L’immensità della visione. Conversazione con Silvano Agosti
Silvano Agosti è un regista, sceneggiatore, scrittore, poeta e saggista, ma preferisce definirsi “autore”. Nel 1962 si diploma presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, suoi compagni di studi Marco Bellocchio e Liliana Cavani. Il suo corto di diploma La veglia viene premiato con il Ciak d'oro dall’allora Presidente della Repubblica Antonio Segni. Con la borsa di studio ottenuta grazie a questo premio, Agosti raggiunge Mosca per approfondire l’opera di Sergej Ėjzenštejn. Al suo ritorno in Italia, dopo aver collaborato alla sceneggiatura, ai dialoghi e al montaggio nonché alla realizzazione del commento musicale, insieme a Ennio Morricone, al film I pugni in tasca (1967) per la regia di Marco Bellocchio, esordisce nella regia cinematografica con il lungometraggio Il giardino delle delizie. Espressione del più sincero cinema indipendente, Agosti è il fondatore della sala Azzurro Scipioni, luogo-culto e suo rifugio da quarant’anni nel nome del cinema d’autore, che ora rischia di chiudere.
Il cinema, il mio cinema che tanto amo, fatto di immagini e di mistero,
è ormai in esilio da quasi un secolo, oltre i confini dell’industria e della mediocrità.
Lo andremo a riprendere prima o poi con tutti gli onori
e allora gli schermi torneranno vivi.
Silvano Agosti
Nell’edizione 2019 le è stato assegnato dal Sindacato nazionale giornalisti cinematografici italiani il Nastro d’argento alla carriera. Come ha accolto questo significativo riconoscimento, lei che, da più di cinquant’anni, incarna la figura del cineasta indipendente per eccellenza?
Ma dammi del tu per favore. L’ho accolto con grandissimo stupore, perché io non ho fatto e non ho avuto nessuna carriera. È come se ti premiassero per aver vinto i cento metri a ostacoli quando nella tua vita non hai mai corso... Cosa faresti? Rimarresti stupito ovviamente! Sono stato sempre protetto dal mio anonimato. Nessun giornale ha sottolineato questa notizia, perché io, per l’attuale regime della cultura ufficiale, non esisto.
Hai frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dove hai avuto come compagni di studi Marco Bellocchio e Liliana Cavani, diplomandoti nel 1962. Cosa ricordi di quel periodo?
Ti devo dire la verità. Io andai al Centro perché all’epoca mi dissero che c’era questa Scuola in cui si dava da mangiare gratis. Neanche sapevo che fosse una Scuola di Cinema. Frequentai il Corso di regia e alla fine dei due anni fui anche premiato dal Presidente della Repubblica Segni per il mio corto di diploma, con il Ciak d'oro, premio che poi regalai al professor Luigi Volpicelli, preside della Facoltà di Magistero. Terminato il biennio, grazie a una borsa di studio partii per Mosca per studiare l'opera di Sergej Ėjzenštejn. Mi allettava però soprattutto l’idea di conoscere e studiare un Paese come la Russia. Sono stato molto felice di quell’esperienza, sotto l’aspetto umano soprattutto, e imparai molto, anche a parlare il russo.
La prima vera esperienza con il cinema avviene con I pugni in tasca (1967) di Marco Bellocchio, pellicola a cui partecipi collaborando alla sceneggiatura, ai dialoghi, al montaggio e, insieme a Ennio Morricone, al commento musicale. Cosa ricordi di quella esperienza?
Io sono stato la mamma de I pugni in tasca, Marco Bellocchio è stato il papà, un padre non eccessivamente affettuoso ma molto attento. Ho portato in grembo il film per nove mesi. Paradossalmente si potrebbe dire che Marco ha dovuto “subire” il successo de I pugni in tasca, perché lui è stato costretto a ritenersi il solo autore del film. La maternità è un premio sufficiente per non cercarne altri.
Il tuo concetto di autore cinematografico: nei tuoi film preferisci non avvalerti di una troupe tradizionale e occuparti personalmente della maggior parte dei ruoli, inclusi fotografia e montaggio.
