Giuseppe Carrieri (Napoli, 1985) si definisce «regista, docente universitario, un po’ esploratore». Attratto dall'umanità dimenticata e dai paesaggi nascosti, coltiva nel cinema della realtà la sua principale forma di espressione. Nel 2013, con In Utero Srebrenica, racconta le madri bosniache alla ricerca delle ossa dei propri figli vent'anni dopo il genocidio, guadagnando la nomination al David di Donatello e numerosi premi internazionali. Nel 2017, con Hanaa, ci parla dei matrimoni precoci attraverso un film-viaggio che si muove fra India, Siria, Perù e Nigeria). Le Metamorfosi, presentato lo scorso anno alla Festa del Cinema di Roma, è il suo primo esperimento di docu-fiaba, girato nella sua città d'origine, Napoli. Dal 2018 è docente del Laboratorio Avanzato di Regia Cinematografica dell'Università IULM di Milano e collabora con diverse emittenti televisive nazionali e internazionali.
Nei tuoi film sembra prevalere un interesse verso il mondo femminile. Parlare di “femminismo” sarebbe improprio e riduttivo, ma dai tuoi quattro film sembra emergere l’idea che il dolore, la memoria, le speranze di un popolo possano essere meglio incarnate dalle sue donne, in particolare dalle madri e dalle bambine.
Hanaa comincia con una frase che ho estrapolato dal Talmud e dice «Dio conta le lacrime delle donne». Il dolore è una materia universale, non credo possa avere una prerogativa di genere, o di sesso, o di appartenenza culturale. Penso, però, che in tutti gli incontri che ho avuto negli anni recenti, nelle continue e ricorrenti passeggiate che questa vita mi offre, a bordo di un’aula universitaria, di una metropolitana, o semplicemente guardando un film o leggendo un libro, la donna finisce per avere qualcosa da insegnarci. È come se ci fosse una componente della loro personalità che unisce lati opposti e virtù eterogenee, è come se la donna assumesse in sé l’idea della prospettiva e ci aiutasse a guardare in qualsiasi direzione, verso ogni lato. È per questo che le sue lacrime valgono di più, perché è doppio il suo sentire, ed è doppiamente (e fatalmente) tragico condannarle al patire. Vorrei andare oltre l’aspetto dell’essere “madri” o “bambine” – per quanto è evidente che si tratti di due categorie che hanno già in sé il segno tangibile dell’unicità del sentire (le madri in quanto creatrici, e custodi dell’ordine; le figlie in quanto eredi e innovatrici) – solo perché davvero per me il mistero della donna è qualcosa di liturgicamente insondabile. È come se ogni donna avesse in sé un mistero, un segreto costante, un’incognita permanente, che da un lato ti incuriosisce (e ti inquieta) e dall’altro ti tiene in vita, ti attira alla vita. Il mio interesse verso l’essenza femminile è quindi, alla fine, forse solo l’anelito all’interpretazione di un mondo che so per certo non sarà mai abbastanza mio.
Stupisce come, a distanza di una ventina d’anni, sia le madri di Srebrenica che i carnefici del Rwanda riescano a parlare davanti a una videocamera di quanto hanno subito o di quanto hanno compiuto. In che modo si è svolto il processo di avvicinamento?
Rispondere a questa domanda vorrebbe dire inaugurare una sorta di riflessione personale – pericolosamente lunga – sul senso del mio fare cinema. Per me, il cinema è prima di ogni cosa arte dell’incontro. Ancor prima che guardare in camera, scegliere una porzione di campo, includere ed escludere qualcuno o qualcosa, il cinema è arte del dialogo. A Srebrenica, in Bosnia, come a Butare, in Ruanda, il processo di avvicinamento è stato sempre affidato, tramite delle figure amiche e dei mediatori, alla potenza del linguaggio del corpo. Bisogna credere ancora al fatto che, in assenza di comunicazione diretta, della lingua, esista l’efficacia del sorriso, del tatto, delle pause, di un silenzio. Il nostro avvicinamento è stato un rispettoso momento di ascolto, lì dove forse altri non erano arrivati. L’atteggiamento della regia è stato quindi quello di credere che ci potesse essere una camera interiore, ancor prima che tecnica, una fiducia nella condivisione. Avvicinando le persone che volevamo raccontare, il primo gesto è stato quello di dare loro una ragione per accoglierci. E questa ragione non era economica o filosofica. Era la possibilità di accedere a qualcosa di terapeutico Ci siamo avvicinati come portatori di “ascolto”. La gente si convince ad aprirsi se c’è qualcuno che accoglie. Ed è forse una lezione che dovremmo imparare da molti punti di vista, anche nella vita.
