Ritorno all'immediatezza. Conversazione con Fabio Cianchetti sulla collaborazione con Bernardo Bertolucci
Fabio Cianchetti (Bergamo, 1952) è un direttore della fotografia italiano, noto soprattutto per la sua collaborazione con Ricky Tognazzi (Canone inverso, per cui ha vinto il David di Donatello), Saverio Costanzo (La solitudine dei numeri primi e Hungry Hearts), Roberto Benigni (La tigre e la neve), Abel Ferrara (Go Go Tales) e i fratelli Giuseppe e Bernardo Bertolucci. Lo abbiamo intervistato ripercorrendo la sua formazione e approfondendo la collaborazione con Bernardo Bertolucci per L’assedio, The Dreamers e Io e te.
Qual è stata la tua formazione cinematografica e accanto a quali direttori della fotografia hai lavorato all'inizio della tua carriera?
La mia formazione è un po’ atipica, perché ho cominciato nel 1968-1970, ai tempi del Movimento studentesco, realizzando documentari sulle manifestazioni di quel periodo. Mi occupavo di cinema e assieme ad altri ragazzi avevo fondato una cooperativa, la Albedo Cinematografica, e invitavamo ogni tanto alcuni registi a parlare. È stato lì che ho conosciuto Giuseppe Bertolucci, con il quale si è stabilito subito un ottimo rapporto. Non ho avuto altra formazione: come assistente ho fatto solamente un film, in Grecia, Il cortile di Atene, girato da un amico di Angelopoulos, Dimitri Makris con alla fotografia Arri Stavros. Da un punto di vista fotografico il film era fatto con “niente”, davvero con nessuna luce di scena, dal momento che eravamo ad agosto ad Atene e come set si era scelta una casa dove non c’era il soffitto. Per controllare la luce Arri usava soltanto dei panni neri e dei panni bianchi, nessun gruppo elettrogeno. La mia carriera è iniziata da questi set indipendenti ma molto interessanti, nei quali imparavi ad arrangiarti: quella de Il cortile di Atene è stata l’unica esperienza in cui ho imparato da un altro, poi ho fatto molta esperienza in autonomia sia come documentarista sia nel campo della moda.
Uno dei tuoi primi film come direttore della fotografia, datato 1988, è stato I cammelli di Giuseppe Bertolucci. Come si svolse la vostra collaborazione su quel primo film insieme?
Con Giuseppe c’era un bel rapporto: lui mi raccontava quello che voleva e poi mi lasciava molto spazio, nello scegliere il look del film. Il look del film, del resto, dipende da un insieme di fattori, non solo dalla fotografia: anche la scenografia deve avere i colori giusti, così come i costumi, e se il regista sa mettere le persone giuste nei ruoli giusti l’illuminazione viene di conseguenza. C’è questa leggenda per cui il direttore della fotografia ha la “tavolozza dei colori”, ma non è vero: è il regista ad averla, quando mette il suo direttore della fotografia insieme allo scenografo e al costumista e a tutti gli altri reparti. In quegli anni con la famiglia Bertolucci ho realizzato anche un documentario molto lungo su Attilio Bertolucci, il papà di Giuseppe e Bernardo, grande poeta. Sono stato un mese a casa sua a riprenderlo mentre leggeva un suo libro di poesie, La camera da letto. Così si è stabilito un rapporto stretto con tutta la famiglia, e in quell’occasione ho conosciuto anche Bernardo.
Al fianco di Giuseppe Bertolucci hai lavorato anche su Amori in corso (1989), Troppo sole (1994), Il dolce rumore della vita (1999) e L'amore probabilmente (2001). Come si è sviluppata la collaborazione tra voi due? Cosa accomunava e cosa differenziava i cinque film che hai girato con Giuseppe?
Giuseppe ha affrontato nei suoi film temi molto diversi l’uno dall’altro, ma con un trait d’union. Si sente che anche Troppo sole, che virava sul versante grottesco-comico, proviene dalla stessa mente creativa degli altri. Fra i film grandissime differenze non ce ne sono, ma il nostro rapporto è cresciuto. A un certo punto Giuseppe ha deciso di non voler più lavorare per il cinema: i suoi film erano molto belli, ma non concedeva molto al pubblico, non si sforzava di far innamorare gli spettatori ai personaggi, quindi tutti i suoi lavori andavano bene a livello di critica ma non attiravano molto pubblico. Giuseppe ne prese atto e nei primi anni Duemila decise di smettere di fare film e si dedicò al teatro.
