Federico Mattioni (Vetralla, VT, 1981) è un regista indipendente italiano. Laureato al DAMS di Tor Vergata, dopo una lunga serie di cortometraggi, più volte sviluppati nell’ambito del festival Cinemadamare, ha realizzato i suoi primi due lungometraggi, Dalle parti di Astrid (2016) e Tundra (2019), rimanendo fedele alla dimensione dell’indie e alla componente personale e immaginativa che aveva caratterizzato i suoi lavori precedenti. Questa intervista prende spunto dalla sua prima “personale”, un ciclo di proiezioni di quattordici cortometraggi e del film Tundra che ha avuto luogo in ottobre 2019 al Teatro Flavio di Roma e dall’occasione del casting per il suo nuovo progetto, Breve idillio.
Qual è il tuo background umano e culturale?
La scuola della vita e la scuola dei libri, dei film, della musica, dell’arte. Sotto l’aspetto culturale mi sono costruito in via quasi del tutto autonoma, anche se indubbiamente l’ambiente universitario si è rivelato stimolante. Ci tornerei, se potessi. Ha avviato processi che continuano tutt’ora ad andare avanti, perché evolutivi. Studiare, imparare, ingegnarsi attraverso nuove scoperte, dovrebbe essere la linfa vitale di ogni creativo che si rispetti. Riguardo l’aspetto umano, la scuola della vita ha prodotto dei mutamenti che mi hanno forse reso, con il tempo, meno ingenuo e più consapevole, ma è importante preservare il tesoro contenuto nell’anima, il più prezioso dono dell’umano.
Il film Tundra è un viaggio attraverso le sale cinematografiche di Roma che sono state chiuse e spesso abbandonate. Che legame hai e avevi con il "cinema" del passato? Intendo con l’esperienza cinematografica, l'emozione collettiva del film in sala, prima dei multiplex e dei servizi streaming.
Un legame fatto di amore, di rispetto. Credo che l’emozione della visione del film in sala sia assolutamente necessaria al “cinema”, e quindi da preservare a tutti i costi. La prima visione di un’opera filmica dovrebbe essere fatta sempre al cinema e poi successivamente si può sfruttare l’utilità dei nuovi mezzi e delle nuove modalità di visione. Se possibile, inoltre, cerco di andare al cinema quando c’è meno gente, perché adoro sentirmi solo, o quasi, con lo schermo, con le emozioni che filtrano dallo schermo.
Dai tuoi corti emerge anche un interesse per la poesia e la narrativa. Perché è il cinema il tuo medium espressivo principale? Ti rispecchia la definizione pasoliniana di cinema di poesia?
Ho scoperto il Cinema in primis attraverso la carta stampata, le riviste, i fumetti, i libri, quindi i film. Ho sempre letto moltissimo, di tutto. Tantissima letteratura e poesie. In seguito moltissimi saggi cinematografici. E altri generi di saggi. Ho scritto un sacco di cose, pubblicato, sia con case editrici che con il self-publishing. Cerco di comunicare le mie emozioni e di sviluppare la mia fantasia attraverso vari medium, come la letteratura di prosa e la poesia, ma è attraverso il cinema che si possono meglio veicolare certi messaggi. Si tratta di un medium che secondo me potenzia tutte le altre arti, se gestito nel migliore dei modi. Quanto a Pasolini… ha fatto dei film seminali. Il suo immaginario “povero” ma ricco di contenuti simbolici ha fatto breccia all’interno del mio percorso, sempre in divenire. Tra i cineasti italiani è uno dei pochi che torno a rivedere volentieri. Nel 2011 ho girato un corto un po’ sfortunato, ma per certi versi suggestivo, Ragazza di vita, che prendeva spunto da alcune sue poesie e tentava di raccontare in pochi minuti l’incubo della sua improvvisa e assurda morte. È fra i corti che ho messo da parte ma rimane pur sempre una tappa importante del mio archivio di esperimenti. In fin dei conti di quello si tratta. Un primo approccio a quelle potenzialità che a mio avviso possono essere espresse meglio con un lungometraggio. Il contrario di quanto penso per la letteratura, dove invece, credo, i grandi scrittori si riconoscono dalle capacità nella novellistica.
