtà, mentre con il bianco e nero poteva manipolarla di più, piegandola al proprio gusto e creando le atmosfere più consone alla storia da rappresentare. Tra le poche occasioni di confronto con il colore, il primo film era stato la commedia musicale Quando tramonta il sole (1955) di Guido Brignone, da segnalare poi il film biografico Kean - Genio e sregolatezza (1956) di e con Vittorio Gassman, Il momento della verità (1965) di Francesco Rosi (che Di Venanzo non porterà a termine per raggiungere Fellini in Giulietta degli spiriti), e La decima vittima (1965) di Elio Petri, opera futuristica interpretata da Marcello Mastroianni, Ursula Andress ed Elsa Martinelli.
Di Venanzo scompare prematuramente, a causa di un’epatite fulminante, all’età di quarantacinque anni, a Roma, il 3 gennaio del 1966, mentre è impegnato sul set del suo primo lavoro statunitense, Masquerade (The Honey Pot), per la regia di Joseph L. Mankiewicz, film che il suo allievo Pasqualino De Santis, futuro primo Premio Oscar italiano per la fotografia di Romeo e Giulietta di Franco Zeffirelli, impegnato lì come operatore alla macchina, avrà il triste compito di portare a termine raccogliendo di fatto la sua grande lezione. Nell’edizione dei Nastri d’argento del 1967, gli verrà assegnato il quinto Nastro alla memoria per Giulietta degli spiriti, tra il grande rammarico dei suoi collaboratori ed estimatori per una vita e una carriera spezzata nel fiore degli anni.
Gianni Di Venanzo ebbe due figli, Mariella e Massimo, nati dall’unione con Vincenza Fusco; fu la signora Di Venanzo a consigliargli di firmarsi come Gianni. Dopo la scomparsa del padre, Massimo si forma al fianco di due grandi amici e colleghi di Gianni: Giuseppe Rotunno, con il quale Gianni aveva diviso tra l’altro l’esperienza del servizio militare, e Carlo Di Palma. Come autore della cinematografia, Massimo legherà quindi il suo nome principalmente al regista Tinto Brass: L’uomo che guarda, Così fan tutte, Monella, Trasgredire.
In onore dell’illustre concittadino, proprio a Teramo si celebra il prestigioso Premio Internazionale della Fotografia Cinematografica Gianni Di Venanzo, giunto quest'anno alla XXV Edizione con una giuria di professionisti del settore presieduta attualmente dal critico e saggista cinematografico Stefano Masi, premio ideato dall’Associazione Teramo Nostra su intuizione del direttore artistico Sandro Melarangelo e del presidente Piero Chiarini. Gli Esposimetri d’oro, questa la denominazione dell’ambito riconoscimento, vengono assegnati per le seguenti categorie: miglior fotografia italiana, straniera, alla carriera e alla memoria. Un premio che omaggia la figura iconica e il talento di Di Venanzo, di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita, e che ancora oggi continua ad essere fonte di ispirazione per le nuove generazioni di cinematographers.
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