"Il generale dell’armata morta" di Luciano Tovoli: storia e analisi di un film dimenticato

Una questione di rimozione

In Italia c’è una cosa che si chiama rimosso coloniale. È quel fenomeno storico, politico e sociale per cui le responsabilità dell’Italia nel colonialismo europeo sono state sostanzialmente dimenticate – “rimosse” per l’appunto – dall’opinione pubblica e dalle istituzioni, ugualmente pronte a bollare il nostro passato coloniale come “un’avventura”, nell’ingenua convinzione che gli italiani, in Abissinia, in Libia o in Albania, siano stati “brava gente”. La documentazione sull’utilizzo di gas tossici sulle popolazioni prova quanto sia storicamente infondata questa confortante certezza, ma il rimosso coloniale continua a influenzare l’atteggiamento dell’Italia come Stato e degli italiani come nazione anche rispetto a fenomeni contemporanei quali l’immigrazione dall’Africa. Laddove altri paesi europei, in particolare la Francia, hanno pubblicamente riconosciuto le loro colpe – pur continuando a sfruttare il Terzo Mondo in maniera ancora più subdola – e i cittadini hanno acquisito consapevolezza di quanto accaduto nei paesi colonizzati, il nostro passato coloniale è trattato frettolosamente dagli stessi libri di scuola. Questo rimosso ha echi anche al cinema. Se i registi italiani si sono affrettati sin da subito ad analizzare il trauma della Seconda Guerra Mondiale e l’esperienza della Resistenza e della ricostruzione, il colonialismo italiano ha avuto una scarsa trattazione, destinata ad affievolirsi ulteriormente nel volgere dei decenni per quanto riguarda il cinema di finzione, mentre parallelamente il documentario indipendente riscopriva l’argomento come terreno fecondo da esplorare ‒ If Only I Were that Warrior di Valerio Ciriaci, presentato al Festival dei Popoli del 2015, è un ottimo esempio in merito e intervista alcuni degli ultimi sopravvissuti del Massacro di Debra Libranos. Paradossalmente anche un regista impegnato come Gillo Pontecorvo realizzò La battaglia di Algeri, provocando grande scandalo a Venezia per la vittoria del Leone d’Oro, ma nulla sul colonialismo italiano. Lo stesso Ettore Scola sfiora l’argomento in una maniera scanzonata e favolistica con Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, con Nino Manfredi e Alberto Sordi, ma sposta la storia in Angola e parodizza Cuore di tenebra, senza affrontare mai troppo direttamente il tema coloniale e anzi se mai rimettendo in scena alcuni stereotipi di età fascista circa le donne africane. Una delle pochissime eccezioni a questa rimozione fu Le soldatesse di Valerio Zurlini, del 1965, che più che il colonialismo in senso stretto riguardava l’occupazione militare italiana della Grecia nei primi anni della seconda guerra mondiale. Un altro film circa la nostra occupazione della Libia fu Il leone del deserto, del 1981, censurato per volere di Giulio Andreotti in quanto «lesivo dell’onore delle forze armate italiane», ma si trattava di una produzione supportata dal governo Gheddafi con attori stranieri del calibro di Irene Papas, Oliver Reed e Anthony Quinn. Sembra che non esista un film di finzione italiano, significativo e importante, che abbia affrontato o, almeno tentato di elaborare le nostre responsabilità nel colonialismo europeo dell’Otto-Novecento. In realtà questo film esiste, ai tempi della sua realizzazione è stato molto visto in Francia, ma per un assommarsi di incidenti non ha mai avuto una distribuzione italiana, nonostante un cast di prim’ordine. Il film si intitola Il generale dell’armata morta, è stato diretto nel 1983 da Luciano Tovoli alla sua prima e al momento unica regia all’interno di una carriera eccezionale come autore della fotografia, è ambientato nell’Albania del dopoguerra ed è tratto dall’omonimo romanzo d’esordio dello scrittore albanese Ismail Kadare. Oltre al film in sé, gioiello dimenticato del cinema italiano, è interessante ciò che precedette e ciò che seguì la sua realizzazione.

