L’umanità la tiene in bocca un cane. Conversazione con Antonio Capuano
Mentre aspettiamo la notte degli #Oscar 2022, facendo molti in bocca al lupo a Paolo Sorrentino, pubblichiamo un'intervista ad Antonio Capuano, al quale E' stata la mano di dio - in corsa per il miglior film internazionale - dedica un grande omaggio. Ad un libro intervista con Antonio Capuano, regista tra i più interessanti del panorama italiano, lavorano da due d'anni Armando Andria, Alessia Brandoni e Fabrizio Croce. Il libro sarà pronto a giugno, ma eccone un assaggio.
Vorremmo cominciare chiedendoti da dove vieni, qual è stata la tua formazione, il tuo percorso, la tua vita, tutto quello che ritieni importante per conoscerti anche come essere umano…
Io non voglio più sentirla questa espressione, “essere umano”. Subito dopo La guerra di Mario, per dire, ho fatto uno spettacolo a teatro in cui la protagonista era una barbona su un palcoscenico fatto di immondizia. Mentre la barbona sta con le buste di plastica in mezzo a questa immondizia, ecco che entra un guaglione di prima generazione, una specie di punk, che viene ad ammazzarla e, a proposito di umanità, lei dice: «L’umanità... La tene in bocca nu cane!». E così è.
Vero, “essere umano” e “umanità” sono ormai termini complicati da usare…
L’umanità è anche quella feroce, quella che fa le guerre, è quella che odia, è uno che ti spara: non è umanità anche quella? Anzi, forse è ancora più interessante di questa umanità facile, no? « L’umanità... La tene in bocca nu cane! », come diceva Angela Pagano, la barbona… Vallo a acchiappa nu cane, va’.
Quali sono le tue origini?
Da bambino ero molto legato ai fumetti, li compravo al mercatino delle pulci di Agnano, erano gli anni ’50. Erano delle strisce, una si chiamava Piccolo sceriffo. Provengo da una famiglia proletaria. Vivevo a Posillipo, zona mare, e ci vivo ancora. Papà era un contadino, poi divenne tranviere. Quand’ero bambino mi portava con lui sul tram. Mi diceva: «Vieni, ti porto a faticare con me». Noi eravamo tanti e facevamo casino, quindi mamma gli diceva: «Salvatore, portatene qualcuno». Quindi facevo un giro, due, tre, quattro e poi tornavamo a casa… Di quella cosa lì, che cazzo mi sarà rimasto?
Ho letto da qualche parte che non ti piace molto viaggiare, vero? O comunque ti piace muoverti ma poi tornare a dormire qui, a Napoli.
Al Museo Madre ho visto una bella mostra di Gian Maria Tosatti. Mi ha sorpreso perché lui è guaglione, è giovane, eppure dice una cosa molto saggia: noi abbiamo tutto dentro, anche se non ci muoviamo da casa. E la dice in una maniera non aulica, semplice. Anche io sostengo questo… Sin dagli anni della pop art, che a me faceva impazzire: Andy Warhol, Rauschenberg, Jasper Johns… Madonna! Una volta, mi pare fosse a Venezia, ho visto una gran bella mostra sugli studi di alcuni artisti: c’era George Segal che aveva un hangar e la factory di Warhol che era molto articolata… Erano degli studi bellissimi, molto scenografici. Ma più di tutti mi impressionò, e mi educò in qualche maniera, quello di Giorgio Morandi. Lui viveva in una casa di suore e aveva una stanzetta con una finestra… fantastico! [Giorgio Morandi abitava insieme alla madre e alle proprie sorelle e spesso visitava l’Istituto del Sacro Cuore contiguo alla sua abitazione].
Morandi non usciva mai, è vero…
Andava a fare la spesa. Come Monicelli. Ma Monicelli andava sotto casa, al mercato, col borsello, si accattava un quarto di ceci… Meraviglioso! Questo mi affascina: il piccolo, l’infinitesimale. Come Tosatti, che lavora su piccoli frammenti, quasi sulla polvere, senza il clamore del gigantismo. Quello mi piacerebbe molto. Però io non ci sono ancora arrivato e non credo ci arriverò mai a questo piccolo che contiene tutti i cazzi… Per non parlare poi della scienza, lì ci sono delle vertigini in cui è difficile avventurarsi, dove scopri delle dimensioni… Oggi è tutto gigantismo, il nostro consumismo occidentale ci ha insegnato che più è grosso, più è importante. Invece no, il piccolo e il minimo sono straordinari.
