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Tra lusso e volgarità, Roma è ancora barocca. Conversazione con Andrea Cavalletto su Enea di Pietro Castellitto

In occasione dei Nastri d’Argento 2024, dove era candidato in sette categorie, tra le quali miglior regia, torniamo su un film , Enea di Pietro Castellitto, che ci aveva interessato molto per il suo ritratto originale, e dall’interno, della borghesia romana. Ne abbiamo parlato con il costumista Andrea Cavalletto.


Come sei arrivato al film? Conoscevi Pietro Castellitto?

Avevo conosciuto Pietro l’anno prima, come attore, per Rapiniamo il Duce di Renato De Maria, prodotto da Netflix, film che, ahimè, non ha avuto un grande riscontro, anche se era un lavoro impegnativo. Tra noi s è stabilita da subito una certa confidenza, e quando Pietro ha completato la sua sceneggiatura di Enea mi ha chiamato, mi ha chiesto di leggerla e mi ha chiesto se mi avrebbe fatto piacere lavorare con lui. L’ho letta e mi è piaciuta molto; avevo amato I predatori per quel mix meraviglioso, che c’è anche in Enea, tra un graffiante “politically incorrect” e alcune cose molto sincere. In questi ultimi anni mi sto concedendo il lusso di scegliere film anche completamente diversi da quelli che ho fatto in precedenza, perché il “friccicore” della sperimentazione mi diverte molto e continuo − anche se la mia carriera dura da diversi anni e spero si stia stabilizzando − a fare delle opere prime, perché hanno un'energia particolare e, se i progetti valgono, diventano notevoli, come Re Granchio, di un paio d’anni fa, o Patagonia, che ho fatto l'anno scorso con Simone Bozzelli, o l'opera prima di Sara Fgaier, alla quale ho lavorato quest'anno e che non è ancora uscito, girato in pellicola. Sara è l'ex montatrice di Pietro Marcello, ed è un film meraviglioso. Si intitola Sulla terra leggeri. C'è una grande energia lì, come anche in altri autori. E in Pietro Castellitto quell'energia c’era, con un po’ di follia, ma quella è la base, se no non mi diverto!

Cosa hai trovato di folle nella sceneggiatura?

Beh, i salti, il fatto di rimescolare davvero tutto, un certo cinismo e delle cose che devo dire gli è stato chiesto di edulcorare. Pietro si concede di farsi amare o odiare, nel senso che va dritto a quello che vuole raccontare. È un grande lusso oggi. È una cosa non facile perché attira anche molti delatori, ma Pietro ha deciso che vuole raccontare il mondo dal suo punto di vista, senza la “diplomazia” che in questo momento è la norma del nostro paese. In un'intervista che ho rivisto da poco, Suso Cecchi d’Amico diceva una cosa meravigliosa: quando le chiedevano di pubblicare le sue sceneggiature rispondeva che secondo lei le sceneggiature non hanno dignità letteraria. Questa cosa mi è piaciuta molto, affermava che la sceneggiatura è un passaggio per arrivare al film finito. Il film ha bisogno di tutte le altre componenti. Dalla sceneggiatura di Pietro alcune cose si intuivano, ma non l’insieme. Di conseguenza alcune cose mi lasciavano qualche perplessità, anche sul set, nel senso che mi chiedevo come le avrebbe portate a compimento, se il tutto avrebbe avuto un filo conduttore. Mi sono fidato, perché mi fido dei folli. E quando l'ho visto a Venezia la prima volta, un filo conduttore ce l'ho visto e come. Sai, io non ho contezza di tutto quello che succede sul set, non sto lì con le cuffie, quindi non sento a dovere il lavoro sulla recitazione, lo intuisco, lo osservo e devo dire che alcune scelte, anche drastiche, che Pietro ha fatto durante il film, alcuni cambiamenti di attori, sono stati infinitamente utili. Ho amato il rapporto tra lui e il fratello Cesare ma anche con il padre Sergio; ci sono dei momenti che mi hanno emozionato perché li ho sentiti molto veri. Quando un regista riesce a mettere verità in quello che racconta, e normalmente succede quando racconta se stesso − diceva Fellini che ogni regista deve solamente raccontare se stesso −, riesce a creare emozione qualunque cosa e in qualunque modo stia raccontando. È molto difficile mettersi a nudo davanti alla macchina da presa, spalancare il cuore e farsi vedere per quello che si è, con grande sincerità. Però è questa l'unica cosa che mi fa amare i film che vedo, qualunque sia il regista. Tanta autenticità in Pietro non me l’aspettavo, perché affiancata da una serie di tecnicismi e da una ricerca estetica molto precisa, come testimonia la scelta del direttore della fotografia, polacco, molto in gamba, che lavora un po' come si lavorava un tempo, come ho visto lavorare i grandi direttori della fotografia italiani, cioè avendo la possibilità e il tempo di disegnare la luce e le inquadrature, cosa che non si fa più, perché troppo costosa. Abbiamo girato dodici o tredici settimane, che è il tempo necessario per far bene. Per avere la possibilità di curare tutto.