 

Una produzione romanzesca

Lo stesso romanzo di Kadare aveva avuto una storia particolare. Mandato in stampa nel 1963 dopo che il critico letterario Drago Siliqi aveva incoraggiato l’allora sconosciuto Kadare a scrivere Gjenerali i Ushtrisë së vdekur – questo il titolo originale –, era stato tradotto in un primo momento in bulgaro, in serbo-croato e in turco. Solo nel 1970 la nota casa editrice francese Albin Michel ne commissionò la traduzione, aprendo le porte al successo internazionale del romanzo, al punto che la traduzione inglese, di Derek Coltman, venne pubblicata l’anno seguente a partire da quella francese, non dall’originale in albanese. Dopo aver ricevuto recensioni entusiastiche anche nei paesi anglofoni – secondo il New York Times Kadare «non vuole lasciare messaggi, semplicemente li porta in vita in un modo letale» – venne tradotto in oltre 35 lingue straniere, ritradotto in inglese in modo filologicamente più accurato e nel 1999 è stato indicato da Le Monde fra i cento libri del secolo che stava giungendo al termine. La trama è fortemente archetipica e può ricordare vagamente il già citato Cuore di tenebra di Conrad: un generale e un prete italiani ricevono dal loro governo il compito di riportare in patria i corpi dei soldati morti in Albania durante la Seconda Guerra Mondiale. Una volta giunti sul posto però i due uomini vengono sopraffatti dai ricordi del conflitto; soprattutto il generale si fa sempre più scettico e disilluso a proposito della sacralità del loro compito e della guerra in sé. La convivenza con gli albanesi non comporta mai gravi problemi, ma di tanto in tanto i due italiani incappano in qualche incidente – soprattutto quando il generale decide inopportunamente di partecipare a un matrimonio tradizionale – e hanno la costante impressione di essere oggetto di scherno da parte degli autoctoni. Mentre continuano a girare per le campagne dell’Albania riesumando resti di soldati morti dai cimiteri di guerra i due si accorgono di essere seguiti. L’uomo che li segue si rivela essere un ufficiale tedesco con il loro stesso compito, e con la loro identica disillusione. Principale obiettivo della loro missione è ritrovare il cadavere di un colonnello fascista, morto durante la guerra, cercato in particolare dalla nobildonna che l’aveva sposato. Tanto il generale quanto il prete sembrano attratti dalla donna, ed entreranno in conflitto per recondito motivo.  Tutto iniziò sul set di Ciao maschio di Marco Ferreri, dove Luciano Tovoli era direttore della fotografia e Marcello Mastroianni protagonista. Tovoli ‒ che già allora aveva fatto la storia della fotografia cinematografica realizzando, nel giro di pochi anni, due documentari con De Seta, Professione: Reporter di Antonioni, Suspiria di Dario Argento e Il deserto dei Tartari di Valerio Zurlini ‒ era noto nel settore per la sua passione per i libri e un giorno sul set Mastroianni, su consiglio di Ferreri, che glielo aveva passato, gli prestò la sua copia in francese del romanzo di Kadare suggerendogli di leggerla. Tovoli iniziò la lettura e ne fu a tal punto catturato che passò la notte intera sveglio per finirlo, e già la mattina dopo avvicinò Mastroianni per proporgli di essere co-protagonista, nei panni del generale in un film tratto dal romanzo con il quale Tovoli avrebbe esordito come regista. Mastroianni, che con Tovoli aveva già lavorato in diversi set, fra cui La donna della domenica di Comencini, scrisse sul posto una lettera di intenti per girare L’armata morta e altri due future opere di Tovoli da regista, e gliela consegnò. Ferreri aveva già consigliato a Luciano di girare personalmente un film per comprendere più a fondo il lavoro del regista, e si felicitò dell’idea. Fu altrettanto facile trovare l’altro co-protagonista, Michel Piccoli, che non solo accettò il ruolo ma si offrì come co-produttore. Forte di questo primo, caloroso supporto, Tovoli ottenne i diritti e si mise al lavoro sull’adattamento del romanzo. Sentendo l’esigenza di provare i dialoghi, iniziò a fare la spola Roma-Parigi per far leggere la sceneggiatura a Piccoli. Piccoli si trovò dunque, per la prima e ultima volta, a essere co-sceneggiatore di un lavoro che avrebbe