In Tundra le sale cinematografiche chiuse restano – letteralmente – sullo sfondo, mentre in primo piano si sviluppano episodi non sempre connessi con il tema del cinema, a parte la storia delle due ragazze che fa da filo conduttore. Anche nei tuoi cortometraggi mi è sembrato di vedere un gioco particolare forma/contenuto che crea un effetto originale. La mia impressione è sbagliata? O hai trovato una "terza via" - una via, forse, ancora più autenticamente cinematografica?
Tornando a quanto espresso poc’anzi, i cortometraggi sono essenzialmente degli esperimenti, li vedo così. A maggior ragione se non puoi permetterti certi mezzi e non parti con l’asso nella manica da subito. Non avere soldi (o averne pochi/e), non avere permessi, attrezzature professionali ti limita molto sotto l’aspetto formale, quindi punti soprattutto su inquadrature e color correction, piuttosto che su movimenti di macchina arditi e comparto luci. Nonostante i limiti – considerando che, complice anche l’esperienza totalmente libera e costruttiva del festival di Cinemadamare, ho speso dei soldi solo per un corto e, inevitabilmente, per i due lungometraggi – ho sempre cercato di curare, spesso con le mie forze e con quelle di pochi altri, l’aspetto visivo dei miei film, consapevole che nel cinema migliore è la forma a fare il contenuto. Riguardo T u n d r a non ho cercato di fare un film che parlasse esclusivamente dello stato delle sale, né un film sulla storia del cinema. Sarebbe stato proibitivo, per una serie di motivi che è inutile elencare, così come sarebbe stato banale fare un documentario classico con immagini d’archivio, come avrebbero preferito alcuni che non sono avvezzi all’espressione dell’individualità, strana, e a volte straniante. Il mio scopo è stato quello di raccontare, attraverso un quadro desolante, sia dal punto di vista sociale che culturale, e neanche tanto pensando al futuro, quanto al presente, la crisi in cui ci troviamo attraverso varie microstorie, a noi vicine, che analizzassero le cause della barbarie. Ad esempio l’episodio apparentemente ermetico dei morti viventi allude a una sorta di lobotomia, dove a soccombere è sempre il più debole. Cause che riguardano anche le relazioni umane, nelle quali osserviamo dei cambiamenti che spesso non rappresentano un bene, anzi. Ma non volevo solo esprimere un punto di vista critico, volevo anche tentare di accompagnare gli spettatori dentro il mio amore per il cinema, un amore che volevo fosse contagiante, amore per quei generi che meglio si sono adattati al plot. Un plot particolarmente originale, sì, lo ammetto [sorride]. Su tutti il noir, per una serie di motivi che spiega meglio di me il saggio di Fabio Giovannini sul genere dal titolo Storia del noir (Castelvecchi 2000). Dentro l’originalità, l’eccezione, ho immesso citazioni e allusioni varie per cercare di essere più specifico, per sottolineare quel che è stato il cinema e che per certi aspetti sempre sarà. Spero di trovare questa ipotetica terza via nel mio terzo lungometraggio. Sarebbe un’esemplificazione di coerenza creativa.
La comprensione che il pubblico deve avere di un film, nella tua visione, dev'essere più razionale o più emotiva? In che modo evitare l'ermetismo?