Il piccolo, anche in rapporto al frammento?
Il piccolo, il frammento contiene tutto, se hai gli occhi per guardare, le orecchie per sentire, il tatto per… Contiene tutto. è la ricerca che è interessante, il sentire che lì c’è lo spazio, c’è l’interiorità, tutto condensato… Gli anni, i millenni di vita in un piccolo coso, in un frammento. Mi piace questa dimensione, la dimensione del minimo.
Perché dici che non ci arriverai mai? C’è qualcosa che te lo impedisce?
Perché non ci riesco, perché mi agito. Non ho proprio…
Ci vuole più disciplina.
Sì, ci vuole una grande disciplina. Bisogna essere un francescano, bisogna essere molto acuti, studiare.
Dicevi che ti sei avvicinato al disegno attraverso il fumetto…
Sì, disegnavo il Piccolo sceriffo, le facce, i cappelli, le pistole, tutta l’armamentario del cowboy, del West, chi non l’ha fatto… Poi mia madre, quando abbiamo cambiato casa, ha buttato via tutto.
E dove ti sei spostato?
Sempre a Posillipo, nella casa accanto. Sulla spiaggia avevo trovato dei disegni di leoni, che all’epoca mi avevano turbato. E poi un cavallo disegnato in uno stile un po’ rinascimentale, come si faceva nell’800, con la gualdrappa e tutti gli ornamenti… Ero proprio geloso di queste cose e chiedevo a mia madre: «Dove sta quella roba!?», e lei: «Ho messo tutto dentro quella scatola». Però di notte ci pensavo. Non ho fatto rimostranze, non ho mai capito bene il perché: quasi come se mi fossi arreso all’ineluttabilità, al fatto che quei disegni in fondo non servivano a niente. Eravamo passati da una casa dove avevo una stanza tutta per me a un’altra dove c’erano due stanze in tutto. Ed eravamo cinque figli, quindi dove potevamo metterle tutte queste cose? Per questo non ho protestato e ho accettato quell’ineluttabilità.
Si racconta la leggenda di una tua abitudine di fare il bagno al mare anche d’inverno…
Sì, è uno dei motivi per cui sono rimasto a Napoli, questa dipendenza… Perché è proprio una dipendenza! È cominciata che avevo una trentina d’anni, ero andato a girare un film in Inghilterra per tutto il mese d’agosto e mi è venuto un dolore alla sciatica e alla coscia. Quando sono tornato a casa, sono andato al mare. Ho cominciato a nuotare e man mano che nuotavo, giorno dopo giorno, il dolore alla sciatica migliorava: da allora non ho più smesso di andare al mare. Poi ho preso un’altra “malattia”, questa è veramente una malattia: non faccio mai la doccia, non riesco a stare con l’acqua dolce addosso, non ce la faccio
È bello che ti porti il sale nel letto! Napoli e il mare sono presenti in tutti i tuoi film...
Ho sempre fatto lavori di mare. Mamma ci diceva «Guagliù, dovete andare a faticare». Per cui d’estate finivamo la scuola e andavamo a lavorare. Lei ce lo diceva a brutto muso, non so se per insegnarci qualcosa o perché non aveva soldi. La stagione cominciava ad aprile e finiva a novembre, e io la città la vedevo da un’altra posizione, dal mare.
Però poi, quando hai fatto l’Accademia, hai frequentato il centro…
Anche prima dell’Accademia. Quando ho cominciato le scuole medie. Prendevo il 140. Con i miei fratelli andavamo avanti e indietro col pullman.
Sei l’unico che ha fatto la scelta artistica?
Loro mi dicono: «Sei uscito fori razza!».
Ci hai parlato del tuo rapporto con il disegno. Pensi che il cinema, rispetto alle tue motivazioni, possa aver rappresentato anche il passaggio verso un lavoro più collettivo?
Sì, anche se... Come lavoro si fa insieme agli altri, e io sto bene insieme agli altri, però in realtà sul set sei da solo… Sei tu che dici dove va posizionata la macchina, e lo devi dire perché gli altri si aspettano che tu lo dica. Perché è così il cinema, non c’è un cazzo da fare. Sei solo. E non perché ti senti solo, quindi triste, ma perché devi prendere tu quella decisione e la vuoi prendere. Anche la scelta del colore o del punto di vista, per esempio, non la condividi con gli altri, piuttosto devi sperare che gli altri la condividano. Quindi sei sempre solo. Però al tempo stesso hai bisogno degli altri…
Questa visione la esprimi anche nella relazione con gli attori?