La tua prima collaborazione con Bernardo Bertolucci è datata 1989: la fotografia del corto Bologna, in co-regia con Giuseppe, parte del film collettivo 12 registi per 12 città. I fratelli Bertolucci come avevano scelto di raccontare Bologna? Come ti trovasti a collaborare con Bernardo, allora fresco vincitore dei molteplici Oscar de L'ultimo imperatore?
12 registi per 12 città era un lavoro molto bello, anche Antonioni vi contribuì con un corto su Roma: si trattava più che altro di “film di immagini” più che di vere e proprie storie. I fratelli Bertolucci, anche se erano di Parma, erano stati chiamati a realizzare il capitolo su Bologna. Il mio rapporto con Bernardo ovviamente si era sviluppato attraverso Giuseppe: spesso Bernardo ci veniva a trovare, quando stavamo lavorando sul set di uno dei nostri film. Il cortometraggio su Bologna è stato scritto principalmente da Bernardo ed è stato diretto principalmente da Giuseppe, ma, registicamente parlando, mi sembravano quasi intercambiabili: a volte quasi non mi accorgevo di qual era l’inquadratura di Giuseppe e qual era l’inquadratura di Bernardo. Da un punto di vista tecnico, giravamo in 35 mm con la BL. A differenza di altri registi, Giuseppe Bertolucci non disdegnava lo zoom e usava molto il braccio meccanico per fare movimenti di macchina articolati. A volte però subentravano anche la macchina a mano e altri modi più liberi di ripresa. Questo però era tipico anche di Bernardo: a volte usavo la macchina a mano, un altro operatore usava la Steadycam e un terzo operatore lavorava con la macchina “normale”, statica, e Bernardo solo al montaggio decideva quale inquadratura preferiva.
Il tuo primo vero e proprio film con il solo Bernardo Bertolucci arrivò nel 1998, con L'assedio, tratto da un racconto di James Lasdun e originariamente destinato alla televisione. Si trattava di un film decisamente innovativo per la filmografia di Bernardo, un lavoro a basso budget girato con molta libertà creativa a Roma in 28 giorni di riprese, segnando per il regista una sorta di parziale "ritorno all'informale". Come nacque il tuo coinvolgimento nel film? Com'era impostato, da un punto di vista produttivo e organizzativo, il set de L'assedio?
Gli ultimi film di Bernardo Bertolucci, premiati con l’Oscar, lo avevano un po’ imbrigliato in un modo di lavorare “all’americana”, iper-organizzato, con una pianificazione millimetrica delle settimane di ripresa, ma a Bernardo piaceva molto anche lavorare di pancia, lasciarsi trasportare dalle emozioni del momento. Quando girammo L’assedio Bernardo voleva cambiare, tornare ai film che faceva a inizio carriera, e quel nostro primo film assieme sicuramente risentiva di questo suo bisogno. L’assedio secondo me è il più bel film dei tre che ho fatto con Bernardo, quello in cui lui si è liberato di ogni sovrastruttura tecnica e formale: non parlavamo di come fare le inquadrature, le facevamo direttamente. Dopo esserci sfiorati per il documentario su Attilio e per il cortometraggio su Bologna, è stato sul set de L’assedio che sono riuscito a legare molto con Bernardo Bertolucci.
Sei arrivato ad affiancare Bernardo Bertolucci dopo che lui aveva concluso una lunga e storica collaborazione con Vittorio Storaro, da Il conformista a Piccolo Buddha, e dopo un più breve incontro con Darius Kondhji per Io ballo sola. In un'intervista che rilasciò ad Anne Wiazemsky poco dopo l'uscita de L'assedio, a proposito della collaborazione con te Bertolucci dice: "Mi ha fatto sentire come quando ho iniziato a fare film: con Storaro abbiamo sempre impiegato parecchio tempo a decidere le inquadrature, mentre adesso sentivo che ogni ripresa ne faceva nascere un'altra, e poi un'altra, e così via, arrivando fino a 20-30 inquadrature a giornata”. Perché pensi che Bernardo abbia sentito il bisogno di rinnovare il look visivo dei suoi film? Qual è stato il tuo apporto al suo cinema in termini di spontaneità e come si muoveva sul set?