Cosa ti ha chiesto Castellitto a proposito della rappresentazione di Roma?

Abbiamo fatto un grande lavoro estetico, nel senso che − non vorrei dire una cosa che mi attira le male lingue… − ho tenuto conto che una punta di volgarità dovesse esserci, perché un certo tipo di borghesia, soprattutto romana, vive in bilico tra lusso e volgarità. Roma è così, questo è il motivo della mia adorazione per Roma, che non è una città elegante. “Elegante” e “Roma” non vanno d'accordo. Roma è rimasta una città barocca, una città dove il lusso e l'estetica non sono al servizio dell'eleganza, ma della meraviglia. Era un tratto insito nel barocco, per averne un’accezione alta. Oggi c’è una meraviglia molto meno alta di quella della Roma di Bernini. Con Pietro ci siamo dati degli input. Lui aveva in mente un certo tipo di cinema − mi viene in mente Lanthimos, ma non solo ovviamente − dove c'è una grande ricerca estetica e un tocco di cinismo non manca mai. Avevamo entrambi in mente l'Eur, che paradossalmente nel film viene fuori poco, meno di quello che ci eravamo detti, comunque era un riferimento molto razionalista o post razionalista. Rispetto ai colori abbiamo giocato moltissimo sul bianco e nero, sui colori dei marmi; anche per il personaggio della madre c'è stato un lavoro sui colori chiari, freddi, mixati con alcune punte proprio per definirli in alcuni momenti, colori che aiutassero questa rarefazione, come se fossero su statue di un bassorilievo, in mondi molto chiari, molto razionali, molto puliti. Con il direttore della fotografia c'è stato molto dialogo. Radek Ladczuk, da grande esteta, si era fatto un mood board di colori, di temperature di colori che ha proposto a Pietro, e la cosa mi ha divertito e mi ha fatto molto piacere. Adoro riempire di immagini i registi e fare grandi mood book con delle reference che vanno dal presentare alcuni personaggi con riferimenti, magari presi dalla realtà al prendere ispirazione da fotografi o dall'arte contemporanea. Cerco di suscitare emozioni attraverso delle immagini per arrivare al personaggio da un'altra strada.

A quali fotografi guardavi?