Sì.
Anche se immaginiamo che non sia la stessa cosa lavorare con Marco [Marco Grieco, il protagonista de La guerra di Mario] o con Toni Servillo, per dire
Ma anche con Toni è stato così. Sul set, anche se si tratta di attori professionisti, prima di girare una scena dico: «Aspetta, mo la faccio io». E ormai anche loro si sono abituati e mi dicono: «Falla tu, fammela vedere…».
Quindi prima di girare proponi un’interpretazione?
Non la propongo prima di girare, la sento già quando scrivo… E questo diventa un problema rispetto agli altri: sul set vado veloce perché non ho titubanze, so come fare già dal momento in cui scrivo la sceneggiatura. L’altra sera ho scritto la scena di una persona che parla con un cane e non so neanche se e quando si farà questo film… è un monologo di uno che parla con un cane perché solo al cane può dire certe cose…
Se il personaggio del primo episodio di Bagnoli Jungle fosse ancora vivo, giusto con un cane parlerebbe
Esatto. Quando scrivo le scene ho già in mente i campi e le inquadrature, quasi montate… Quindi, potete immaginare, quando poi il montatore mi dice: «No, qui dobbiamo fare così»… Voglio dire che il mio pensiero già ce l’ho, non devo inventarlo, non devo trovarlo, già l’ho trovato ed è quello.
Ci sembra che in diversi tuoi film parli di luoghi che conosci molto bene e di situazioni che ti interessano, di paesaggi che ti attraversano: uno stare nelle cose che forse ti aiuta anche a essere così preciso quando giri una scena…
In passato mi è stato offerto di girare film all’estero ma ho detto no, non riesco a farlo. Non ci riesco proprio per via dei luoghi... Come fai a parlare di un luogo che non conosci? È una domanda che farei a tutti!
Anche il rapporto con lo spettatore, con chi sta dall’altra parte, per te è qualcosa che esiste già prima del coinvolgimento che avviene sul palco o sullo schermo o, nel caso dell’arte, nel museo? È qualcosa che sta già nell’intenzione, nell’immaginarsi qualcosa…
Sì, ed è qualcosa che non esiste solo in me ma in tutti noi. Il nostro primo problema qual è? Comunicare. Il primo problema sin da quando sei piccolo piccolo, da sempre, è comunicare. Perché quando non lo fai è la fine, no? Anche la mente si blocca. Invece se comunichi, se ti relazioni… Ed è qualcosa che va fatto subito, d’istinto. Diverse nostre azioni, e forse proprio quelle più a contatto con un bisogno, se vai a vedere bene contengono un’apertura, un tentativo di comunicare, una disponibilità alla relazione e alla condivisione...
È la necessità di farsi capire… Prima dicevi: ho bisogno di essere capito.
Di comunicare, comunicare, comunicare.
E come avviene questa cosa? Voglio dire, ora noi stiamo comunicando, quindi, almeno in teoria, sembrerebbe facile: siamo tutti qui, in questo momento… Ma come avviene, invece, al buio? Cioè nel momento in cui scrivi o immagini qualcosa che poi dovrà avere una ricezione in tua assenza, un pubblico… C’è un’angoscia rispetto a questo? Come riempi questo spazio tra la tua immaginazione e la realtà delle cose?
Eh sì. Io cerco di essere il più chiaro possibile. Non con me, perché io già so cosa penso… Però a volte, e vale per la scrittura ma anche per la pittura, succede che davvero mentre sei all’opera scopri delle cose. Sembra quasi che le aspetti emergere dal fondo. E così poi, sopra il fondo, sul tavolo, insomma andando avanti nel fare, scopri che c’è una macchia, una luce, una forma… Quando sei in attività un sacco di cose che non sapevi neanche che potessero esserci prendono vita, la forma si arricchisce, a volte ti invade proprio... A volte fino a farti spostare dal punto di partenza, e allora ti dici: Alla faccia del cazzo! Voglio dire, se inaspettatamente si è appicciata una luce verde fuori la stanza di Nando proprio prima di girare… Ti chiedi: come è possibile? Non la vedevo, forse non la volevo... è allora che questa cosa la accetti: accetti che ti si è appicciata la luce verde nella misura in cui capisci che la luce verde può essere bella… Ed è importante, perché il lavoro sulla bellezza è importante. Poi la cosa bella dev’essere raccontata e deve raccontare. La bellezza fine a se stessa non mi piace. Nel nostro mestiere, ma anche nella pittura, il regista, il pittore, deve, in una certa misura, essere narrativo, no? Per cui mi piace, mentre giro, modificare le cose che accadono per caso in un senso più narrativo. E anzi, ti dico di più, è quando non succede niente di imprevisto che la sera mi dico: «Che cazzo, ho fatto la cosa che avevo in mente, che ho scritto sei mesi fa, l’ho fatta tale e quale eppure mi sento quasi inerte, come se non fosse successo niente…». Ma forse no, non è che non è successo niente, sei tu, tu solo, che non hai visto un cazzo...