interpretato. In fase di scrittura ci fu una piccola ma significativa aggiunta rispetto al libro, riguardante i nomi dei due protagonisti: nel romanzo di Kadare erano indicati semplicemente come “il generale” e “il prete”, ma nel film di Tovoli assunsero il nome di generale Ariosto e padre Benetandi. Laddove il cognome del personaggio di Piccoli non ha un particolare significato, quello di Mastroianni sembra richiamarsi all’eroico Orlando di Ariosto che perde il senno. Quando la sceneggiatura era quasi terminata, Tovoli e Piccoli optarono per ricevere un contributo da uno sceneggiatore più esperto, e coinvolsero Jean-Claude Carrière, co-sceneggiatore di tutti gli ultimi titoli di Buñuel, dei quali Piccoli era stato spesso fra gli attori principali. Carrière si limitò a una piccola modifica strutturale, intervenendo appena su alcuni dialoghi e aggiungendo il testo di una lettera indirizzata dalla contessa Mirafiore al generale Ariosto di Mastroianni, e il film fu pronto a partire. Accanto ai due protagonisti subentrarono Anouk Aimée – che da poco era stata premiata a Cannes, assieme a Piccoli, per Salto nel vuoto di Bellocchio ‒ nei panni della contessa Mirafiore, e l’attore francese Gérard Klein per il ruolo dell’ufficiale tedesco. Un quinto volto venne a completare il cast: Sergio Castellitto, adesso una star europea ma all’epoca del tutto sconosciuto, nei panni di un giovane albanese esperto in sepolture – «un ruolo singolare», commentò Tovoli ‒ che segue i personaggi di Mastroianni e Piccoli per quasi tutto il viaggio fungendo anche da interprete. Spesso questo dato non viene riportato, ma il romanzo ha una natura vagamente autobiografica: anche Kadare infatti fece da interprete in una missione di questo tipo.La produzione non fu altrettanto rapida nel partire, ma nel giro di qualche mese gli sforzi congiunti di Tovoli in Italia e di Piccoli in Francia, assieme alla lettera di intenti firmata da Mastroianni, riuscirono a convogliare nel progetto diverse realtà produttive sia italiane (Antea Cinematografica, Film A2, UGC e RAI2, con un accordo di distribuzione con la Gaumont Italia) che francesi (Film 66). A gestire la produzione venne chiamato Enzo Porcelli, già allora affermato professionista. Ritrovatosi nell’atipica posizione di cinematographer all’esordio come regista, Tovoli si fece affiancare, alla fotografia, dal collega Giuseppe Tinelli. Inizialmente sembrava scontata la scelta di girare per lo più in Albania, là dove la storia era ambientata; e così Tovoli e Piccol – quest’ultimo, come abbiamo detto, anche co-produttore oltre che co-sceneggiatore e co-protagonista – iniziarono ad effettuare diversi sopralluoghi nel paese, lottando contro la burocrazia statale ancora sotto il regime comunista di Enver Hoxha, che sarebbe morto nel 1985. L’Albania che Tovoli e Piccoli attraversarono era un paese ancora impervio, senza strade asfaltate, soprattutto nell’entroterra montuoso dove aveva luogo la maggior parte delle vicende del romanzo. I due cineasti avvertirono in molti momenti una certa resistenza da parte delle autorità albanesi, che direttamente o indirettamente sorvegliavano i loro viaggi, e ricordano che gli autisti si mantenevano vaghi nel raccontare ai due stranieri la vita nel paese. Nonostante questo clima chiuso e burocratizzato, nulla lasciava presagire che una settimana prima dell’inizio delle riprese l’aiuto regista francese e il primo nucleo della troupe che si trovava già in Albania sarebbero stati svegliati all’alba dal direttore dei principali studi cinematografici del paese e cacciati via senza molti complimenti. Tovoli venne raggiunto in una trattoria romana dall’aiuto regista, pallido, che veniva a portargli l’ingrata notizia. Tuttavia il regista non si lasciò abbattere, e in tempo di record riuscì a riorganizzare completamente la produzione, spostando tutte le location albanesi nelle montagne dell’Abruzzo, soprattutto in provincia dell’Aquila. Tovoli conosceva bene la zona, dal momento che a partire dal 1981, in collaborazione con Gabriele Lucci, all’Aquila aveva organizzato Una Città in Cinema, il primo festival dedicato agli autori della fotografia, destinato a svolgersi per dieci edizioni.
