Incontriamo Maria Luisa Forenza. Laureata in Lingue e letterature straniere, si diploma in Regia al Centro Sperimentale di Cinematografia, a Roma, con Duetto, tratto dai Racconti romani di Alberto Moravia, interpretato da Giulio Brogi. Assistente per Dino Risi, Francesco Maselli, Giancarlo Sepe, dopo una scholarship alla Academy of Arts di Belgrado con il regista serbo Dusan Makavejev, si dedica prevalentemente a documentari dal taglio storico-sociale, girati in Italia e all’estero, con produzione e distribuzione Rai, Rai-Trade, History Channel (Usa-Uk), Netflix. Fra questi: Guatemala Nunca Mas (con Rigoberta Menchù), Mussolini: l’ultima verità, Albino Pierro: inchiesta su un poeta, da cui nasce uno spettacolo teatrale multilingue con Agneta Eckmanner, in scena a Roma e Stoccolma.
Concepito a San Francisco, presentato e premiato con la Menzione Speciale dal Tertio Millennio Film Festival, Mother Fortress è l’ultimo risultato di questo percorso. Ci è sembrata un’operazione dallo spessore antonioniano, una riflessione sul male e sul bene intesi in senso metafisico, indagati nel loro mistero con un linguaggio autentico e potente, un road movie nella luce mediterranea, colta con splendida fotografia sia nella sua spettacolare potenza sia nella penombra di un luogo mistico come un Monastero.
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Le immagini del tuo documentario portano la data del 2017. Quando hai incominciato ad occuparti del tema della guerra in Siria?
L’interesse è cominciato molto prima. Ero in Australia per un documentario quando vidi le prime immagini delle proteste della cosiddetta "Primavera araba", nel 2011. Al rientro in Italia cercai di capire cosa stesse accadendo in Medio Oriente, nonostante non conoscessi la lingua araba. È iniziato tutto in quel periodo, per curiosità intellettuale e interesse per la cronaca. Ma con Mother Fortress non mi sono avventurata nella ricostruzione e nell’analisi della situazione storico-politica mediorientale, per vari motivi. Perché credo che questo lavoro vada fatto quando i tempi sono maturi, con il contributo del lavoro degli storici, sulla base di uno studio accurato dei diversi elementi in gioco. Quello che mi interessava era invece parlare della resistenza umana alla guerra, della vitalità del popolo siriano, e dell’identità Cristiana, che lì si è trovata a dare sostegno alla popolazione nell’ambito di una forte situazione di rischio. Sentivo che il film doveva raccontare qualcosa che proiettasse gli esseri umani nel futuro.
Come sei entrata in contatto con madre Agnes e perché la decisione di raccontare la storia del monastero di San Giacomo?
Ero a San Francisco nel novembre 2013 e sono stata invitata da un parroco per ascoltare Madre Agnes che veniva dalla Siria a raccontare ciò che stava accadendo. Ha fatto il tour di alcune parrocchie e Università americane organizzato da un’associazione per la pace. È ritornata nel 2014 e il 29 aprile, mentre faceva una conferenza in un’università cattolica vicino Berkeley, ho iniziato a filmarla e a documentare quell’evento, che però non compare nel film. A Natale l'ho raggiunta in Siria per conoscere la sua comunità monastica internazionale (proveniente da Antico e Nuovo Continente). Sono ritornata al Monastero nel 2015, poi nel giugno 2017 ho seguito un convoglio umanitario, e di nuovo tra settembre e ottobre dello stesso anno ho seguito sino all’Eufrate la consegna di aiuti in cibo, medicine e ambulanze donate dalla Germania.