Come hai impostato il lavoro su Hanaa invece? Quanto nel film è ripresa diretta e quanto è ricostruzione dei fatti avvenuti alle quattro protagoniste?
Impostare la lavorazione di Hanaa ha richiesto due anni, e forse qualcosa di più, durante i quali ho voluto accostarmi personalmente al tema dei matrimoni precoci, cercando una diversa angolazione geografica e culturale. La spericolata idea produttiva era, cioè, quella di fondere mappe eterogenee in un unico destino contemporaneo, il destino dell’adolescenza di oggi, che soffre, cresce velocemente, troppo velocemente, ovunque, al di là dei continenti di appartenenza. La realtà nel film è dappertutto, ma il mio fine poetico è proprio quello di non dare coordinate di percezione: mi interessa che non ci siano differenze certe tra ricostruzione e osservazione. Rischierei di svelare quello che, invece, è parte di un programma di trasmissione del contenuto stesso. Ho la speranza di credere che il confine della realtà sia da camuffare, sempre e comunque, credo che uno dei talenti di un autore sia proprio questo. Confondere, ma solo per lasciare un segno. Se tu lo hai ricordato, e banalmente ti sei posto questo interrogativo, allora qualcosa ha funzionato.
La traduzione de Le Metamorfosi di Ovidio, letta da Marco D’Amore, non è in italiano ma in napoletano, slittamento già attuato Eduardo De Filippo con La Tempesta di Shakespeare, e più di recente il giovane drammaturgo Antonio Piccolo con Antigone. Il napoletano sembra prestarsi più di altre lingue e dialetti a rielaborazioni creative dei “classici”? Da cosa è nata l’idea di tradurre Le Metamorfosi in questa lingua-dialetto e quali particolarità aggiunge al testo?
Premetto che il mio è il parere di uno che il napoletano lo parla malissimo. Secondo me non bisogna chiedersi cosa manchi all’italiano bensì cosa ci sia in più nel napoletano. La lingua napoletana è estremamente visiva, evocativa, ora dolce ora tagliante, in cui echi arabi si mescolano alla violenza delle imprecazioni. Il napoletano procede per metafore e perifrasi, alcune delle quali estremamente cinematografiche. Gli esempi sarebbero infiniti, ma, per farne uno, pensiamo al fatto che in napoletano «mi sono innamorato di te» si dice «tengo 'o core dint' o zucchero».
Ne Le Metamorfosi sembrano incontrarsi diverse suggestioni. La fisionomia di alcuni personaggi e molti scorci nell’“episodio” del pescatore mi hanno ricordato Stalker di Tarkovskij, ma vorrei concentrarmi soprattutto sulla balena e sul significato che ha nello sviluppo del film. La bambina Rom si nasconde nella balena, che è allo stesso tempo rifugio e prigione. Da cosa è nato in te questo simbolo?
La balena deriva in realtà da una vicenda di cronaca nera, il cadavere di un capodoglio fatto smaltire clandestinamente dalla mafia in una discarica. Chi non è nato a Napoli questo non lo può sapere, è un fatto che fa parte del mio bagaglio personale, a cui sono risalito attraverso i miei interessi personali.
Un capodoglio fatto smaltire dalla mafia in una discarica? È reale?