Nonostante l’inaspettato divieto di effettuare le riprese in Albania, la produzione poté partire rispettando più o meno i tempi prestabiliti. Negli Abruzzi trasformati nell’Albania più rurale, Tovoli, Mastroianni, Piccoli e il resto del cast e della troupe riuscirono nella non facile impresa di mettere in scena in modo credibile la straniante vicenda del romanzo di Kadare. È interessante a tal riguardo vedere come un autore della fotografia affermatissimo quale già allora era Luciano Tovoli si cimentasse per la prima volta con la regia cinematografica. Come lui stesso rimarca nei contenuti speciali del DVD, «un certo tipo di movimento degli attori verso la macchina da presa l’ho preso dal Deserto dei Tartari: Valerio Zurlini aveva una passione particolare nel non cambiare obiettivi ma piuttosto far muovere in modi diversi gli attori verso la macchina. Tenevo poi ben presente la lezione del maestro Antonioni, omaggiandolo in un piano sequenza senza stacco in cui Piccoli scende da una jeep sul dorso di una collina dove è stato picchettato il terreno, e inizia a dare ordini ai sottoposti, mentre il generale di Mastroianni scruta il circondario con un grosso binocolo militare». Splendido virtuosismo di regia e di fotografia, al termine di questa lunga inquadratura la macchina da presa si ritrova a fare un giro maggiore di 360 gradi, ripresa che inevitabilmente allude al piano sequenza finale di Professione: reporter. Il montaggio del film si svolse in Francia, sotto la supervisione di Tovoli e Piccoli, e tutto sembrava pronto per l’uscita di un nuovo classico del cinema italiano. Una successione di sfortunati eventi tuttavia ne impedì l’uscita in Italia, nonostante le critiche positive, sia in patria che in Francia, dove il film godette anche di un certo successo al botteghino.

 

La distribuzione e la critica

Non selezionato al Festival di Venezia come invece i suoi realizzatori auspicavano, Il generale dell’armata morta si trovò a incappare nel fallimento di Gaumont Italia, la filiale nostrana di una delle più importanti e storiche case di produzione francese, già messa alle strette qualche anno prima dai problemi di budget de La città delle donne di Fellini. Il fallimento della Gaumont Italia bloccò la distribuzione nelle sale italiane di questo e di vari altri film – fra i quali Ehrengard di Emidio Greco e Vagabondi di un giovane Carlo Mazzacurati – tant’è vero che, passati due anni, la Rai, per salvaguardare almeno i propri interessi, premette per farlo passare un paio di volte in televisione, cambiandone però il titolo ne L’armata ritorna, in quanto si pensava che “l’armata morta” potesse dissuadere gli spettatori dalla visione. Nel momento stesso in cui fallivano i progetti di distribuzione in Italia, la distribuzione francese si attivava regolarmente e, forte della partecipazione di Piccoli e dello stesso Mastroianni, che in Francia era acclamato almeno quanto da noi, Le Général de l'armée morte usciva in quattrocento sale.
Un significativo plauso critico accompagnò in patria la (non) uscita del film, del tutto stridente, soprattutto agli occhi di Tovoli, con la mancata distribuzione. La critica francese era entusiasta: François Chalais de «Le figaro scrive»: «La regia di Tovoli può essere paragonata alla pittura di un grande pittore, e le interpretazioni di Mastroianni e Piccoli sono difficili da dimenticare»; l’articolo della redazione di «Madame Figaro» lodava «uno stile forte ed essenziale che ci rimanda alle immagini di Tovoli nel Deserto dei Tartari», per poi rimarcare come «Mastroianni è un brillante Don Chisciotte in questo capolavoro della derisione, divertente, intrigante e di tanto in tanto del tutto comico. Un’opera di questo tipo merita grande rispetto». «Le Nouvel Observateur»: «Fra i molti meriti che questo film accumula, il valore essenziale resta la regia ispirata di Luciano Tovoli, che riesce a trasformare tutti gli spettatori in altrettanti Amleti». Tullio Kezich, che aveva intercettato Il generale dell’armata morta alla Mostra del Cinema del Mediterraneo