Penso che debba essere più emotiva, anche se ci deve essere un asse portante, almeno nei lungometraggi cosiddetti di finzione. Un punto d’appoggio, in sostanza. Altrimenti le deviazioni e gli scarti emotivi non reggerebbero, specialmente se prediligi finali aperti, come me. Vedo i film come delle sinfonie, come dei moti perpetui, non sempre alla stessa velocità. Non sopporto quando si dice che i film siano lenti, non l’ho mai mandata giù questa cosa, non sta scritto da nessuna parte che un film debba essere per forza veloce. Per mezzo del montaggio si cerca di generare una certa fluidità che deve essere allineata comunque con la natura dell’opera, con il baricentro della storia... Ritengo che in determinati momenti ci si debba fermare, osservare meglio, per cercare di andare più in profondità. Altrimenti staremmo girando videoclip o pubblicità. Penso che questo sia un buon approccio per tentare di evitare l’ermetismo, che però non è un male nei corti sperimentali o astratti. Può essere rischioso cimentarsi con racconti o romanzi di per sé ermetici. Non è un compito facile ma ogni sfida racchiude in sé delle possibilità.
Ricorrono spesso nei tuoi lavori delle riflessioni su come l'uomo stia diventando sempre più "macchina" e sempre più "estraneo" rispetto ai suoi simili. È una preoccupazione che effettivamente provi rispetto alla società? Il cinema ‒ il tuo cinema ‒ può diventare una risposta alla crescente alienazione?
Sì, torna spesso perché in effetti sento che è in atto da molti anni una disumanizzazione, attraverso vari strumenti, soprattutto la tecnologia, per quanto strumento utile. Basta guardarsi attorno. Non voglio generalizzare troppo, né fare invettive altisonanti, ma sono sinceramente preoccupato, sento la mancanza di quel che, seppur a tratti, ho provato durante l’infanzia e nell’adolescenza, una comunanza d’intenti, una maggiore genuinità e una maggiore semplicità nell’esternazione dei sentimenti. Penso però che la vita sia composta da cicli e che anche questo presente sia destinato rapidamente a mutare, si spera in qualcosa di più costruttivo, magari prendendo il meglio dal peggio e non il contrario. Credo che nel trattare certi temi, io possa offrire una riflessione, difficilmente una soluzione, probabilmente piuttosto un’alternativa in atto. Con T u n d r a soprattutto, una specie di tour de force, da luna park. Ce l’ho messa tutta nel tentativo di scuotere le coscienze e spero di arrivare ad un pubblico più ampio nel prossimo futuro, in questo senso. Sono molto combattuto fra due poli opposti, quello pessimista e quello ottimista [sorride], e credo che la mia forza consista nel far sì che non predomini troppo nessuno dei due.
Essere "indipendenti" è una circostanza o una scelta? Saresti aperto a ricevere un sostegno ministeriale o regionale, o il contributo di una grande casa di produzione, o pensi che questo limiterebbe la tua libertà espressiva?
Entrambe le cose. Secondo me si dovrebbe sempre cominciare da indipendenti, farsi le ossa, lavorare con pochi soldi e mezzi limitati. D’altronde, le possibilità all’inizio sono generalmente limitate. Virgolettarlo come hai fatto tu è ragionevole, infatti oggi c’è confusione riguardo coloro che sono veramente indipendenti. Sta di fatto che un sostegno istituzionale aiuterebbe ad avere maggiori risorse e magari anche l’aiuto di altre realtà che altrimenti è probabile ti voltino le spalle. Ti si possono aprire delle porte e dei portoni. Al contempo però, il supporto ministeriale o del grande produttore non dovrebbe limitare la tua creatività, altrimenti cominceresti ad essere meno credibile di quando lavoravi con poche centinaia o migliaia di euro.
Da quando hai iniziato a realizzare i tuoi primi corti, quanto è cambiato il panorama indipendente italiano? Franco Piavoli ha apprezzato i tuoi film; hai qualche maestro o modello proveniente dalle generazioni precedenti del cinema indipendente italiano?