Finito il rapporto con Storaro, Bertolucci non voleva grossi impegni tecnici: gli interni della casa erano ampi ma, lavorando accanto a piazza di Spagna, non avremmo mai potuto montare gru e luci dall’esterno. Abbiamo cercato di usare queste limitazioni in maniera creativa. Mi impegnai a fondo per lasciare libertà di movimento a Bernardo, per non intralciare il set con le luci, e così lui poté realizzare molte inquadrature al giorno: Bernardo aveva un’ispirazione e un senso dell’inquadratura unici, come “risolvere” una scena gli veniva in mente sul momento ed era sempre un’ottima soluzione. Molti registi impostano una scena registrando molte “coperture”: campi, controcampi, master, primi piani, dettagli, per rendere più fruibile e comprensibile la storia in fase di montaggio: si perde molto tempo a girare tutte queste inquadrature. Bernardo invece seguiva un suo sentimento istintivo e andava avanti in quella direzione. Non perdeva tempo per essere sicuro di avere tutto al montaggio.
Dice ancora Bertolucci: "Ho chiesto [a Fabio Cianchetti] di non pensare, di non elaborare troppo la cosiddetta ideologia dell'illuminazione. Avevo bisogno di questa sorta di immediatezza, per cui gli ho detto: Ti prego, non cercare luci eleganti per questo film: torneremo alle origini, quando il buio era troppo buio e la luce del sole era troppo forte". “Ho fatto anche una cosa che quindici anni fa avrei condannato, ovvero mescolare le riprese fatte con la camera a mano con altre fatte con la steadycam o con il dolly, tutto questo messo insieme senza preoccuparmi minimamente della continuità". Ricordi che fosse molto presente, sul set de L'assedio, questa libertà, questa sperimentazione tecnica? Pensi che fosse un modo, da parte di Bertolucci, per riallacciarsi spiritualmente al modello della Nouvelle Vague?
L’influsso della Nouvelle Vague era sempre presente in lui, veniva continuamente evocata sul set de L’assedio. In The Dreamers Bernardo ha usato degli spezzoni di film della Nouvelle Vague, a mo’ di omaggio, e abbiamo replicato al Louvre la celebre scena di Band à part di Godard. Sul set de L’assedio si respirava la stessa aria di libertà creativa: e mentre Bernardo decideva di volta in volta qual fosse l’inquadratura successiva, affidandosi alla sua ispirazione, si vedeva anche come venisse meno, consapevolmente, a certe regole di forma. Una delle prime scene che abbiamo girato per L’assedio mostrava Shandurai, il personaggio di Thandie Newton, cantare mentre il Kinski di David Thewlis suonava il piano: prima abbiamo fatto un totale che li mostrava entrambi, poi un primo piano di lei, ma la luce del sole si era spostata. Adesso il volto di lei era solo per metà in luce, mentre prima, nel totale, era tutto illuminato. “In venti minuti la riporto normale”, provai a dire a Bernardo, ma lui replicò: “ma chi se ne frega? non dà fastidio”. Bernardo superava con grande naturalezza questi impasse di grammatica cinematografica: se la luce da un’inquadratura all’altra cambiava per lui non era un problema, perché sapeva che il pubblico si sarebbe lasciato guidare innanzitutto dalla storia.
Con quale macchina da presa hai girato L'assedio e con quale set di lenti?
Come lenti ho sempre usato gli obiettivi Cooke, iniziando dalla serie 2 fino ad arrivare alla 4. Quando giravamo in 16 mm su set di documentari usavamo anche gli Arri, che erano molto comodi in certe situazioni, ma con i Bertolucci ho usato sempre i Cooke, con una pellicola 35 mm. Durante le riprese de I cammelli sperimentai per la prima volta il video “in diretta” sul set, per far vedere a Giuseppe le inquadrature nel momento stesso in cui le stavamo girando. Ho usato sempre modelli di Arri BL2, che pesavano 25 kg, con il sonoro.
Quali specifiche tecniche aveva la pellicola che avevate scelto, soprattutto in termini di ASA?
Per tutti e tre i film che ho girato con Bernardo Bertolucci la pellicola era la Kodak Vision 5218, poi diventata 5219. Di solito usavo la 500 ASA, non ho quasi mai usata la 100 o la 200 ASA. Non ho mai usato la 250 Daylight, ho sempre preferito impiegare una pellicola al tungsteno di alta luminosità. C’era sempre la paura di rovinare la pellicola.