di Valencia a ottobre 1984, ne rimase molto colpito e gli dedicò un articolo su «La Repubblica» intitolato Quarant’anni dopo la guerra un film così può far paura?: «Rifiutato l’anno scorso alla Mostra di Venezia perfino dalla Sezione De Sica (e quest'ultima potrebbe essere una benemerenza), il film di Tovoli in Italia stenta a trovare la via della programmazione. Eppure, per una volta, siamo di fronte a un’impresa nata dall'entusiasmo di un gruppo di gente di cinema che ha creduto nel bizzarro libro dell’albanese Kadare: Marco Ferreri ne ha parlato a Michel Piccoli che ne ha parlato a Mastroianni che ne ha parlato a Tovoli… Del romanzo il film accentua il grottesco macabro in una chiave che, per la presenza dello sceneggiatore Jean-Claude Carrière, si può legittimamente chiamare buñueliana (al copione ha partecipato anche Piccoli). Nitidamente inquadrato e montato da Tovoli, che esordisce come regista con insolita professionalità, il film s’incentra sul duetto fra il cappellano Piccoli e il generale Mastroianni. Forse non è del tutto a fuoco la figura femminile che curiosamente si colloca come sottaciuto pomo della discordia fra i due protagonisti: al volto enigmatico e sempre splendido di Anouk Aimèe si attaglia la sensualità morbida e reticente, non la retorica patriottarda della vedova del più illustre fra i caduti. Ma se Piccoli gioca di rimessa, introverso e sornione, Mastroianni tira la "corda pazza" di Divorzio all'Italiana e Giallo napoletano e ci dà la sua più sfrenata interpretazione da anni. Basterebbe questo "numero" di un attore in stato di grazia, che nella buffoneria fa filtrare molte amare verità, per conferire al film un tocco di classe. E spunta anche un altro grande attore, Gérard Klein, nella parte di un generale tedesco senza un braccio e impegnato in una ricerca analoga a quella degli italiani. Fra Klein e Mastroianni si svolge una scena di ubriachezza proprio da antologia. Certo L'armata ritorna è un film che scherza coi santi e propone un'immagine della guerra d'Albania per la quale ai tempi di L’armata Sagapò avrebbero schiaffato tutti a Peschiera. Ma è possibile che siano timori di questo genere a impedire l'uscita in Italia? Tanto più che il film è chiaramente favolistico e metastorico, la sua macabra ironia non è tanto rivolta a una guerra specifica quanto a tutte le guerre. E la regia di Tovoli, protesa al simbolo più che alla verità topografica, cancella ogni residuo di cronaca a favore della metafora»1.


Tragico e antitragico

Il generale dell’armata morta è un affresco potente di un viaggio squallido di due uomini attraverso un paese travagliato ma quasi banale, nella sua petrosità. Una sottile vena di anticlericalismo sembra avvolgere il personaggio di Piccoli, per nulla interessato al compito spirituale del suo ruolo e ambiguamente attratto anche lui dalla contessa. Il tono è in parte buñueliano: Tovoli non collaborò mai direttamente con il regista spagnolo, ma uno dei suoi primi lavori all’estero fu Léonor del figlio Juan Luis Buñuel e, come abbiamo visto, il suo esordio alla regia orbita in una dimensione buñueliana anche a livello di cast e di sceneggiatura; lo stesso personaggio della contessa Mirafiori, non era molto lontano dalla sfuggente Conchita dell’Oscuro oggetto del desiderio: se in Buñuel, genialmente, la donna si frammenta nei corpi di due diverse attrici, nel film di Tovoli la nobile vedova manipola il temperamento e la dignità di due diversi uomini. Pur negli omaggi a Buñuel, a Zurlini e ad Antonioni, Il generale dell’armata morta ha nondimeno una sua decisa autonomia registica e, più che un surrealismo onirico tout court, sembra cercare un realismo in cui i confini della realtà si fanno sempre più labili, in un progressivo senso di straniamento, trasmesso anche dalla pastosità della pellicola e dall’asprezza del paesaggio montuoso. Il film mantiene così una palpabile tensione letteraria, pur nelle diverse, meditate libertà che il duo Tovoli-Piccoli, con l’aiuto di Carrière, si sono concessi nei confronti del romanzo.