Parliamo del linguaggio che hai utilizzato. Il tempo del documentario, nella prima parte che segue la vita dei religiosi nel Monastero, è quello dei movimenti, delle parole, dei rituali della quotidianità. Ma forse contemporaneamente c’è anche un altro tempo…
Sì, è stata una delle coordinate su cui ho cercato di lavorare, il tempo materiale e quello mistico. C’è un tempo cronologico fatto di momenti che si susseguono. E c’è l’hic et nunc, che è il momento della dilatazione dell’io, che accade nella mistica come nell’arte. La sperimenti nel ritmo espressivo di una poesia, in un ascolto musicale, in una preghiera, nella meditazione, in un “om”. È un "esserci", il momento di massima penetrazione e percezione di te stesso e del mondo che ti circonda. In chiave cristiana è il Kairos, il momento in cui sei talmente dentro le cose... le cogli, ti cogli con una tale consapevolezza, che diventa un momento di rivelazione, quasi di eternità. Ti percepisci come vita che scorre, e ognuno lo declina secondo le proprie credenze: ti può introdurre ad esso la vita, o un teologo che ascolti per radio in auto, o un critico come Hans Gumbrecht dell’Università di Stanford, che in un seminario me lo fece cogliere attraverso la lettura di una poesia di Hölderlin.
Non usi mai la musica, mentre in sottofondo spesso si sentono gli spari. Come hai lavorato con il suono?
Nelle riprese c'è stata una particolare attenzione alla registrazione del suono dei luoghi, in interno ed esterno, in tutte le possibili variabili. I canti cristiani in arabo e francese (le principali lingue siriane, utilizzate anche nel monastero assieme a spagnolo, portoghese, inglese, latino) erano una colonna sonora originale che scandiva la quotidiana ciclicità di meditazioni, preghiere, liturgie di monaci e monache. Ho posizionato il registratore Tascam in ogni possibile angolo per catturare i segni del luogo. Dalla finestra della mia camera situata a est di fronte alla città di Qarah, che era identificabile nel buio pesto della notte grazie alla filare di moschee che brillavano di luce verde, ho cercato di catturare la litanìa del Muezzìn che richiamava i fedeli musulmani al loro dovere quotidiano. Il film inizia con il canto del Muezzìn. I giorni e le notti del monastero erano scandite da preghiere cristiane e musulmane, come un canto e controcanto che ho cercato di documentare nel film. E' stata una precisa scelta perseguire un’esperienza percettiva, che Federico Savina, un maestro della registrazione sonora, ha schiettamente apprezzato. E' stato come una ricerca dell’invisibile. E ho scelto di non filmare la realtà della guerra. E' stata la mia scelta 'politica' quella di non raccontare la guerra ma il suo riflesso, che diventa simbolico. Italo Calvino nelle sue Lezioni americane cita il mito di Perseo che sfida Medusa (il cui sguardo pietrifica chi la osserva) usando lo stratagemma di guardare la sua immagine riflessa nello scudo. Perseo ha la meglio sulla Gorgone guardando non il suo volto reale, bensì il suo riflesso.
Le immagini della distribuzione dei viveri sono girate con la mdp nel camion. Quando si chiude lo sportello esterno il suono si abbassa, e in quel momento, da uno spiraglio, si vede Suor Agnes in mezzo alla folla all’assalto degli aiuti umanitari. È un momento di grande sospensione...
La scelta di abbassare il suono è maturata perché quella scena per me, così come si è configurata, con la suora che inaspettatamente entra nell’inquadratura, è un dono. Credo si sia trattato di un destino, o provvidenza, tanto che sento quella scena come il centro del film. Il suono è stato studiato nella fase di editing e missaggio: la questione era se aumentare o meno il caos, sottolineando il trambusto. Si è provato ad abbassare il rumore della folla e ci si è resi conto che era la soluzione giusta: quello era il mio Kairos. Per poter reggere a quella gente che ci inondava e che metteva a rischio anche la mia vita, sapevo che non dovevo scendere dal camion, e quindi ho girato stando all’interno. L’essere rinchiusa mi proteggeva, ma nello stesso tempo sottolineava la violenza di quella furia, di quella fame, e il mio trattenere il respiro di fronte a una tale sofferenza umana. Sono state ore di violenza visiva e sonora. Abbassare l’intensità dell’audio è servito a rappresentare la bolla in cui mi sono rifugiata, per proteggere la mia persona e poter continuare a filmare con tutti i sensi spalancati e con una dilatazione di consapevolezza. Mi sono chiusa in un mio silenzio, che mi ha permesso di poter essere in contatto col mondo, di essere lì presente, nella mia tranquillità, e di fare le inquadrature che andavano fatte.