Nei minuti iniziali del film, la narrazione è affidata interamente alle immagini, senza quasi nessuna battuta. Grazie a un sogno, scopriamo il passato della protagonista in un paese non specificato dell'Africa, e l'arresto di suo marito, insegnante di scuola politicamente schierato contro il regime, da parte delle milizie locali. Dove e come sono state girate le scene del film ambientate in Africa?
Abbiamo girato prima tutte le scene a Roma, e poi abbiamo girato qualche giorno in Africa, in Kenya, dove c’era ancora un forte potere inglese e quindi la situazione era abbastanza tranquilla. Abbiamo impiegato una piccola troupe locale, con elettricisti kenyoti. Erano riprese abbastanza semplici e leggere, anche se abbiamo usato l’aero per certe scene dall’alto. Nel film è indispensabile il legame visivo con l’Africa: l’elicottero che gira attorno al vulcano, con una dissolvenza, ci porta all’immagine di Shandurai che dorme nella sua stanza a Roma. È uno stacco che è venuto in mente a Bernardo sul set, mentre giravamo a Roma l’inquadratura di lei che dormiva nella cameretta: lì per lì ha deciso che l’inquadratura dovesse essere dall’alto, per poi essere raccordata con questa ripresa africana. Diverse volte idee di questo tipo gli venivano sul momento, sul set. Ovviamente era tutt’altro che superficiale nelle sue scelte di regia, anzi era molto attento affinché le varie inquadrature funzionassero a livello di raccordi e montaggio. Quando però si trovava sul set in procinto di impostare una nuova scena voleva sentirsi libero di seguire il suo istinto.
Quanto era forte in lui l'influenza delle riflessioni e delle visioni di Pier Paolo Pasolini sul Terzo Mondo? E che ruolo aveva la contrapposizione tra musica tradizionale africana e musica classica occidentale nelle dinamiche visive e narrative del film?
Quando ho conosciuto Bernardo su di lui era ancora molto forte l’influenza di Pier Paolo Pasolini. Pasolini era stato una sorta di suo mentore, quand’era ragazzo. Bernardo era stato il suo aiuto regista per Accattone e da quel momento gli era rimasto molto legato. Credo fosse il suo punto di riferimento assoluto, accanto a Godard, ma su un piano diverso. La contrapposizione tra la musica classica e la musica africana è il tema centrale di quello che per me è il pezzo cinematograficamente più bello de L’assedio. Una sequenza in cui Bernardo è riuscito, con l’aiuto di Jacopo Quadri, che è stato il suo montatore di fiducia, a fare un autentico miracolo in sala montaggio. È un momento apparentemente semplice del film: Shandurai pulisce i pavimenti con l’aspirapolvere mentre ascolta in sottofondo una musica africana, Kinski al piano di sopra sta componendo al pianoforte un nuovo pezzo classico, e intanto squilla il telefono. Bernardo è riuscito a rendere in modo organico questa scena, che sembrava quasi impossibile: una musica africana mescolata con la suoneria del cellulare sovrapposta a sua volta alle note del pianoforte. Lui e Jacopo hanno saputo montare un tutt’uno assolutamente naturale. Si trattava di elementi contrapposti l’uno all’altro, che grazie al montaggio trovano una loro fluidità. Credo sia il passaggio più intenso di tutto L’assedio proprio perché riesce a unire, a far diventare un atto d’amore e di immagine, due cose in apparente contraddizione tra loro.
Anche se l'Africa tornerà ancora a puntellare la narrazione del film, gran parte de L'assedio è ambientato in un appartamento di Roma, in vicolo del Bottino, nei pressi di piazza di Spagna, lo stesso edificio dove D'Annunzio ha scritto Il piacere. Perché avete optato per girare in un vero appartamento anziché in studio, e perché avete scelto un edificio con una storia così importante? Gli ambienti in cui avete girato quali facilità e quali difficoltà di illuminazione ti davano?