Sono l’unico nemico al mondo della figura del regista. I danni al Cinema li ha procurati l’industria con il suo modo di concepire il film come un prodotto, cioè qualcosa in grado di assicurare un profitto: tutte le sale cinematografiche ospitano esclusivamente film industriali, nessun mio film è stato mai stato proiettato nei circuiti tradizionali. Come la madre sa di essere l’unica, perché non ce ne possono essere due, così vale per l’autore: è colui che fa il film, non colui che dice di averlo fatto. Ho cercato il più possibile di non avvalermi di una troupe tradizionale e occuparmi personalmente della maggior parte dei ruoli produttivi nella convinzione che un cineasta debba supervisionare tutti gli aspetti della creazione. Ho cercato di fare un tipo di cinema “situazionale”, perché il cinema, come la vita, è fatto di situazioni… Senza trama e senza sceneggiatura, film da vedere non da ascoltare.
Nel 1967 si colloca il tuo esordio nella regia cinematografica con il lungometraggio Il giardino delle delizie, film che a sua volta si avvale delle musiche di Ennio Morricone, della fotografia di Aldo Scavarda e di un giovanissimo Vittorio Storaro come operatore alla macchina. Nel cast: Maurice Ronet, Evelyn Stewart, Lea Massari. Una pellicola che si segnala per la sua ricerca estetica.
Dopo un’ora che stavamo lavorando, Aldo, prediletto da Antonioni, mi disse: «Silvano io sono qui al tuo servizio, dimmi tu esattamente cosa desideri fare e dove mettere le lampade». Poi c’era Vittorio Storaro, alle sue prime armi, che fu molto disponibile, fu anche mio assistente, e parlavamo di fotografia e immagini. Con Ennio, come hai ricordato, avevo già collaborato per I pugni in tasca: conoscendo l’anima di quel film, mi occupai di contattare Morricone. Ricordo che per I pugni in tasca gli chiesi di non comporre una colonna sonora usuale, bensì di introdurre l’elemento vocale nella partitura, come nella terza sinfonia di Mahler. Ennio inizialmente mi urlò contro, chiedendomi cosa c’entrasse Mahler, ma poi, se ci fate caso, userà sempre un soprano nelle sue musiche, come nei western ad esempio. Gli chiesi così di inserire una voce bianca, di bambino, e lui se ne servì per quel bellissimo motivo presente nel film. Ritornando a Il giardino delle delizie, nella mia massima semplicità trovavo assurdo che dietro la macchina da presa ci potesse essere qualcuno che non fosse il vero autore del film. Volevo far capire che il matrimonio, che troppo spesso è il solo sogno della donna, in realtà è la sua trappola mortale. Il film, in una società cattolica come la nostra, venne fortemente criticato ovviamente. Ricordo con piacere questo aneddoto: lo vidi insieme al grande Ingmar Bergman, che rimase con me per sei ore a parlare entusiasta del mio lavoro: non solo gli piacque molto, ma mi disse che avrebbe rubato tre cose, e lo fece: al feroce litigio del Giardino forse deve qualcosa Scene da un matrimonio; ai due bambini che spiano gli adulti può darsi che si ispiri Fanny e Alexander; e il fatto che il protagonista vada con la sorella forse torna in Come in uno specchio.
N.P. - Il segreto (1971). Il tuo secondo film si inserisce in quella new wave autoriale sessantottina che raccontava lo spirito contestatario dell’epoca, una pellicola con importanti spunti sociologici e satirici. Un cast formato da tre grandi star europee: Francisco Rabal, Irene Papas e Ingrid Thulin. Questo film inoltre rappresenta l’esordio assoluto del compositore ‒ futuro Premio Oscar per La vita è bella ‒ Nicola Piovani.
Nicola aveva lavorato con me per i cinegiornali del Movimento studentesco. Lo avevo convinto a comporre una musichetta, il suo primo commento musicale per delle immagini. Quindi per il mio secondo film, mi rivolsi a lui, facendolo esordire a tutti gli effetti in un lungometraggio per il cinema. Fece un ottimo lavoro. In questo secondo film, il mio intento era questo: avevo capito dove sarebbe andato a finire il capitalismo e ho anticipato tutto quello che sarebbe accaduto. Riguardo la scelta del cast c’è questo simpatico aneddoto che riguarda la Papas. Per ingaggiare un’attrice come lei occorreva un miliardo di lire di allora: quando la incontrai per proporle il mio film le dissi che potevo darle il miliardo che avevo avuto nella mia vita, e cioè cinquecentomila lire. Lei non soltanto accettò, ma una volta visto il film, mi restituì il suo compenso in una busta. Fu meravigliosa.