Ho preso ispirazione da vari fotografi americani che hanno, anche loro, un certo tipo di cinismo, di brutalità, diciamo la versione alta di Cafonal. Fotografi graffianti, che mettono in scena in maniera molto pop la decadenza della società borghese, per esempio esasperando alcune caratteristiche di donne anzianissime di Los Angeles, sudatissime al mare, oppure ingioiellatissime e piene di chirurgia plastica, tutte rifatte. Insomma, quel tipo di mondi lì, in qualche modo esagerato. La presenza del bianco e nero mi piaceva molto, il personaggio di Enea è quasi sempre in chiaroscuro, come se fosse un personaggio che vive nei chiaroscuri. L’ho vestito in bianco e nero, bianco e blu e molte righe, molta geometria dappertutto. E Cesare lo stesso, con la divisa bianca e nera, con delle cravattine. Abbiamo fatto un lavoro di grafica… un gioco di cravatte fatte di bianchi e blu. La figura di Pietro ha tanti grafismi che si incastrano, ma sembra sempre un bianco e nero o bianco e blu. Ovviamente un guardaroba “molto su”, ci ha aiutato molto Armani, con Stella Giannetti, che è la responsabile delle Pubbliche Relazioni, una persona molto cara. Quindi ho usato moltissimo Armani, anche delle cose vintage, delle cose meravigliose di Ferrè, e Dior. Enea non ha mai un “total look”, ha sempre dei mix, che è la cosa diverte di più, se no si tratterebbe di moda portata al cinema. Abbiamo fatto realizzare delle cose da sartorie dove mi appoggio spesso, per esempio la Sartoria “Il Costume”, e ho collaborato con dei sarti che lavorano con me per fare molte cose originali. Per il personaggio di Marina, la madre di Enea, ci eravamo dati come reference l’high society americana, non dico i Kennedy, ma insomma, rifiltrato dalla romanità. Quel “barocchismo” non così elegante di cui parlavo prima.

Oltre agli stilisti che hai già citato, nel film ci sono anche delle cose di Gucci e Bulgari. Puoi dire qualcosa in più sul tuo lavoro con le grandi firme?

Si tratta sempre dello stesso lavoro, gli sponsor sono molto, molto utili. A volte sono fondamentali perché anche i film con un budget più grande non ce la farebbero, non abbiamo budget all'americana. Per il film di Pietro mi ha lasciato libertà, nel senso che, molto gentilmente, mi hanno messo a disposizione nello showroom una serie di cose tra le quali scegliere dei capi adatti al personaggio, ovviamente senza imporre l’obbligo di usare solo cose loro. Benedetta ha poi dei capi vintage che ho trovato io, anche di Gucci, che abbiamo mescolato agli altri abiti, e delle cose che ho fatto realizzare ad hoc, come l'abito anni ’20. Quando lei e Pietro si incontrano è tangibile che vengono da mondi diversi. A Pietro questo aspetto piaceva e l’ha esasperato con il direttore della fotografia nell'inquadratura in cui prendono il gelato, con un'ottica molto distorta. Benedetta ad un certo punto indossa un gilet rosso che sembra una cosa etnica, in realtà è gilet di Saint Laurent, magnifico, dell'inizio degli anni ’80, e sotto ha una maglia di Gucci.
Pietro voleva che fossero molto presenti gli orologi e i gioielli, voleva che fosse presente l’ostentazione del lusso. Il suo personaggio al matrimonio ha un grande orologio d'oro di Bulgari, un incubo per la produzione perché le assicurazioni sono molto alte e l'attenzione sui set deve essere adeguata e spesso accompagnata dalle guardie armate. Nel matrimonio finale mi divertiva che ci fosse un piccolissimo accenno non tanto a Otto e mezzo in sé, quanto al bel lavoro di Piero Gherardi con Fellini. Fellini e Gherardi hanno collaborato in tanti film ma Gherardi è un costumista quasi dimenticato, pur essendo un genio. Ho strizzato un po’ l'occhio agli anni ’60 con cappelli per Marina e con il suo abito per il matrimonio, che abbiamo fatto realizzare nel segno di Gherardi.

Come avete affrontato lo straordinario personaggio di Valentino, l'alter ego di Enea? In lui è molto forte questo elemento borghese, snob, talmente snob che diventa fragile… Ha sempre dei maglioncini da ragazzino…

