Politica è rendere evidente ciò che è celato. Conversazione con Luca Bigazzi su Ariaferma
Luca Bigazzi (Milano, 1958) è uno dei maggiori direttori della fotografia italiani. Con la cifra record di sette vittorie ai David di Donatello, nel corso della sua carriera, iniziata sul finire degli anni ’80 a Milano, ha collaborato con registi quali Gianni Amelio, Mario Martone, Paolo Sorrentino, Abbas Kiarostami, Silvio Soldini, Ciprì & Maresco, Carlo Mazzacurati e Paolo Virzì. Con Artdigiland ha realizzato il libro intervista La luce necessaria. Dopo aver collaborato con Leonardo Di Costanzo per L’intervallo, del 2012, Bigazzi è tornato al suo fianco per Ariaferma, dramma carcerario interpretato da Toni Servillo e Silvio Orlando, presentato nella Sezione ufficiale Fuori concorso dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia e uscito in sala il 14 ottobre 2021.
Ringraziamo Luca Bigazzi e gli altri membri della troupe per le foto inedite.
Ariaferma è il terzo lungometraggio del regista campano Leonardo Di Costanzo, con un importante passato da documentarista. Come hai conosciuto Di Costanzo e in quale fase del processo produttivo sei stato coinvolto nel film?
Con Leonardo ci siamo conosciuti quando abbiamo fatto L’intervallo, quasi dieci anni fa a Napoli, con due attori giovani, non professionisti ma meravigliosi. Il film in effetti aveva in qualche misura un carattere documentario, ma ogni film di finzione in qualche modo è così. Quando lavori con attori non professionisti diventa ancora più urgente dar loro la possibilità di improvvisare, di cambiare le cose già previste e stabilite. Questo atteggiamento è molto proficuo anche grazie al digitale: gli attori sono molto liberi di muoversi, improvvisare, inventare. Il confine fra documentario e finzione nei film di Leonardo è molto sottile. Quello che si richiede a un direttore della fotografia che lavora a film di questo tipo è di non essere ingombrante: con delle luci ingombranti, con posizioni troppo rigide. Questo non vuol dire necessariamente far tutto con la macchina a mano, vuol dire semplicemente saper lasciare gli attori liberi di muoversi. Oggi più di prima questa possibilità va portata avanti, ci sono macchine molto più leggere, si possono fare inquadrature di vario tipo. Per dire, con degli slider, dei piccoli carrelli manovrati dall’operatore di macchina, possiamo permettere a chi recita di non restare esattamente nel punto previsto. Questa libertà degli attori richiede da parte dell’operatore e del direttore della fotografia una luce non troppo determinata su un singolo punto.
Questa libertà che Di Costanzo lascia agli attori stride un poco con la condizione di prigionia dei personaggi?
Certamente, in tutti i film di Leonardo si parla in qualche modo di spazi chiusi. Anche ne L’intervallo o L’avamposto, un corto che abbiamo girato e che faceva parte de I ponti di Sarajevo, un film collettivo. L’avamposto parlava di una trincea ai tempi della Prima Guerra Mondiale, dunque di nuovo un contesto di costrizione. Senza di me Leonardo aveva girato L’intrusa, che era comunque ambientato in un luogo chiuso. È vero che Ariaferma è ambientato in un carcere e ci sono delle celle, ma in carcere ci sono anche degli spazi comuni, le ore d’aria, delle zone interne in cui in qualche modo gli attori si muovono. E anche all’interno di una cella si muovono, sebbene in uno spazio chiuso. Di conseguenza è necessario che il direttore della fotografia abbia un atteggiamento molto elastico rispetto alla qualità della luce. In passato si era legati alla pellicola, che per questioni di sensibilità ti costringeva inevitabilmente a illuminare. Ora è tutto più semplice.
Ariaferma è ambientato in un carcere immaginario, che voi avete trovato in Sardegna. Quali caratteristiche aveva la location e quali necessità di illuminazione richiedeva?