Matti da slegare (1975) è firmato da te insieme a Marco Bellocchio, Sandro Petraglia e Stefano Rulli. La pellicola è stata girata presso l'ospedale psichiatrico di Colorno (Parma) e propone una nuova interpretazione del rapporto cinema-verità, documento e fiction incentrato sul tema dell'istituzione manicomiale. Il film-documentario, girato in 16mm, nacque con l'intento di sostenere le tesi dello psichiatra Franco Basaglia sulla malattia mentale e di contribuire all'impegno politico sociale per l'eliminazione dei manicomi.
Successe che invitarono Marco a girare un documentario sui manicomi: un giorno mi chiama e mi parla della proposta che gli avevano fatto, confidandomi i suoi timori nel trattare un argomento così delicato. Mi chiese se volessi girarlo io. Successivamente lo richiamai proponendogli di farlo insieme, io e lui, con altri due giovani, Rulli e Petraglia. Un lavoro di gruppo. E così partimmo con questo progetto, che mi coinvolse per un anno al montaggio. Abbiamo voluto dare voce a quelle persone a cui avevano tolto la dignità di esseri umani, che venivano trattate come cavie, vittime del sistema. Per quello che riguarda Basaglia, Franco era un mio grande amico, veniva spesso a mangiare da me, alla fine gli insegnai a lavare i piatti… Dopo la terza volta che qualcuno mangia da me, deve o fare la spesa, o cucinare, o lavare i piatti.
La macchina cinema è un film-documentario del 1978 che dirigi nuovamente insieme a Bellocchio, Petraglia e Rulli. Il documentario è un'inchiesta sugli aspetti meno noti dell'industria cinematografica, condotta per la Rai. Diviso in cinque sezioni, parte dalle esperienze amatoriali di improvvisati cineasti fino ad approdare alla tragica vicenda dell'attrice italiana Daniela Rocca, passata in pochi anni dal successo internazionale all'emarginazione e alla solitudine della malattia mentale.
Volevo raccontare la macchina cinema, la sua essenza, attraverso le storie di personaggi noti e non. Ebbi l’intuizione di partire dall’estrema provincia, dai piccoli centri per arrivare fino a Roma dove c’era la Festa del Cinema. Ricordo che partimmo dalla provincia di Frosinone, dove c’era un ex pugile, Tony De Bonis, che girava dei film in super 8. Daniela Rocca venne intervistata da Marco Bellocchio: dopo il successo di Divorzio all’italiana di Germi, dove interpretava la moglie di Mastroianni, fu abbandonata dal grande cinema nella solitudine più profonda.
All’inizio degli anni ’80 produci Il pianeta azzurro, diretto dall'amico Franco Piavoli (che compare tra l’altro anche ne La macchina cinema), proiettato con successo a Venezia nel 1982. Tullio Kezich auspicava una legge che obbligasse tutti gli italiani a vederlo. A proposito di Piavoli, è da poco disponibile un’interessante pubblicazione sulla sua opera, intitolata Il cielo, l’acqua e il gatto. Il cinema secondo natura di Franco Piavoli di Filippo Schillaci, pubblicato da Artdigiland.
Con Franco eravamo amici da tanti anni quando mi fece vedere un giorno un suo vecchio piccolo film di trent’anni prima in super8, intitolato Le stagioni. Ne rimasi talmente colpito da proporgli di fare un film in 35mm: lui, come me, girava tutto da solo, allorché mi disse che la macchina da presa 35mm pesava troppo e che non se la sentiva di avventurarsi in una tale impresa. Allora gli feci costruire da un bravissimo tecnico, Carlo Ventimiglia, figlio di Gaetano Ventimiglia, direttore della fotografia del primo film di Alfred Hitchcock, una macchina 35 che pesava come una 16. La chiamammo “piavolina” e Franco girò così Il pianeta azzurro, il suo capolavoro assoluto. Ho dedicato a quel film tre anni di vita: dovrebbe essere proiettato dappertutto, un film senza dialoghi, che meriterebbe di essere ammirato nelle sale di tutto il mondo. Un grande regista come Andrej Tarkovskij ne rimase entusiasta.
Dopo aver tentato di distribuire il film di Piavoli in alcune sale romane, di fronte al disinteresse degli esercenti decidi di rilevare un locale dove lo programmerai per anni. Il cinema, nel rione Prati, in via degli Scipioni, prende il nome di Azzurro Scipioni e diverrà un punto di riferimento per i film d'autore e d'impegno civile, luogo d'incontro di cineasti e appassionati di cinema. Il cinema come condivisione e incontro: il luogo fisico e spirituale dell’Azzurro Scipioni?