Lo scenografo, Gianni Silvestri, cercando la location ha trovato questo posto stupendo. Era un posto in cui entravi e ti trovavi subito come a casa tua: le inquadrature ti venivano in mente da sole. Che fosse lo stesso palazzo dove D’Annunzio ha scritto Il piacere lo scoprimmo dopo, ma accrebbe il fascino di un luogo che già di per sé era meraviglioso. La scala a chiocciola che portava da un piano all’altro della casa era molto bella e scenografica. Il sole che si vede passare dalle finestre ovviamente è quasi tutto finto, la luce non entrava così bene: per ricrearlo usavo luci di scena, ma in maniera discreta, non desideravo farla sentire troppo a Bernardo. Volevo metterlo nella condizione di girare tutte le inquadrature che voleva senza perdere troppo tempo nei cambiamenti di luce. In quel film era molto importante anche lasciare liberi gli attori di muoversi sul set, senza essere vincolati dalle posizioni.
Cosa ricordi in particolare delle riprese del finale in parte aperto del film, con la luce grigia dell'alba che filtra nell'appartamento dove finalmente dormono assieme Shandurai e Kinsky?
Anche in quella scena la luce è “finta”: non se ne parlava proprio di girare all’alba! Ho montato delle luci per dare un tono leggero e soffuso al finale: era un momento particolare, e infatti non si capisce nemmeno come finisce il film, non viene raccontato se Shandurai se ne andrà via con il marito o resterà con Kinski.
Nel 2003 sei tornato a collaborare con Bernardo Bertolucci per The Dreamers, tratto da un racconto di Gilbert Adair, ambientato nella Parigi del Maggio. Trattandosi stavolta di un film “d’epoca” con una produzione ben più strutturata alle spalle, come si sono svolti i preparativi di The Dreamers?
Per girare The Dreamers abbiamo trascorso un mese a Parigi prima di iniziare le riprese, per relazionarci con l’ambiente e conoscere il nuovo scenografo, Jean Rabasse, che aveva preso il posto di Gianni Silvestri. Anche con Jean mi sono trovato subito bene: si girava in un grosso ambiente borghese, e sceglievamo assieme i colori delle tappezzerie e dei vari oggetti di scena. Come pellicola abbiamo usato sempre la Kodak, e come macchina da presa sempre le BL.
Così come L'assedio anche The Dreamers è girato in larga parte in interni, nella casa dei genitori di Théo e Isabelle. L’appartamento era anche in questo caso un appartamento vero, o è stato ricostruito in teatro di posa? Quali possibilità di illuminazione ti offriva?
La casa era reale ed era molto bella scenograficamente, ma anche in questo caso si trattava di un ambiente molto particolare e difficile da un punto di vista fotografico: gli interni li ho dovuti fare tutti quanti inventandomi le finestre e le luci. La location scelta dalla produzione era vicina a un’ambasciata, per cui non potevamo appendere nulla al di fuori delle finestre. Era un problema, perché la luce che arriva dalla finestra è la più bella che ci sia: non per nulla tanto Caravaggio quanto i fiamminghi si basavano solo sulla luce che filtrava dall’esterno! Ho risolto chiudendo gli scuri e mettendo solo una luce dall’alto che simulava il sole che entrava appena nella casa. Del resto le scene di The Dreamers ambientate nell’appartamento erano abbastanza intime, la luce doveva essere presente, ma nel modo meno invasivo possibile
Una delle sequenze iniziali del film mostra la celebre occupazione della Cinémathèque Française, alternando immagini ricostruite ad alcuni spezzoni di repertorio, con Jean-Pierre Léaud a fare da "spartiacque" tra le due epoche. È durante la protesta che i tre protagonisti del film, lo studente americano Matthew e i gemelli Théo e Isabelle, si conoscono. Come avete girato queste scene iniziali?
Anche in quei minuti iniziali, come nel resto del film, Bernardo ha mescolato riprese originali e materiali d’archivio. Jean-Pierre Léaud è venuto sul set e ha replicato lo stesso discorso che aveva fatto più di trent’anni prima in sostegno di Henri Langlois. Per girare la sequenza di apertura di The Dreamers eravamo a Rue de Bercy, dove si trova la Cinémathèque , e questa scena ha richiesto un grosso impegno produttivo in termini di comparse: c’erano centinaia di studenti e poliziotti, come era successo davvero nel 1968. Grazie al numero di comparse però la sequenza è venuta particolarmente credibile. La mescolanza tra girato e repertorio ha resa ottima ed è risultata emotivamente molto funzionale.
L’atteggiamento registico di Bertolucci sul set di The Dreamers continuava ad essere sempre all’insegna della spontaneità?