Giorgio Quarzo Guarascio, in arte “Tutti Fenomeni”, è un cantante che credo Pietro si sia tatuato addosso. È una persona intelligentissima, con dei tocchi di dandismo, ma non snob. Un personaggio folle. Parlando dei personaggi, Pietro mi ha fatto vedere i provini di tutti gli attori, perché per fortuna all'inizio della preparazione, cosa fondamentale, aveva già le idee chiare sul cast. Quando abbiamo parlato del personaggio di Giorgio m'ha fatto vedere il provino di cui era entusiasta; mi ha fatto vedere anche il provino di Marina. Già nei provini si intuiva un tutto tondo dei personaggi e come avrebbero potuto essere vestiti, che è una cosa che mi capita di rado. Non dico che fossero già il personaggio, ma che erano riusciti a portarmi il personaggio in un provino. Per esempio, mi diceva Pietro, l’idea del rossetto per Giorgio è nata nel provino, dalle chiacchierate tra loro due a pranzo e a cena. C'era un tocco di follia, e ti dirò di più…  nel provino Giorgio mi ha ricordato il Terence Stamp di Tre passi nel delirio di Fellini. Terence Stamp è anche in Divina creatura di Giuseppe Patroni Griffi, ho avevo rivisto. Ambientato tra il 1919 e il 1920 a Roma, è un film che venne distrutto all'epoca, criticatissimo, ma squisito, di una infinita maestria estetica; un film sulla società romana decadentissima che si aggrapperà al fascismo. C'è un Mastroianni divino, meraviglioso, Laura Antonelli, attori pazzeschi. Ritraeva la società iper-borghese e aristocratica romana, all'epoca di un'eleganza spropositata − vestiti magnificamente dalla Pescucci e fotografati da Peppino Rotunno −, però annoiata, dove nella noia si innestavano le droghe. In quel momento il fascismo li ha rapiti, per noia, perché quel “friccicore” della morte, della ferocia, diventava pretesto per ammazzare la noia. Il film uscì negli anni ‘70 e, in quell’epoca così politicizzata, la critica lo distrusse perché una società che sposa la ferocia per noia e annoiandosi era incomprensibile e detestabile. Come dicevo, Terence Stamp è il protagonista e ci ho visto delle assonanze con il film di Pietro che mi sono servite. È stato divertente: il germe per fare il cinema bene lo trovi nel cinema, perché lo hanno fatto molto meglio di come lo facciamo noi. È la chiave di volta per noi costumisti, e non solo per noi, per tutti, per i registi e gli sceneggiatori. Far proprie le cose immagazzinate e rimetterle sul tavolo e sul foglio con la nostra sensibilità.


L'importante è che vengano digerite, rielaborate e diventino nuove. Ci vuole una personalità che le trasformi. Pietro in questo è riuscito, perché c'è tanto cinema nel suo film, però il film è anche diverso da tutto, è una cosa nuova. E il tuo contributo sicuramente lo ha aiutato. Puoi dire qualche altra cosa sul tuo rapporto con il cinema che ti ha preceduto?

Non finisco mai di vedere film, nuovi e del passato, che sono talmente belli, dove c'è tutto, dove c'è tutto e di più. È un divertimento. L'anno scorso ho rivisto La strada, ero in estasi. Per fare cinema bisogna conoscere il cinema. Bisogna rivederlo, ri-innamorarsi in continuazione, avere sempre la curiosità di rivedere le cose belle. La bellezza ci aiuta sempre. Per chiudere su Giorgio Guarascio volevo raccontare che ho proposto a Pietro un tentativo, lui era un po' titubante, tanto che ho pensato: «Va a finire che divento più folle di Pietro, ma rischiamocela»… Giorgio indossa molte divise: la divisa da aviatore, la divisa del circolo dell’aeronautica, una divisa inglese autentica, rossa fiammante, che si è vista poco, sotto il mantello da Freddie Mercury o da Radiohead, da folle monarca, la corona reale di Sant'Edoardo, tutto un po' distorto nel segno di un tocco di goffaggine che Pietro voleva; poi una bellissima divisa olimpionica tedesca del ‘60, una felpa piena di attache dei cantoni, da Brema a Düsseldorf, una follia! E poi una divisa da cricket, un maglione da cricket, ma Valentino lo usa per il tennis, che tu giustamente vedevi in risonanza con Il giardino dei Finzi Contini. C'è un po' di Britannia style, ma sempre attraverso il mondo della divisa. Questo ci divertiva e mi divertiva.

Che significato hanno esattamente queste divise?