In questo modo di raccontare c’è un grande rispetto per lo spettatore perché, non aggiungendo musica, dai la possibilità a chiunque di provare emozione nel momento e per i motivi che vuole, ognuno in maniera diversa.
Ho immaginato la struttura del film come un’onda di percezioni. La prima parte, girata nel monastero, è come l’avevo progettata sin da San Francisco, gli spazi e il suono erano già presenti in fase di sceneggiatura. Fra i diversi testi, le monache e i monaci del monastero studiano Il castello interiore di Teresa d'Avila, e il poema La notte oscura di Giovanni della Croce, pietre miliari della letteratura mistica. I momenti dei canti corali sono un Kairos, un’apertura verso uno spazio che è altro da quello semplicemente visibile. Perché noi non sperimentiamo solo ciò che vediamo. Ce lo racconta anche il Cern di Ginevra: siamo un flusso di neutrini che scorrono. La scienza ci dice che la materia non è solo quello che pensiamo di toccare. C’è un invisibile che ci attraversa quotidianamente, per questo nell’immagine c’è il visibile ma anche l’invisibile. Un gioco di luce e buio attraversa il film. In postproduzione abbiamo riflettuto sulla ricerca di vibrazioni percettive estesa anche ai colori delle immagini.
La scena in cui subite un attacco “in diretta”, in cui tu fuggi con la mdp, è anche altro rispetto a quello che hai raccontato. Si trasforma in un metafilm, diventa un momento di testimonianza.
Quel 4 ottobre 2015 c’è stato un attacco di Daesh, in Siria preferiscono chiamarli così e non Isis, perché è un termine dispregiativo. Scesi dalle montagne, sono arrivati nel villaggio di Qarah a un chilometro dal monastero, avevano già ucciso alcune persone. Quelle immagini realmente documentavano… è stato un momento drammatico ma c’era anche fiducia perché il monastero era sotto controllo. È stato un rischio controllato, certo ci sono stati momenti di panico perché è vero che sei in una fortezza (creata dagli antichi Romani) ma prendi consapevolezza che tutto può accadere. Nei mesi precedenti c'erano stati attacchi armati al monastero. I terroristi erano riusciti a sfondare il portone principale e tutti gli abitanti del monastero, compreso i rifugiati musulmani con bambini, avevano fatto in tempo a nascondersi e rinchiudersi nelle grotte sotterranee. Monaci e monache hanno seriamente rischiato di essere decapitati, perché questo accadeva in Siria. I religiosi cristiani degli ordini sacerdotali e monacali hanno eroicamente servito, accudito, sfamato la popolazione rimasta nel paese in gran parte di religione sunnita. Forse è dipeso anche dalla mia formazione cristiana. L’ho sentito come un mio dovere, dovevo andare lì. Quando inaspettatamente è avvenuto l'attacco di Daesh in mia presenza, nel film non ci sono più i monaci che pregano, resta solo una chiesa “cimiteriale”. Ho filmato quello che c'era realmente ovvero il silenzio, eravamo rimasti tutti muti. Ho filmato l'accaduto: la drammaticità del silenzio. Ognuno in quel momento si è assunto la responsabilità della propria esistenza, una dilatazione che ho cercato di cogliere con lo spazio vuoto e con il suono. Alla fine questo documentario è stato un esperimento. Se si coglie qualcosa vuol dire che sono riuscita nel mio intento. E sono grata a Lorenza Mazzetti, e alla sorella Paola, per le loro osservazioni che mi hanno indotta ad alcune importanti limature finali.
Il tuo è un film religioso?