Inizialmente, dopo vari e vani tentativi, non trovando ancora delle sale che potessero ospitare il film di Piavoli, decisi di far uscire questo raffinatissimo film al cinema Modernetta, un noto cinema porno (insieme al Moderno) della capitale. La cassiera del cinema chiedeva ad ogni spettatore: «Porno o Pianeta azzurro?». Il film incassava un milione e mezzo di lire al giorno, si rivelò un’idea geniale quella di proporlo in quel cinema, per l’assoluto contrasto, era come offrire un fiore a chi minaccia di ucciderti. Fino a quando arrivò Renzino Rossellini, figlio del grande Roberto, che, non avendo visto Il pianeta azzurro e pensando di far bene al Cinema, ci fece andar via, sostituendo il nostro film con Querelle di Fassbinder, film notevole ma non così in contrasto con le proiezioni del Modernetta. E allora decisi di crearmi un mio spazio personale. Così è nato il cinema Azzurro Scipioni, “Azzurro” per via del film di Piavoli e “Scipioni” perché si trova in via degli Scipioni a Roma.
Il tuo cinema adesso, così come stiamo tristemente apprendendo da varie testate che hanno dato la notizia, rischia di chiudere. Puoi spiegarci quale sia la situazione e come sta evolvendo?
Succede che mentre sono costretto a stare chiuso per via della pandemia, e quindi da vari mesi non ho più incassi, devo lo stesso pagare l’affitto. Essendo l’Azzurro Scipioni una associazione culturale e non un esercizio, non ho avuto accesso al sostegno messo a disposizione dallo Stato per le sale. Per di più la proprietà dello spazio ha intenzione, allo scadere del contratto, di aumentare l’affitto. Dunque è un momento in cui non vedo molte vie d’uscita. Ho ricevuto una quantità incredibile di attestati di solidarietà e di proteste contro l’idea che l’Azzurro Scipioni possa cessare la sua attività e sto provando a coinvolgere il comune di Roma, in particolare l’Assessorato alla Crescita Culturale, per vedere se dalle istituzioni possa venire un aiuto.
Del 1984 è D’amore si vive. Girato nella città di Parma, nel corso di due anni, il documentario si articola in sezioni dedicate ai vari aspetti e modi di vivere l'amore, la tenerezza e la sessualità.
Dicono che sia un capolavoro. Quando ho scoperto che, dopo Pasolini, non era stata mai fatta un’indagine così accurata sull’amore, la tenerezza, i sentimenti, la sessualità decisi che fosse venuta l’ora di provarci e scelsi di girare a Parma. L’episodio del bambino di nove anni che descrive le prime esperienze sentimentali e commenta le azioni degli adulti è straordinario. Nel documentario ci sono sette storie, sette diverse interviste.
Il personaggio cinematografico che più ti ha colpito, affascinato?
Il mio personaggio guida, in qualche modo, è stato sempre Charlie Chaplin: è un esempio di autore autonomo, a tal punto da scrivere persino le sue musiche. Il film che preferisco è Luci della ribalta: a proposito di questa pellicola il commento musicale è bellissimo. Ma poi ci sarebbe anche Luci della città. Chaplin è stato un colosso del Cinema e per spiegare la mia ammirazione nei suoi confronti ti dico che a sedici anni e mezzo decisi di avventurarmi verso Londra in autostop per vedere la sua casa natale. Mi inventai, per ottenere il passaporto, una lettera in cui si dichiarava che c’era una famiglia disposta a ospitarmi. Mio padre mi diede diecimila lire e così mi ritrovai a Londra senza conoscere nessuno e senza sapere una parola di inglese e lì ho imparato a vivere: ho imparato che vivere significa muoversi, stare fermi è morire.
Il cinema del futuro? Hai attraversato la pellicola e il digitale: come immagini il futuro del cinema (come prodotto e come fruizione)?
Se mi chiedi di un ultra-futuro, ti rispondo che si potrà comunicare con il pensiero e quindi si potranno trasmettere immagini con il pensiero, non ci sarà bisogno né di proiettori né di schermi. Se mi chiedi invece come io veda o desideri che sia il cinema tra cinquant’anni, allora ti rispondo che vorrei che in ogni quartiere ci fosse una grande sala con un grande schermo dove vedere persone alte otto metri, come giganti: mi auguro l’immensità della visione.
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