Voleva essere un modo per aggrapparsi a qualcosa che ti dà stabilità, all’interno della follia.

E crea un contrasto nel personaggio. Come hai trattato invece Castellitto padre?

È stato divertente, molto divertente. Sergio è meraviglioso. Ci conosciamo da tempo. Lui era molto più neutro, assolutamente neutro, anche per il lavoro che faceva. Ha solo un fantastico occhialetto, un occhiale magnifico, di un artigiano di Venezia che li fa a mano, si chiama Micromega. Mi fa piacere citarlo perché è stupendo, da anni fa occhiali per i più folli personaggi dell'intellighenzia italiana. Daverio per esempio comprava da lui quegli occhialetti tutti sospesi, dei giochi di ingegneria.

Avevo notato l’aggancio strano di questi occhiali. Quindi è una cosa ricercatissima.

Pietro invece ha dei bellissimi Persol da sfoggiare, e doveva essere sempre abbronzato. C'è stato un bellissimo lavoro di trucco nei momenti in cui l'abbronzatura se n'era andata e non c'era tempo di fare la lampada. Pietro nel film è sempre luminoso.

Parliamo anche del personaggio della ragazza. Il suo vestito nella festa anni ’20 era quasi eccessivo.

In realtà dovevano esserci due grandi feste, poi Pietro ne ha eliminata una, giustamente. Una più contemporanea - dovevano esserci 400 figurazioni - e una in stile grande Gatsby, quindi di ispirazione anni ‘20, che abbiamo girato a Villa Miani, con 300 persone. La festa era anni ‘20 ma tutti erano vestiti in modo folle, con l'ispirazione dagli anni ’20 ma mescolando qualunque cosa potesse sembrare d’epoca, dalla Berlino degli anni ’20 ai clown a qualunque altra cosa. Loro rimangono personaggi della borghesia romana di oggi che noleggiano degli abiti di ispirazione anni ‘20, senza precisione filologica, ma divertendosi. E c'è anche una battuta di Cesare, quando sono al fast food, che dice: «Vi siete vestiti come due coglioni». Pietro è tutto in bianco, ha uno smoking fatto su misura, fatto da un sarto a cui mi appoggio di solito, che ha una mano pazzesca. E lei ha un abito che si vede poco, ahimè, ma un abito tutto di cristalli degradé in rosa il cui tessuto viene dall'Africa; è un tessuto di un'artigiana magnifica e folle di Johannesburg.

Perché si vede poco?

Si vede solo la parte superiore, Pietro ha lavorato su piani molto stretti. Ma in generale degli abiti anni ’20 non si vede moltissimo. Sono rimaste delle superbe silhouette, tra le quali quelle delle ballerine: con lo scenografo Massimiliano Nocente, che è un'altra persona con cui ogni tanto lavoro, e molto bene, per aumentare il volume visivo della festa abbiamo proposto delle grandi pedane sulle quali far stare delle ballerine da caffè Chantal, con enormi copricapi di piume. Erano dodici, ma se ne vedono tre o quattro.

C'è qualche altro episodio particolare che ci vuoi raccontare?

Un altro bel personaggio è stato Matteo Branciamore, il poveretto con una lente con l'occhio colorato. Matteo è stato molto bravo. Era difficile portare quella lente durante le otto ore di riprese perché distorce  la visione. A un certo punto ha chiesto che la lente gli opacizzasse l’occhio perché era meglio non vedere nulla.

La cosa più difficile che ricordi di questo film?

Per fortuna ho la capacità di “resettare” e di ricordare solo gli aspetti belli. È una grande gioia. Spero continui così. Enea è stato un film molto naturale, molto felice, come me ne sono capitati pochi. Certo era impegnativo. Le prove di vestizione che abbiamo fatto sulle figurazioni sono state infinite, c'era un sacco di gente da vestire. Due mesi di lavoro solo per la scena di Villa Miani. Un bel gruppo di lavoro sia dentro il reparto che con gli altri reparti e un bellissimo reparto di regia, che è fondamentale, con un bravissimo aiuto regia, Andrea Vellucci.

Andrea Cavalletto