Si tratta di un carcere dismesso di Sassari, molto grande e molto bello. È enorme e ha una struttura con al centro questo spiazzo elicoidale da cui partono tutti i raggi. Credo sia tutelato dal punto di vista architettonico, è in mezzo alla città, anche se noi, con gli effetti speciali, lo abbiamo “spostato” in una campagna deserta e abbandonata, per accentuare il senso di isolamento e di solitudine.
Bisogna dire subito che le celle dove sono rinchiusi i detenuti non esistevano. È stata una creazione geniale del nostro scenografo, Luca Servino, davvero perfetta e precisa. Ha creato delle celle circolari nell’emiciclo, dove in realtà partivano i bracci: ne ha chiuso qualcuno e ha realizzato una costruzione perfettamente realistica. All’inizio avevamo pensato di ambientare le celle nella chiesa, come se fosse un piccolo braccio del carcere, ma era molto oppressivo, poco scenografico e cinematografico. Invece la sua soluzione è stata perfetta, precisa, così ben fatta che nessuno se ne è neppure accorto. Quanto più una scenografia è ben realizzata, tanto meno si nota il lavoro dello scenografo. E questo vale anche per la fotografia: quanto più è realistica, tanto meno si sente l’intervento del direttore della fotografia. “Annullare” la propria professionalità secondo me è il compito numero uno di chiunque lavori a un film. La cosa importante non siamo noi, il nostro ego, la nostra voglia di apparire, importante è portare il nostro servizio al film, positivamente, annullando la nostra presenza. Luca Servino ci è riuscito perfettamente perché nessuno ha notato il meraviglioso e serissimo intervento di scenografia e questo gli va riconosciuto.
Quanto la tua concezione del ruolo del direttore della fotografia è stata agevolata dall’avvento del digitale nel cinema?
Lavorando come lavoro io, cioè con pochissime luci e men che meno artificiali, un altro aspetto fondamentale del rapporto con lo scenografo sono le luci in scena: lampade, lampadine, lampadari. Diventano, per quanto mi riguarda, la fonte principale, se non unica, di illuminazione; quindi la collaborazione con lo scenografo è fondamentale. Questo è tanto più vero adesso che ci siamo liberati della pellicola. Con le macchine da presa digitali, che sono molto più sensibili, sono arrivato a girare a 3200 o 2500 ASA, cosa impensabile per la pellicola. L’utilizzo della luce sia naturale che artificiale, soprattutto di giorno, è praticabile con il digitale.
Sei noto per cercare di illuminare il set il più rapidamente possibile, per lasciare più tempo al regista, agli attori e alla produzione. Questo assetto quali caratteristiche dava all’immagine? Sul set di Ariaferma, con quali e quante macchine da presa hai girato e con quale set di lenti?
Da quando ho iniziato a girare in digitale ho usato sempre la RED e da parecchi anni sto utilizzando le lenti Leika: le trovo molto pulite, non soffrono di flare e aberrazioni cromatiche nonostante io usi spessissimo la luce delle finestre o le lampadine come unica fonte. Se la lente soffrisse per questa sovraesposizione avrei dei seri problemi di riflessi e di aberrazioni. Sono entrato in una fase in cui il mio problema è solo essere veloce, non elaborato. Più sono veloce è più so utilizzare coerentemente la luce naturale, anche quella che viene dalle finestre. Fondamentale diventa oggi la velocità, più che l’apporto di mezzi illuminanti, e velocità significa anche girare con due o tre macchine da presa. Nel film di Leonardo ne avevamo due, perché questo ti permette di girare conseguentemente delle scene anche non mettendo luci, senza perdere coerenza e continuità fotografica. Se avessi potuto, dal punto di vista produttivo, ne avrei utilizzate anche tre o quattro.
In generale, a cosa si deve questo tuo atteggiamento teso alla rapidità, che, da quanto raccontavi ad Alberto Spadafora nel libro La luce necessaria, sembra essere una costante della tua concezione della fotografia?