Quello che in ultimo caratterizza e impreziosisce Il generale dell’armata morta il suo incedere archetipico, dai risvolti quasi tragici, in senso etimologico, e al tempo stesso farseschi. Ciò che guida il film, da un punto di vista sia narrativo che visivo, è l’ossessione crescente del generale Ariosto di Mastroianni da un lato verso i cadaveri da riesumare, dall’altro verso la contessa Mirafiori. Un curioso paradosso, innescato dalla contessa stessa («Se non lo ritroverà deve uscire dalla mia vita»), lega questa duplice ossessione: Ariosto è certo che non appena troverà il cadavere del colonnello Di Brenni la contessa cadrà nelle sue braccia, e qui sta anche il motivo di fondo del suo contrasto con Benetandi – contrasto che Kadare rimarcava con grande maestria di scrittore già nelle prime pagine del suo romanzo, quando appena arrivati sul suolo albanese ed avviati in taxi verso Tirana il generale provava nervosamente a chiacchierare con il prete che restava ostinatamente silenzioso. Al tempo stesso però il generale è costretto dal fascino della contessa ad andare alla ricerca del corpo di un uomo che pur dopo la morte resta una sorta di suo rivale amoroso, tant’è vero che, in una delle scene più memorabili del film, dopo aver avventurosamente trovato il cadavere del colonnello, il generale Ariosto se ne disfa buttandolo in un fiume. Accanto alla pulsante ossessione del generale Ariosto, alla sua morbosità repressa che in territorio straniero (ed ex-nemico) risale allo scoperto, il gesto stesso del riesumare i cadaveri dei soldati caduti si lega a un interessante meccanismo di ritorno psicologico del rimosso che inevitabilmente riecheggia nello spettatore.
Pur nella dimensione epica che lo avvolge, Il generale dell’armata morta è un film di un realismo inquietante, in parte riconducibile alle esperienze personali di Kadare. Tragica è l’ossessione, quella sì, tragico è quel senso di impurità che risale dai cadaveri dissepolti e dalla stessa terra dell’Albania rurale: ma antitragica è la visione della guerra espressa dal generale Ariosto nei suoi discorsi via via sempre più monologanti, antitragico è il generale in sé e per sé, che con la sua ubriachezza e la sua pulsionalità è parodia e perfetto rovesciamento dell’archetipo del generale modello, antitragico nella sua doppiezza è anche il padre Benetandi di Piccoli.
Un ulteriore elemento di confusione ben presente nel romanzo di Kadare e che Tovoli non ha potuto sviluppare sia per motivi produttivi che per motivi registici – certe interessanti sperimentazioni sul plurilinguismo stanno diventando di moda solo negli ultimi anni – è inoltre la questione della lingua. Certo non era privo di implicazioni che Kadare, un albanese, scrivesse dalla prospettiva di due italiani, ex-colonialisti, un romanzo di questo tenore; non è un caso che kafkianamente il generale e il prete – senza nome, come già si è detto, nel romanzo – si trovino costantemente nella condizione di avere bisogno di un interprete, e mantengano sempre lo snervante dubbio di non capire, di capire male, di sentire ripetute in italiano dall’interprete frasi che in realtà non corrispondono alla verità. Il mondo esterno in cui i due viaggiano non è e non può essere loro amico, non comunicano l’uno con l’altro e non possono comunicare con gli altri, con i loro sottoposti; questo viaggio in Albania, già paradossale e macabro nelle sue premesse, si fa inevitabilmente catabasi dentro il proprio sé – ma è un sé perduto. Il generale dell’armata morta di Luciano Tovoli ripristina allora l’immaginario di Antonioni nell’elemento del deserto, inteso prima ancora in senso esistenziale (alla Deserto rosso) che geografico (alla Professione: reporter) e a cui si possono pienamente ricondurre le montagne albanesi ritrovate negli Abruzzi. Questo deserto però non è né l’occasione per una fuga da se stessi né la sede di una liberatoria sessualità primigenia, come poteva essere in Zabriskie Point: il deserto nevoso dell’Albania riecheggia di ambigue pulsioni, di sangue contaminato e di rancore represso, ed è biblicamente luogo di tentazione e di disfatta morale tanto per il generale Ariosto quanto per il padre Benetandi. Non è forse priva di significato metaforico una delle scene visivamente più belle, quella dell’esplosione della dinamite sulla neve: più che esplodere in una soddisfazione incontrollata di tutto ciò che in patria veniva automaticamente represso e dimenticato, come poteva essere il rischio per gli eroi ancora un po’ ottocenteschi di Conrad una volta trovatisi nell’entroterra del Congo o in mezzo all’oceano sconfinato, i due protagonisti tanto del romanzo quanto del film vivono il deserto come occasione di farsesco disincanto, e scoprono la vacuità delle medaglie che portano al petto. Geniale, in questo senso, è una scena presente sia in Kadare che in Tovoli, quando il generale che dà il titolo alle due opere acquista dall’ufficiale tedesco uno scheletro alto quanto il colonnello Di Brenni da riportare alla donna, dopo che ha gettato le vere spoglie dell’uomo in un fiume. «Anch’io sono alto un metro e ottantadue», riflette ad alta voce Ariosto mentre si fa bello da un barbiere prima di prendere la nave per tornare in Italia, per rimarcare ancora una volta quanto l’archetipo del doppio tragico faccia da base sia al romanzo che al film.