A Bernardo piaceva l’idea di usare gli incidenti e gli imprevisti che possono accadere girando: aveva un po’ questo mito del “lasciare aperta una porta sul set”, un motto che lui e altri registi adottavano. Mentre giravamo L’assedio il ragazzo che girava con la Steadycam a un certo punto è scivolato, ma Bertolucci e Jacopo Quadri hanno mantenuto l’inquadratura nel montaggio, perché anche quella caduta funzionava nel film. È piuttosto noto il fatto che, sul set di The Dreamers, girando una scena hanno preso fuoco i capelli di Eva Green! Gli attori però sono stati bravissimi e non si sono affatto scomposti: hanno spento questa piccola fiammata e sono andati avanti, e infatti Bernardo ha usato nel film quel take, più spontaneo, più inaspettato, ovviamente, rispetto alle altre inquadrature in cui i tre ragazzi parlavano senza intoppi. Era quella la più viva, se vogliamo.
Come hai ottenuto il celebre look un po' âgé della pellicola che caratterizza il film?
Per dare un tono particolare e un po’ datato ai loro film molti utilizzano il cosiddetto sviluppo ENR (Ernesto Novelli & Raimo), quello con cui Storaro ha vinto parecchi Oscar, per intenderci, che ammazza un po’ i colori. Quando ancora si girava in pellicola, molti registi te lo chiedevano prima ancora dell’inizio delle riprese: “Farai lo sviluppo ENR oppure no?”. Io, almeno per quanto riguarda The Dreamers, ho scelto di non usarlo, contrariamente alla tendenza di quel periodo: impiegando bene le luci, aggiungendo del fumo, lavorando sull’esposizione di ogni inquadratura, ho cercato di dare una pasta un po’ diversa, più vecchia, senza intervenire in post-produzione sullo sviluppo chimico della pellicola. Del resto, come dicevo all’inizio, quando sul set di un film ci sono i costumi giusti, i posti giusti e l’idea giusta, come era il caso di The Dreamers, un direttore della fotografia è già molto ben indirizzato.
Il finale di The Dreamers mostra i tre protagonisti uscire di casa e tornare in strada, attirati da una nuova manifestazione sessantottina; di fronte però alla violenza con cui i manifestanti si scontrano con la polizia, le strade dei tre si dividono: Matthew prende le distanze dalla protesta, mentre Isabelle e Théo iniziano a loro volta a lanciare molotov. Cosa ricordi delle riprese di questo finale, nettamente più cupo, anche fotograficamente, rispetto al resto del film?
Aver chiuso le finestre dell’appartamento, da parte mia, era stato un po’ come chiudere fotograficamente il loro mondo: Théo, Isabelle e Matthew prendevano a vivere a modo loro, si estraniavano totalmente dall’esterno. Per gran parte della durata del film, quell’appartamento doveva essere un’ambientazione intima e anche festosa, priva di grosse contraddizioni, di contrasti forti. Il tono visivo cambia di netto quando i tre ragazzi si rendono conto che fuori c’è la rivolta, e lì c’è un cambio di luce molto stridente: si passa bruscamente dalla dolcezza e l’intimità ad una situazione di protesta, e in mezzo alle molotov anche i tre protagonisti si dividono. Per quanto riguarda l’ultima inquadratura del film, quella della carica della polizia, che dura fin sotto i titoli di coda c’è un piccolo trucco visivo: è un semplice loop. I poliziotti sembrano numerosissimi ma in realtà sul set erano solamente qualche decina, L’immagine risulta credibile, nessuno direbbe che è una ripetizione. Ha funzionato e, nonostante non avessimo questa folla abbondante, siamo riusciti a farla sembrare più numerosa, dando alla scena un tono drammatico piuttosto deciso.
Negli ultimi quindici anni della sua vita l’intensa produzione di Bertolucci è andata bruscamente scemando a causa della malattia che lo ha costretto sulla sedia a rotelle. Dal 2003 al 2018, l'anno della sua morte, Bertolucci è stato premiato con la Palma d'Oro alla Carriera e ha sviluppato diversi progetti di film, ma solo Io e te, dramma da camera con protagonisti adolescenti tratto dall'omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti, è riuscito a vedere la luce ed essere presentato a Cannes nel 2012. Cosa ricordi di Bernardo Bertolucci negli anni di stasi, e come avete ripreso a lavorare su Io e te nove anni dopo The Dreamers?