È un interesse reciproco. Da un lato lasci spazio agli attori per l’improvvisazione, i movimenti, i cambiamenti. Dall’altro più veloce sei e più coerentemente usi la luce naturale. Sono interessi convergenti, insomma. Ovviamente l’interesse principale è rendere più agevole la recitazione: gli attori sono l’elemento cardine del film, ma anche quello più fragile ed esposto, devono avere diritto e dovere di correggersi e ripetere.
Rispetto ad altri tuoi precedenti film più noti, Ariaferma è caratterizzato da una fotografia livida e spesso cupa, molto vicina a certi quadri di Courbet, per intenderci. Quanto questa illuminazione era presente già nell’edificio originario del carcere, e come invece hai sottratto tu ulteriormente luce, per le scene più drammatiche?
Sono fermamente convinto che bisogna conoscere quello che si illumina. In carcere ci sono stato per girare dei documentari (e non come detenuto). Rispetto all’immagine che conosciamo sono in realtà dei luoghi tendenzialmente sovra illuminati; per ragioni di sicurezza ci sono luci un po’ dappertutto. Il tentativo di rispettare la realtà delle cose, che secondo me è molto importante quando si illuminano i luoghi, era in conflitto col carattere cupo e necessariamente oppressivo del film, che si deduceva perfettamente dalla sceneggiatura. Approfittando del fatto che il carcere era in dimissione e che aveva pochi detenuti, ho fatto questa scelta un po’ rischiosa, in termini di realismo, ossia di tenere il carcere in una notevole oscurità. Il conflitto in cui mi sono trovato è stato tra l’esigenza di rispettare la realtà e le necessità di un racconto che prevedeva un’immagine cupa e oppressiva. L’unica contraddizione che sentivo di aver prodotto era questa insomma: tenere il carcere, un luogo illuminato, in penombra. Nel tradire il realismo, sottraendo. E per sottrarre non ho aggiunto assolutamente niente: ci sono pochissime luci artificiali, oltre a quelle di scena. Ho avuto anche grande fortuna, perché abbiamo girato a inizio anno, in giornate poco assolate. La luce che entrava dalle finestre, che pure erano piuttosto ampie, era molto debole. Questo ha aiutato molto nel raccontare la situazione di abbandono del carcere.
Nel film la luce e la sua assenza finiscono per rivestire una grande importanza narrativa quando, nel finale, il carcere si ritrova senza corrente. Come hai illuminato la scena della cena tra guardie carcerarie e detenuti? Che indicazioni ti ha dato Di Costanzo?
In quella scena c’erano solo candele, torce e lampade a batterie da campeggio; ho usato esclusivamente le luci che si vedono in scena. Le tre lampade da campeggio che vengono messe sul tavolo hanno una luce calda e sufficiente a illuminare tutti i commensali. Le guardie poi hanno le loro torce, che sono leggermente più fredde e mi piaceva il contrasto che si creava. Il freddo dei poliziotti e il caldo della tavola creavano un’atmosfera diversa e più colloquiale. La cosa interessante è che gli attori sono diventati gli elettricisti del film: davo indicazioni a loro su dove puntare le torce. Questo è stato molto divertente anche per loro, quando li ho incontrati a Venezia mi hanno chiesto come erano stati in qualità di elettricisti. Io sono felicissimo di loro, sono stati molto attenti, gli attori hanno una capacità di concentrazione e attenzione che è superiore a quella di tutta la troupe. Dato che ci mettono la faccia, sono particolarmente concentrati. In quel momento, oltre ai tre elettricisti che avevo sul set, ne ho avuti almeno altri quattro che erano gli attori. Questo è successo non solo per la scena del blackout, ma anche in altri momenti, quando di notte vengono controllati i prigionieri. Il punto in cui direzionare la luce in quei momenti era essenziale per rendere leggibile l’immagine.
Alla base di Ariaferma c'è anche l'idea di restituire l'umanità della categoria che più di tutte siamo spinti a non vedere: i detenuti. Con Di Costanzo avete parlato anche di questo sul set o in fase di preparazione? Questo concetto ti ha influenzato nella scelta dell’illuminazione?