Sì. Il "perché" di quest'episodio alquanto bizzarro non lo conosco, e forse, ti confesso, mi è indifferente conoscerlo. Da un’intervista a Vincenzo Guidotti, ex direttore tecnico della società Di.Fra.Bi, si apprende che si è trattato di uno svessamento notturno, quindi clandestino, di una carcassa di balena (altresì definita "balena radioattiva") che giaceva nella discarica di Pianura. Guidotti racconta di questa balena scortata dalle forze dell'ordine come un "rifiuto" speciale. È realtà, ma ha i caratteri del mito. Se non fosse reale, sarebbe "epos", una “favola di formazione" ecologica. Invece è accaduto, e racconta i retroscena feroci di una regione dove il soprannaturale, anche fin troppo avveniristico, corre di pari passo al vero.
Le immagini degli uomini mascherati che camminano sulla neve si riferiscono a una particolare usanza delle popolazioni che in età più antiche abitavano il napoletano?
Sì, anche se forse quelle sequenze in particolare esprimono, fin troppo, il mio gusto barocco. Si riferisce a un’usanza della zona fra Campania e Molise, quella del “Gl' Cierv” (uomo cervo). Volevo esprimere il mostruoso perché Napoli contiene molto di mostruoso. Il personaggio di Gl’ Cierv è stato per me l'occasione di entrare nella dimensione del dantesco. Da bambino ho sempre immaginato, scolpendolo nel buio, il volto di un mostro che avesse più o meno quelle terribili sembianze. Volevo che nel film ci fosse una dimensione post-umana, infernale, che la bambina fosse sopravvissuta all'apocalisse ma che, dopo questa, non rimanessero che macerie e guardiani orribili. La fauna più selvaggia mi sembra riesca a far immaginare un post-vita-umana, l'idea di quel grande palcoscenico vuoto che potrebbe diventare il nostro pianeta. È stata una scelta spinta, eccessiva, perché individua un corpo, lo prende in prestito e costruisce un contrasto con il resto del film, dichiarando anche una sorta di finzione, esibita. Era come uscire dal documentario e muoversi all'interno della fiaba gotica: un gotico napoletano, barocco, forse pure troppo. Non so se ci sono riuscito, ma non potevo perdere l'occasione, parlando di metamorfosi, di cambiare anche io la pelle dell'uomo in qualcosa di possibile, anzi, meglio, impossibile.
La chiave con cui hai raccontato Napoli e la sua periferia è estremamente originale: non c’è né un’esaltazione della malavita né una sterile idealizzazione della città, le tue Metamorfosi sono un esempio di cinema del reale che, anche nel tetro, riesce a farsi poesia.
Per me Napoli è tutt’altro che pizza e mandolini, come vorrebbe una certa idealizzazione quasi turistica. Napoli ha un grande cuore di tenebra, e volevo narrarlo. Adesso vivo a Milano, anche Milano ha il suo cuore di tenebra, ma è coperto da un vestito da donna, da un abito da sera. Napoli invece è nuda, e mostra chiaramente il suo lato oscuro a chi la conosce. Quello che io cerco di portare avanti è un “realismo lirico”: non è la stessa cosa del Neorealismo, e men che meno del realismo magico. Il realismo lirico cerca la poesia e la speranza nel reale. Non potrei mai fare un dramma borghese; cerco di raccontare ciò che è “altro” rispetto a me. Ognuno di noi adesso ha cose da raccontare, sarebbe strano non avere delle proprie narrazioni, ma anche i grandi maestri se parlano di sé lo fanno attraverso gli altri, si pensi ad Amarcord di Fellini che pure è l’apice dell’autobiografismo. Odio l’autofiction e l’autobiografismo, che invece stanno facendo implodere il cinema contemporaneo italiano. Cerco di creare un cinema che faccia luce sulle cose nascoste, sulle cose dimenticate. Devo essere un regista, un osservatore, un testimone.
Hai citato delle correnti, i grandi maestri... Che cosa ti ha portato a fare cinema? Hai avuto dei registi di riferimento?
