Terre tra due fiumi di Maurizio Carrassi è un lavoro su sei personaggi, iraniani e irakeni, inseriti da più di trentanni nel nostro paese, cittadini italiani, impegnati in professioni creative. Tutto girato a Roma, in una location diversa per ogni personaggio, ma con inserimenti di materiali visivi provenienti da Iran e Irak, il film innesca percorsi tra passato e presente, tra terra di origine e terra di approdo, tra miti di antiche civiltà, sempre presenti, e realtà quotidiane.
Maurizio, come è nata l’esigenza di fare questo film?
Questo documentario nasce da un incontro e da una suggestione narrativa. Un incontro che mi ha fatto partecipe di un impegno politico nell’Iran tra Reza Pahlavi e Khomeini, e il racconto di una strategia per resistere alle torture. Mi raccontarono che, per resistere alle torture, si allenavano a pensare che quello stesso dolore, se parlavano, sarebbe stato inflitto a un altro compagno; la necessità di evitare quella sofferenza al compagno sarebbe diventata forza per resistere. Questa “strategia” non era fondata su argomenti razionali o utilitaristici; la forza dei legami che tutto questo sottendeva mi colpì.
Questo impegno politico era praticato dall’Italia o in Iran?
Mi raccontavano che in Italia lavoravano come pazzi. Il denaro guadagnato e il tempo libero lo dedicavano alla controinformazione. Stampavano 30.000 copie di giornale. Alcune per i compagni in Italia, le altre erano stampe microscopiche leggibili solo con la lente d’ingrandimento. Le occultavano in lettere destinate all’Iran. Le lettere venivano spedite a indirizzi casuali. Da quando avevano disarticolato la rete nessuno sapeva chi e dove fossero i compagni. Speravano che almeno qualcuna di queste missive ne raggiungesse qualcuno. Quello che li muoveva era un “sogno”. Non un’utopia, ma qualcosa di ancora meno razionalizzabile. E non un sogno nel senso di un obiettivo al di là dei vincoli razionali, ma sogno come dimensione esistenziale. La micro immagine del giornale in 30.000 copie spedite a caso è altrettanto forte del battello e della montagna di Fitzcarraldo, e molto immediata. Sull’eccesso di concretezza che pervade le nostre vite europee si dovrebbe aprire una immensa riflessione. Questa dimensione del sogno affonda in antiche civiltà, solo apparentemente lontane, e io credo che ci riguardi tutti come destino. I racconti del mio film trattano di stati d’animo, di immagini e sensazioni della memoria, più che di fatti.
Infatti i racconti di questi sei personaggi sono accompagnati da materiali visivi diversi. Puoi parlarci di questi materiali?
L’utilizzo delle loro immagini, non comprate ma cedute in maniera partecipativa, è stato fondamentale, costituisce la chiave delle loro narrazioni. I loro racconti si dipanano attraverso immagini che hanno, di volta in volta, diverso statuto. Possono essere evocazioni, documentazioni, reportage, immagini fotografiche, disegni, come nel caso del vignettista Radpour, dipinti, come per Jaber, o addirittura mappe, come nel caso di Mohammad. Una memoria visiva continuamente sollecitata e una vera e propria soluzione formale per il film. Forse la suggestione, il bisogno di queste immagini viene da lontano. Ricordo Ta’ziyè, uno spettacolo allestito a Roma da Abbas Kiarostami al Teatro India. Eravamo circondati da schermi che mostravano una moltitudine di persone che si erano radunate per una celebrazione, filmata in bianco e nero. Intanto sulla scena venivano rappresentati dei miti. Fui colpito dal legame che Kiarostami riuscì a stabilire tra queste due dimensioni, dal legame che si produceva tra passato e presente. Assistevamo alla realtà di uno spettacolo dal vivo che rievocava un mito culturale, mentre una realtà documentaria, proiettata, si trasformava in messa in scena. Tornando al mio film, ho girato immagini di reperti artistici al museo d’arte orientale, senza poi montarli nella versione definitiva, ho commissionato alcune riprese, ne ho acquistate altre in Iran, come sequenze di fiumi, siti archeologici, ambientazioni urbane, ho utilizzato immagini di reportage provenienti dall’Irak sotto occupazione. Spero che anche il mio film sia un lavoro intermediale dove la memoria si allea all’urgenza della testimonianza e alla fiducia nella possibilità di una condivisione umana, di una solidarietà.
Chi sono i tuoi sei personaggi?
Il pittore Jaber racconta di un disagio giovanile a Babilonia per la condizione abbiente del padre che gli rendeva difficile la vita in un contesto contadino. Parla della morte di sua madre e della sua opera in cui colore, vita ed erotismo emergono da un’oscurità incerta e misteriosa. Jaber, non potendo rientrare in Irak, trascorre alcuni periodi dell’anno in Siria dove ha uno studio. Ha bisogno di questi soggiorni per ristabilire il suo equilibrio creativo. Mohammad, architetto iraniano, riferisce di un suo recente viaggio e, poco a poco, risale indietro nel tempo, su immagini del sito di Persepolis. Parla dei suoi anni di formazione, quando nel giardino del consolato italiano venivano proiettati i film neorealisti, racconta la gioventù iraniana. Dariush Radpour, celebre illustratore satirico, ci racconta la sua storia, sospesa tra oriente e occidente. Nel suo studio troviamo diverse immagini, tra cui quelle di Esfan, meravigliosa città iraniana. Dariush racconta la sua storia anche attraverso immagini fotografiche, come quelle della sua collaborazione con Zurlini per Il deserto dei Tartari, mentre fa considerazioni sulle immagini nella cultura islamica e il suo lavoro attuale di illustratore per le principali testate italiane. Vediamo Alì Assaf, artista irakeno, in una sua efficace e “shakespeariana” performance video. Mentre racconta scorrono vecchie foto, ritratti familiari, materiali che usa ampiamente nelle sue opere. Alì Adib Fateh, giornalista irakeno di origine curda, incentra il suo racconto su migrazioni, confini e persecuzioni e conclude sulla questione della fiducia, che è in fondo la condizione che ci ha permesso di girare il film. Adib ci ha fornito molto materiale da lui girato con una camera amatoriale in Irak. Sono immagini eterogenee, che manifestano una grande inquietudine. Kurosh si occupava e continua a occuparsi di immigrati come sindacalista e mediatore culturale.
I “due fiumi” del tuo titolo sono senz’altro anche metaforici...
Sì certo. Il mio film si basa sul dualismo. La vita razionale e il sogno, come ho detto, il ricordo e la quotidianità, l’impegno e la nostalgia, gli spazi espressivi conquistati e la cultura millenaria, ma continuamente attualizzata, i legami recisi o mantenuti, la capacità di adattamento. Gran parte dell’umanità oggi è divisa. Tutto questo è fonte per una ridefinizione antropologica e culturale per la quale mi sembra che il cinema possa fare molto.
Terre tra due fiumi è stato girato nel mese di marzo 2007 e montato nel luglio/agosto 2008, con la collaborazione produttiva di Giuseppe Piccioni e Mario Chavarria per MMV.
Soggetto e regia Maurizio Carrassi: camera Lorenzo Cioffi: suono Ivan De Francesco; organizzazione Chiara Polizzi; montaggio Mattia Colussi, musiche Jamal Ouassini, Radio Dervish, Axiom of Choice, Dasfan. Il film è stato presentato in diverse rassegne e festival tra cui Asiaticafilmmediale (segnalazione come miglior contributo italiano) e Levante International Film Festival.