A non vedere e soprattutto a non conoscere: alla fine non sappiamo niente dei detenuti. Dentro le carceri ci sono esseri umani, non mostri. Esseri umani che hanno sbagliato, ma che stanno facendo un percorso di comprensione in condizioni disumane. Il carcere è un luogo di incredibile socialità, forse ce n’è di più di quanta ce ne sia fuori. Penso che la socialità sia un elemento di fondamentale resistenza, soprattutto in questo periodo di pandemia e isolamento, in cui il fascismo ritorna proprio perché tutte le persone sono isolate; è precisamente la mancanza di socializzazione che porta all’egoismo e al fascismo. A questo proposito, per quanto mi riguarda, la sala cinematografica, che è un luogo di socialità, è un luogo fondamentale di difesa della democrazia. Magari esagero, ma credo che il tentativo di isolamento di tutti gli individui, che passa attraverso internet, i computer e la distruzione della socialità sia un tentativo politico di portare l’umanità verso una forma diversa di democrazia, estremamente pericolosa.
L'individuo singolo è controllabile, l’individuo sociale è molto più difficile da controllare per il potere. Il carcere in fondo è un luogo di reclusione ma anche di profonda socialità; l’attenzione a questo aspetto mi sembra uno dei maggiori punti di interesse del film. In fin dei conti si racconta che tra le guardie e i detenuti esiste una comunicazione e una socialità che da fuori non si riesce a immaginare, data proprio dalla vicinanza e dalla reclusione. Tutti pensano che fra il direttore della fotografia e il regista ci siano dei grandi discorsi teorici. In realtà, i film si fanno in grande velocità e la comunicazione non verbale fra operatore, regista, scenografo e direttore della fotografia è la costante. È il segreto attraverso il quale si realizzano i film. Se dovessimo dirci tutto quello che vogliamo fare, tutto quello che desideriamo dal film, non basterebbero anni. Si tratta di capirsi senza tante parole. Questa comprensione non-verbale è qualcosa di molto interessante, si crea quando sei molto concentrato e si concretizza anche tra l’operatore di macchina e l’attore. Io faccio anche l’operatore di macchina, anzi fondamentalmente faccio più l’operatore che il direttore della fotografia, e vedo che continuamente con gli attori si crea un livello di intesa e comunicazione dato non da parole ma dall’istinto. Capisci quando l’attore si sta per muovere e a sua volta l’attore capisce quando desideri che stia in una determinata posizione piuttosto che in un’altra. È una cosa meravigliosa che il cinema regala. In quella compressione dei tempi che sperimentano tutti i membri della troupe si crea un livello di comunicazione altrimenti impensabile.
Puoi dirci qualcosa in più sulla preferenza per lo stare in macchina?
L’operatore di macchina lavora sulla fotografia: la posizione degli attori e la posizione della macchina da presa producono risultati molto diversi a seconda delle scelte che si fanno. Faccio un esempio molto semplice: se c’è la luce di una finestra, mettere la macchina di spalle o di fronte alla finestra produce un risultato fotografico completamente opposto. Stabilire, d’accordo con il regista, dove posizionare la macchina e gli attori è funzione della fotografia. Pensare, come certo sindacalismo cinematografico deteriore cerca di fare, che direttore della fotografia e operatore debbano essere figure distinte è, per me, una follia totale. Anche dipende dal fatto che una volta il direttore della fotografia metteva “tonnellate” di luce. Io ormai mi limito a diminuire la potenza delle lampadine. È un ruolo inscindibile da quello dell’operatore di macchina. Se dovessero chiedermi quanto pesano i due ruoli, direi che l’80% del risultato fotografico del film è dato dall’operatore di macchina e non dal direttore della fotografia.
Come è stato il rapporto con Toni Servillo e Silvio Orlando, i due co-protagonisti?