Quando Bernardo si è ammalato siamo stati dieci anni senza girare film assieme, ma lo vedevo comunque perché nel frattempo eravamo diventati amici. Era un piacere ascoltarlo: Bernardo era un tipo molto comunicativo, e anche un lettore molto raffinato. Io e lui ci incontravamo almeno una volta a settimana, e spesso vedevamo film insieme. A un certo punto erano in ballo due progetti cinematografici piuttosto grossi, e Mario Cotone, della Pacific Pictures, che aveva seguito gli ultimi film di Bernardo, li aveva organizzati in una maniera tale per cui potesse essere comodo per Bernardo girarli dalla sedia a rotelle. Improvvisamente però Mario si ammalò gravemente, e così Bernardo perse la persona che lo spingeva ad andare avanti. Alla fine si è voluto limitare a Io e te, che era un progetto decisamente più piccolo ma nelle sue corde, e gli piaceva molto. Anche stavolta rimaneva nella Nouvelle Vague, come ispirazione.
Inizialmente, Bertolucci dichiarò alla stampa di essere curioso di sperimentare il 3D con il suo nuovo film, salvo cambiare idea dopo qualche test in 3D stereoscopico. Hai fotografato tu i test in 3D di Bertolucci? Se sì, perché Bertolucci ha cambiato idea? Con quale macchina da presa e quale pellicola avete girato Io e te?
Ho fatto personalmente i provini in 3D con Bertolucci, con grande attenzione. Quei test li facemmo non nella location della cantina dove avremmo girato, ma in un teatro di posa di Cinecittà, quindi l’ambientazione era molto simile: avevamo a disposizione delle scenografie, dei costumi e una ragazza molto simile a Tea Falco a farle da controfigura. L’illuminazione con l’elettronica è diversa rispetto alla pellicola: da un lato si potrebbe dire che è più semplice, ma in realtà è un po’ più complicata, perché il digitale è molto preciso. Ho fatto delle correzioni delle luci per adeguarmi, ma alla fine, confrontando il provino fatto in digitale 3D e i provini fatti con la classica pellicola, a Bernardo è piaciuta di più la pellicola: la differenza non era clamorosa, ma al tempo stesso non c’erano nel film delle situazioni tali per cui il 3D avrebbe esaltato l’immagine. Insomma per quanto Bernardo fosse incuriosito dal mezzo, visti i risultati, ci siamo accorti che per il tipo di film che ci apprestavamo a fare il 3D non serviva e anzi ci avrebbe sviato. Del resto, adesso possiamo dire che Bernardo ha avuto ragione: in quegli anni, subito dopo Avatar, c’era stato un boom del 3D, ma adesso l’interesse è decisamente scemato.
Io e te è ambientato quasi tutto nello scantinato di un condominio romano in cui l'adolescente Lorenzo si rifugia, fingendo con i genitori di andare a un campo scuola assieme al resto della classe: l'arrivo della sorellastra eroinomane Olivia cambia però i suoi piani. Dove è stata ricavata la location dello scantinato e quali possibilità di illuminazione ti dava? Come hai cercato di variare la tua fotografia sul film, in funzione della progressione della trama?
Quello usato per Io e te non era un vero e proprio scantinato ma lo studio di un fotografo, di cui abbiamo impiegato tutti gli ambienti. Fuori dalla finestra dove si vede la ragazza drogarsi c’era la strada vera. Questo significava che, rispetto a L’assedio e The Dreamers le possibilità per me di portare luci sul set si riducevano ancora più sottilmente, e alla fine per Io e te ho usato quasi esclusivamente, come luci principali, le prachtical lights, le luci di scena che appaiono nella scenografia, con pochissimi ulteriori interventi. Dovendo fingere di trovarci in uno scantinato il sole non entrava mai, ogni altra luce non sarebbe stata “giustificata”: in un paio di scene entra un po’ di luce del sole nel bagno, ma per il resto del film doveva sembrare che fossimo sottoterra.
Dopo molti litigi e scontri, i due fratelli sembrano finalmente capirsi l'un l'altro e, alla fine li vediamo ballare sulle note di Ragazzo solo, Ragazza sola di David Bowie. Come avete girato quella scena?