Non hai ascoltato, forse?
Non hai visto, non hai ascoltato… E anche questa distrazione forse ha a che fare con la forma… Prima di tutto con la tua forma fisica. Proprio la tua forma fisica. Per me quando giri un film devi stare in forma, perché ti devi accorgere di che cazzo sta succedendo! E a volte lo vedi e a volte no. Guarda, è un casino. Per accorgerti delle cose devi avere sempre appetito! Come se dovessi avere sempre fame…
Devi avere il desiderio…
Devi avere sempre il desiderio, devi essere sempre… capito? E quella è una cosa che bisogna coltivare, no? Mantenerti sempre teso.
Nel tuo cinema, infatti, sembra ci sia sempre una giovinezza…
È l’energia che hai…
È l’energia che ho… boh.
È lo iodio…
Forse è quello, è lo iodio, che t’aggia dicere. E comunque mangio poco. A pranzo mangio solo un’insalata. Però poi prendo il cappuccino, ‘a maronna, poi ne prendo un altro, un altro… Me piglio nu sacco de cafè.
Parliamo di arte. Una volta ci si chiedeva, con coscienziosità e anche temerarietà, che cosa è l’arte? Rispetto al trovare un criterio guida, Pasolini proponeva non di fare riferimento a categorie valoriali quanto piuttosto di dare credito all’aumento di vitalità che l’opera può restituire. Lui parlava di Lettera a una professoressa di Don Milani e diceva che era un libro proprio bello, oltre che «giusto», eccetera, perché «il criterio per me importante è l’aumento di vitalità che dà», per poi aggiungere, «leggendo questo libro la vitalità aumenta in modo vertiginoso». In altri termini è qualcosa che ti fa stare bene. Qualcosa che aumenta la tua percezione e presenza nel mondo. Lui si riferisce alla letteratura, ma forse è un criterio che può andar bene anche per il cinema.
Un’eccedenza…
Che bello… Sono d’accordo. Tu vedi una cosa e hai voglia di fare! Capita che leggi un libro o vedi un quadro o guardi un film e ti viene voglia di leggere, di fare cinema, di dipingere. Ti danno l’impulso. Ti danno la vita. E al contrario, ci sono cose che ti fanno passare proprio il genio. Lettera a una professoressa ti dà la voglia di fare, ti stimola il piacere di voler migliorare.
Pasolini ce l’aveva anche contro la cultura del rifugio nel giudizio…
È sempre quello…
Non hai mai un dubbio sul progetto che stai realizzando, un momento di insicurezza sul set…
Ti rispondo con un esempio. Una volta ho partecipato a un incontro sul cinema italiano, eravamo in quattro o cinque registi, ci sediamo e cominciamo a fare delle cose, quello che aveva organizzato l'incontro a un certo punto ci dice come mettere la macchina da presa, come mettere la luce… Insomma, alla fine c’è voluta un’ora e mezza per dire ai registi come mettere la macchina da presa. Io mi sono distratto subito.
Ma davvero è così facile per te? Una specie di istinto?
Sì, faccio così. Paolo [Sorrentino], che veniva spesso sul set di Polvere di Napoli, che abbiamo scritto insieme, ogni volta mi diceva: «Anto’, com’è che hai pensato di fare questa inquadratura?». E io gli rispondevo: «Che cazzo ne saccio io?».
È come dire che di base hai una posizione chiara e in un certo senso fiduciosa, dico proprio nello stare al mondo…
Non lo so. È il set, la gente, gli attori, le cose… E in tutto questo dico: «Metto la macchina qua».
Ci sono attori con cui trovi questa intesa, questa stessa spontaneità?
Teresa Saponangelo, per esempio, è un’attrice con cui mi viene facile lavorare, ed è molto brava. Recentemente mi ha portato una bella storia da cui ho scritto una sceneggiatura, magari ne faremo il film. Racconta di una moglie, un marito, un bambino… e di una separazione. Vedremo.
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