Le mie origini cinematografiche sono molto poco leggendarie. Ho guardato tanti film a casa mia, e nella stessa casa, fingevo di avere un cinema, attaccando le locandine alla finestra del mio soggiorno, simulando i grandi tabelloni dei cinema del mio quartiere, il Vomero, che negli anni '90 era ancora ricco di sale, oggi divenute supermercati e baretti. Le mie origini sono quelle di un cultore, uno spettatore che si lascia indottrinare dal cinema perché in fondo ha avuto un'adolescenza fin troppo routinaria, in un senso se vogliamo anche positivo: bravo a scuola, amato dalla famiglia, circondato di affetti, le giornate che scorrevano quiete. Il cinema invece è inquietudine, è l'iniezione di un desiderio d'altrove che ti fa trasalire. Il vero cinema, quello per chi lo sente davvero, non è solo un'uscita serale per lasciare una volta tanto pigiama e vestaglie, ma è dis-inibizione, capacità di scoprirsi inventori di altri destini e altro avvenire. Mi ha permesso quindi di costruirmi tante vite parallele, e forse qualcuna di queste, sotto sotto, sono anche riuscito ad averla un po' per me. Per quello che riguarda i maestri, senz'altro il mio punto di riferimento, per sempre e comunque, è Roberto Rossellini. Lo sguardo diretto all'uomo, il senso di verità legato al volto di una persona. Rossellini ha inventato l'uomo, al cinema, e gliene siamo tutti grati. Non era solo "neorealismo", era necessità. Era esplorazione della psiche e della miseria. Noi tutti, in fondo, "fingiamo" qualcosa: Rossellini s-maschera tutto, e tutti. E ci ricorda che l'uomo, che sia uno scugnizzo della Napoli bombardata del 1945 o che sia Luigi XIV, è sempre solo, fragile, ma anche straordinario nella sua unicità. Gli altri nomi sono figli di Rossellini: penso a Kiarostami, in primis, poeta della geografia dell'anima e dei paesaggi interiori. Olmi, pittore della semplicità e della misericordia. Quindi, Scorsese, unico nel ricordarci in che abissi viviamo e qual è il pegno della vita. Tra i più giovani il mio preferito in assoluto è Matteo Garrone. In Italia nessuno come lui ha tatto verso la rappresentazione, senza essere ridondante e senza appellarsi a retoriche da telefoni bianchi, che continuano a sopravvivere. L'Oriente, con la sua metafisica spirituale, penso a Mizoguchi in primis, è un'altra sorgente ineliminabile. E poi il viaggio. Chi viaggia gira sempre grandi film, e questa è stata la più bella scoperta della mia vita.
Tornando a Le Metamorfosi... Il film mescola organicamente il linguaggio del documentario, quello della fiction, quello della video-arte e quello dell’animazione. Quanto la tua formazione documentaristica ha influito sul processo di creazione del film? E da cosa è nato il bellissimo melting pot di linguaggi?
Sono una persona inquieta, non mi affatico a cercare di nasconderlo. Da questo deriva la mescolanza di linguaggi diversi, di stili diversi, che si mescolano fra loro. La scelta dell’animazione ad esempio era la più funzionale e semplice per esplorare l’interiorità della bambina Rom. Nei miei film cerco di fare qualcosa che possa spiazzare: se il film ti è piaciuto o meno importa fino a un certo punto, quello a cui veramente tengo è fare qualcosa che lo spettatore non dimentichi facilmente. Mi ha fatto molto piacere che ventiquattr’ore dopo la prima de Le Metamorfosi tanti amici mi scrivessero «questo film non mi lascia», anche se non mi faccio illusioni sulla reazione che può aver suscitato in tanti altri in sala.
Qualche tempo fa il fumettista Zerocalcare aveva detto che essere andato nel Rojava gli aveva fatto capire che il centro del mondo non era il suo quartiere romano, ma che si trovava lì, esattamente lì dove i curdi cercavano di frenare da soli l’avanzata dell’ISIS. Qual è per te il cuore pulsante del mondo?
Per me il centro del mondo è il balcone di casa mia. Da lì, al quinto piano di un palazzo come tanti altri, appoggiato alla ringhiera, dalla quale da bambino mi invitavano a non sporgermi troppo, ho imparato, per tante estati di fila, il mio cinema preferito: la profondità di campo del mare. Ogni volta che ci ritorno, lì, a casa, comprendo meglio perché voglio fare questo lavoro. È tutto un unico “riavvolgimento” nostalgico, l’idea che l’infanzia eterna esista ed abiti in uno sguardo. Verso la lontananza.