Ho iniziato all’incirca a metà degli anni ’10 del nuovo millennio, nel primo stadio della ricerca nel digitale. Una scoperta fruttuosa, democratica, il digitale, però la competenza, il tatto e la voglia di approfondire fanno sempre la differenza. E non tutti sono in grado di fare regia semplicemente accendendo una piccola videocamera o addirittura con un telefono. È successo che mentre il panorama indipendente si è infittito, sono diminuiti gli spazi per fruire adeguatamente questi film. Gli spazi che si proclamano d’Essai si sono colpevolmente adeguati alla filiera distributiva/espositiva. Tanto da sembrare un lago di specchi risonanti di un mercato impazzito per scelta, gusto, accorpamenti coatti. Piavoli l’ho conosciuto in occasione di un evento all’ex Cinema Trevi, e poi l’ho intervistato per il mio sito Il Cinema dei Sensi. In seguito gli ho chiesto il suo parere sui miei primi due lungometraggi. Ne è rimasto favorevolmente impressionato, elargendo complimenti davvero significativi, motivo innegabile di orgoglio per il sottoscritto, a maggior ragione perché mi sento molto vicino alla sua poetica e perché Piavoli fra gli indipendenti italiani è forse quello che ammiro di più (non a caso è nato anche lui come me il 21 giugno! [sorride]). Piavoli fra le altre cose, è un cineasta che comunica a modo suo anche alle generazioni presenti. E immagino future.
Bergman diceva che stare su un set con altre persone è una delle esperienze fisiche più forti che si possano avere. Quali relazioni si creano sui tuoi set? Il rapporto con i tuoi attori ‒ e con le tue attrici ‒ si estende al di là dello spazio del set e oltre la durata delle riprese?
Bergman è un maestro assoluto di vita, non solo di Cinema. E questo particolare è verissimo, tant’è che anche il solo fatto di fare casting, di tenere provini per e con gli attori, è una cosa alquanto elettrizzante. Quello con gli attori quindi è un rapporto simbiotico che comincia a manifestarsi già in sede di casting, per poi svilupparsi in colloqui volti a conoscere meglio la persona, nel tentativo di comprendere cosa si celi dietro la sua maschera. Penso sia fondamentale anche condividere, condividere il più possibile: visioni di film, chiacchierate, passeggiate, spettacoli teatrali, concerti, fino alle riunioni e alle letture di preparazione al set e alla recitazione. Il frutto di tutto questo condividere empatico poi lo si ritrova sul set, se tutto ha funzionato a dovere, e se almeno gli attori principali del film lo hanno sposato con apertura e predisposizione ad un’armonia salvifica.
È in preparazione il tuo terzo lungometraggio: Breve idillio. Puoi anticiparci qualcosa?
Prima del mio secondo lungometraggio, scrissi una sceneggiatura che trattava l’amore dal punto di vista di un uomo convinto, contro i pareri avversi di affetti e media, che sia possibile amare più donne contemporaneamente. Quest’uomo trovava il modo per dimostrarlo. Per una serie di motivi ho poi momentaneamente accantonato, ma mi è rimasto il forte desiderio di incentrare un intero film sul tema dell’amore. Breve idillio è il naturale sviluppo di quel dato di partenza, spostato sull’osservazione di due possibilità sentimentali in contrapposizione: vivere e amare senza rincorrere ideali imposti dall’alto, pensare di amare e sopravvivere seguendo quegli ideali. Il film indaga le relazioni di due coppie agli antipodi, creando un humus giocosamente erotico e molto forte visivamente da una parte, claustrofobico e drammaticamente oppressivo dentro spazi chiusi e stretti dall’altra. La sceneggiatura prevede poi un’apertura alla connivenza tra dramma e commedia, secondo le caratteristiche del dramedy, per mezzo di un espediente che farà incrociare le due coppie, rendendole spettatrici di una grottesca caccia all’anima gemella all’interno di un evento di speed-date. In questo film svolgerà un ruolo chiave, oltre alla scelta dei toni da conferire alle situazioni delle due coppie e agli ambienti, anche la colonna sonora, che questa volta, secondo i piani, dovrebbe contenere più canzoni e magmatici leit-motive ambient. Credo molto alle potenzialità anche commerciali di questo film. Se T u n d r a è il vibrante completamento di un percorso, Breve idillio è l’apertura a nuovi scenari, sempre sorretta da una serie di esperienze, letture, scritture, suggestioni e memorie cinefile.