“Religo” dal latino 'legare assieme', è quell’energia che ti accomuna. Il senso religioso più che associarlo a una religione canonica, lo intendo come un’appartenenza, che è umana ma anche oltre l'umano. La spiritualità va oltre il concetto di religione. Posso percepire una dimensione spirituale nel racconto di Buzzati, Il deserto dei Tartari, che Valerio Zurlini ha trasformato in film, con Luciano Tovoli autore della Fotografia. Le pellicole di Raoul Ruiz (che era laureato in Teologia) riflettono una ricerca spirituale nella loro metafisica poetica e paradossale crudeltà. Poi ci sono Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, e Torneranno i prati di Ermanno Olmi, di cui nel 2014 avevo organizzato una proiezione nel Teatro Coppola di San Francisco, assieme a Steve Kovacs, storico del Cinema, e Paolo Barlera, Direttore dell'Istituto Italiano di Cultura. Nel corso delle riprese in Siria c'è stata la personale ricerca di un'iconografia sacra… Piero della Francesca… Ho cercato l’equilibrio sacro in mezzo all’inferno, tentando di incanalare le immagini del reale in qualcosa che andasse oltre. Ho fatto un lavoro di preparazione al film scrivendo un progetto che sapevo sarebbe stato interamente stravolto all'arrivo in Siria. Una volta sul campo avrei dovuto prendere decisioni rapide, dare senso compositivo e significato alle immagini che mi venivano incontro lungo il cammino. Ogni viaggio durante quella guerra è stato una corsa contro il tempo.
Nei titoli del film scrivi di esserti liberamente ispirata a "Metamorfosi del Graal" di Francesco Zambon. Puoi spiegare meglio in che modo?
Correntemente il Graal è la coppa in cui è stato conservato il sangue di Cristo raccolto da Giuseppe di Arimatea. Francesco Zambon, filologo romanzo, è un esperto di racconti medievali del Graal e il libro è una raccolta di saggi. In realtà il film si ispira all'ultimo capitolo in cui si parla di Umberto Eco e Italo Calvino. Entrambi nei loro romanzi hanno trattato il tema del Graal come un’assenza, un vuoto. Il Graal, come fantasma che provoca un desiderio di racconto che si tramanda di generazione in generazione, alimento materiale, perché la 'parola' è materiale, e spirituale. La si lascia in eredità, la si fa apprendere al bambino per educarlo a crescere, e a risorgere. Nella tragedia c’è anche speranza, perdono, amore, rinascita, e questi sono concetti che tu tramandi. Quando alla fine madre Agnes viene a Roma e si viene a raccontare, a confessare – questa parte la chiamavo “la confessione” – lascia la più importante eredità, perché attraverso il racconto, attraverso la parola-immagine, si struttura l’esistenza, la dimensione umana. Lì c’è il passato e c’è il tuo futuro, per te e per chi verrà.
Scegli di concludere il documentario con Madre Agnes che racconta un evento tragico, ma che nel film diventa una sorta di parabola: nell'escalation di crudeltà l’unica cosa che si può fare è l’interromperla attraverso il perdono.
Il perdono ti permette di vedere nell’altro, come corpo fisico, quegli impulsi che tu stesso hai e che puoi comprendere. Il perdono è il massimo della comprensione dell’essere umano, che è limitato ma che al tempo stesso può avere, in sé, delle potenzialità. Vedi l’altro nel suo limite e anche nella sua infinitudine, col perdono gli dai la speranza dell'infinito che è dentro di lui. Questa è la forza dei siriani. Io ho ricevuto lezioni di vita da loro. Nei paesi poveri accadono cose incredibili: vai nelle favelas, in America Latina, e là dove c’è il massimo della povertà c’è il massimo della vitalità. È un mistero. Anche in Siria, in quella distruzione totale, c’è una tale voglia di vivere. La Siria è un coacervo di religioni, sunniti, sciiti, drusi, cristiani, e ognuno con la sua religione sta tentando di ricominciare. La prima cosa che ti dicono è che si consideravano fra di loro 'siriani', nessuno mai chiedeva all’altro di definirsi in base alla religione. Oggi, con questo caos che ha distrutto un equilibrio sociale, si fanno i distinguo.