Ho fatto moltissimi film con Toni e molti anche con Silvio, li considero entrambi due attori straordinari e meravigliosi, anche per varietà di interpretazione. Toni Servillo in Ariaferma è un Toni Servillo che nessuno aveva mai visto, con questa apposita rigidità, imperturbabilità. E Silvio Orlando, che siamo abituati a vedere come attore buffo, comico, mite, ha dato un contributo meraviglioso con l’aspetto apparentemente minaccioso del suo personaggio.
Ariaferma rappresenta un’interessante sovrapposizione della matrice civile tipica di un certo cinema italiano degli anni ’70 a una dimensione più esistenziale. Riguardando indietro il tuo percorso e tutta la tua filmografia, che ruolo pensi abbia giocato l’aspetto della denuncia civile?
Non voglio sembrare presuntuoso, personalmente faccio del basso profilo una delle cose fondamentali che mi aiutano anche nel lavoro. Però mi auguro di aver contribuito, certo non sempre, a fare dei film che raccontano la società e le sue contraddizioni. Spero che fare dei film sia stato per me proseguire in qualche modo quell’attività politica che da giovane mi aveva entusiasmato (ovviamente nei movimenti di sinistra extraparlamentare) e che ancora adesso mi entusiasmerebbe. Se qualcuno mi dicesse o potessi pensare di aver continuato a fare politica pur facendo un lavoro diverso, questo mi renderebbe estremamente felice. Cerco di scegliere dei film che parlino della società, dei conflitti, e che illuminandoli coerentemente e rispettosamente io possa contribuire ad aumentare il livello di consapevolezza politica della nostra disgraziata società. Senza essere presuntuoso, perché alla fine io spengo e accendo lampadine. Tutto qui. Cerco di farlo con un po' di coscienza, ma non faccio altro che togliere luce.
Nel citato volume intervista, curato da Alberto Spadafora, Mario Martone ha scritto che in te ha trovato qualcuno che, come lui, si ritrovava in una famosa frase di Godard: “una carrellata è una questione morale”. Anche un taglio di luce può essere questione morale?
Non è il taglio di luce in sé, ma il cercare di illuminare, o di non illuminare, le cose che si conoscono e si capiscono per esperienza diretta o acquisita. Tendenzialmente cerco di evitare di fare film all’estero perché penso che la conoscenza dei luoghi sia fondamentale. Cerco di fare dei film dove i miei collaboratori parlino italiano, perché la comprensione verbale e non verbale è fondamentale. Cerco di illuminare rispettando la realtà sociale e politica di ciò che un film racconta. Cerco di fare in modo che l’artificiosità del nostro lavoro di illuminazione si senta il meno possibile, perché penso che lo spettatore non debba essere distratto da artifici ma debba invece rimanere concentrato sulla storia. Cerco di essere veloce, perché penso che gli attori siano l’elemento fragile e fondamentale del film. E basta, qui finisce il mio lavoro.
Ariaferma stimola delle riflessioni se non politiche quantomeno sociali, pensando anche alle recenti inchieste giornalistiche sulla situazione nelle carceri. Credi che il cinema possa avere un ruolo effettivo a livello politico e sociale? O è semplicemente un mezzo attraverso cui si può veicolare o meno la politica?
La politica non entra nelle cose solo per mezzo di un simbolo di partito. La politica è anche semplicemente rendere manifesto ciò che viene celato. La condizione carceraria disumana, per certi versi e interessante per altri, è simile a quella dei manicomi psichiatrici: non hai accesso e possibilità di conoscenza, non hai modo di capire ciò che succede. Poi accadono cose spaventose, come a Santa Maria Capua Vetere. Un film come quello di Leonardo è in qualche modo inevitabilmente politico, apre la coscienza sociale in un luogo in cui normalmente viene tenuta all’oscuro, perché è conflittuale. In fondo quella del carcerato è una condizione umana insopportabile, come quella di un internato in manicomio. Sono due istituzioni tremende, forse necessarie, ma di certo tremende e disumane. Raccontare l’inumanità del carcere, e l’umanità possibile dentro il carcere è una posizione politica indiretta. Ariaferma è un film politico, su questo non ci sono dubbi.
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