Quella scena era molto bella: la canzone originale di David Bowie parlava di un astronauta che si perde nello spazio, ma nella versione italiana, cantata dallo stesso Bowie, Mogol aveva saputo sovrapporre alla melodia delle parole completamente diverse che si sposavano bene con i temi del film. La luce di quella scena conclusiva non richiedeva interventi particolari, al pari del resto del film: ci basavamo molto sull’ambiente, e anche per quell’occasione ho trovato un’illuminazione leggera che mi sembrava giusta. Il posto era molto piccolo, quindi i miei interventi erano molto limitati e non potevo usare soluzioni particolari.
Debilitato dalla malattia, per Io e te Berardo Bertolucci ha dovuto rinunciare alla grandiosità registica che caratterizzava molti dei suoi film più noti: tuttavia l'ultima inquadratura del film, che mostra Lorenzo ritornare verso casa dopo aver salutato Olivia, che forse smetterà di farsi di eroina, è un ampio movimento di macchina in braccio meccanico, un gesto stilistico tipicamente bertolucciano.
Tutto Io e te è stato fatto con mezzi alla Nouvelle Vague, mentre per il finale abbiamo usato un braccio che in quel momento era l’ultimo grido della tecnologia, l’Ultra Crane. Si muoveva sulle ruote e si poteva prolungare fino a 20 metri di altezza.
Tutto il percorso cinematografico di Bernardo Bertolucci, sin dal primo set con Accattone di Pasolini, è stato caratterizzato da una certa tensione politica che, pur non esaurendo la sua ispirazione creativa, ha contraddistinto molte delle sue opere più note, una su tutte Novecento. In che modo pensi che questo sottotesto politico abbia trovato spazio nei tre film che hai girato con lui, soprattutto ne L’assedio?
Bernardo si proclamò per quasi tutta la vita “comunista” ed era molto attento ai problemi dei lavoratori, ma pensava anche ai problemi intimi delle persone. Quando Ultimo tango a Parigi venne sequestrato, ci fu il suo primo scontro con la stupidità della burocrazia, che voleva addirittura bruciarne il negativo. Bruciare il negativo non aveva alcun senso, era stato distribuito in tutto il mondo, c’erano ovunque internegativi: quell’atto era degno del Medioevo, dei roghi di streghe. Bruciare il negativo era una dimostrazione di forza tanto ottusa quanto inutile. In quel momento il PCI non disse nulla, laddove sarebbe stato proprio il caso di indignarsi, però i dirigenti comunisti non vollero prendere posizione perché Ultimo tango parlava di inquietudini personali. Già il successivo Novecento tornava a parlare direttamente delle problematiche dei lavoratori: Bernardo era molto coinvolto e attento alle lotte sindacali, ai problemi della classe operaia, certo non era legato solo ad una piccola fetta di intellettuali più o meno di sinistra. Era un uomo di sinistra, e quindi era molto vicino alle tematiche dell’immigrazione e di quelli che hanno avuto meno fortuna di noi: lo si vede bene dagli argomenti che ha trattato. Anche nei film che ha girato a Hollywood c’era sempre, alla base, la ricerca di quello che succedeva nel mondo. Lui era vicino agli arabi ma era molto solidale anche con le sofferenze del popolo ebraico. L’assedio, e in generale tutti i film che ho fatto con lui e tutti i film che compongono la sua filmografia, riflettono le sue idee politiche, ma al tempo stesso “vanno oltre”, indagando anche la sua interiorità.
Bernardo Bertolucci è scomparso il 26 novembre 2018, non riuscendo a realizzare The Echo Chamber, il film a cui stava lavorando da diverso tempo con l'Indigo Film. Quale pensi siano stati i suoi maggiori lasciti al cinema italiano? Quali sono i punti, del suo discorso artistico, estetico, politico e tecnico, che dal tuo punto di vista non sono stati ancora recepiti a fondo?
Il senso del ruolo del regista è far confluire assieme un gruppo di persone a formare una troupe, e trovare il meglio di ciascuna di loro: in questo era semplicemente eccezionale. Bertolucci ha vinto una sfilza di Oscar, ma secondo è stato capito e recepito solo fino a un certo punto, dal pubblico e dalla critica.
Si ringraziano Lorenzo Castagnoli e Tobia Cimini per la collaborazione.
Le citazioni delle interviste di Bertolucci su L’assedio sono tratte dal volume Bernardo Bertolucci, Cinema la prima volta. Conversazioni sull’arte e la vita, uscito nel 2016 per mimimumfax a cura di Tiziana Lo Porto
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