A questo punto una chiave interpretativa risolutiva per comprendere la particolarità del film di Tovoli e, di riflesso, l’unicità del romanzo di Kadare, ce la può dare un passaggio della recensione del Generale dell’armata morta a cura del noto critico francese Jacques Siclier, a lungo collaboratore dei «Cahiers du Cinéma» prima di passare a «Le monde». Dopo aver definito «entreprise peu banale» l’esordio di Tovoli alla regia all’età di 46 anni, scrive: «grazie alla sua esperienza come direttore della fotografia, Luciano Tovoli ha creato il clima che si addiceva perfettamente a questa farsa funebre: è riuscito a trovare uno stile burlesco che sfiora il tragico, scandito dalla musica di Mahler, e pienamente originale». In questa fusione di burlesco e tragico già presente nel romanzo di Kadare ma messa in immagini secondo modalità ben diverse da un atipico esordiente alla regia come era Tovoli, a ben vedere non è difficile individuare un principio di definizione dell’antitragico. Cos’è l’antitragico, andando più a fondo? L’antitragico è un procedimento narrativo attraverso il quale si avverte come stridente il contrasto fra la narrazione tradizionale, classica di un’esperienza, e il modo in cui il protagonista o chi per lui sta vivendo un’analoga vicenda; l’antitragico fa l’ingresso nella letteratura occidentale, almeno per quanto riguarda la prosa, con il Satyricon di Petronio, romanzo ante litteram in cui protagonista è Encolpio, scholarus romano che in un lungo viaggio impara a sue spese che la realtà è molto più farsesca, paradossale e morbosa di quella descritta, sia pure nei suoi aspetti più negativi e dolorosi, dai poeti e dalle tragedie che lui studiava quotidianamente. È evidente che l’antitragico ha un sapore curiosamente metanarrativo, e che un simile procedimento si è più volte riproposto nelle opere letterarie più meditate dei secoli a venire: dall’altro capo della letteratura occidentale rispetto al Satyricon, l’Ulisse di Joyce è il testo antitragico e antiepico per eccellenza, sin dalla sua originalissima concezione, ma non è difficile rintracciare aspetti antitragici in tutti i romanzi in cui i protagonisti o quantomeno il narratore avverte chiaramente il bisogno di raccontare la realtà con un realismo maggiore e di evidenziare, implicitamente o esplicitamente, come le abituali narrazioni, i simboli, gli idoli che sono stati ricamati intorno agli aspetti più deteriori e nascosti del vivere umano e del vivere sociale siano dolorosamente falsi. Tutta la letteratura novecentesca contro la guerra è allora in diverse misure antitragica, e trova forse nel Viaggio al termine della notte di Céline una sua formulazione particolarmente significativa in questo senso. L’antimilitarismo è antitragico, l’antieroe è antitragico, anche l’anticlericalismo, se vogliamo, è antitragico: a tutta apparenza Il generale dell’armata morta è un’altra antitragedia. In realtà, solo andando ancora più a fondo a indagare questa binomia tra tragico e antitragico si coglie l’originalità senza tempo del romanzo di Kadare e l’accortezza con cui Tovoli, Piccoli e Carrière l’hanno trasposta in forma di film.
Una delle principali direttrici attraverso cui si muove il romanzo, nell’ipnotico incedere delle sue pagine, è appunto un ricorrente contrasto, abbastanza esplicito, fra gli alti modelli narrativi e culturali a cui il generale riconduce la sua missione e la realtà bassa e disarmante dei fatti. Insistentemente il generale pensa a sé come ad un “Caronte”, e si riferisce a sé e al sacerdote impegnati nella ricerca ossessiva dei cadaveri fra le montagne brulle dell’Albania come a «pellegrini del Medioevo». Dal canto suo la contessa, in uno dei loro incontri che avevano preceduto la partenza per l’Albania, aveva detto al generale di immaginarlo come «l’eroe di una ballata di quel poeta tedesco di cui mi sfugge il nome… che si alza dalla sua tomba per andare a cavalcare al chiaro di luna». L’Ariosto di Tovoli parte per la sua missione con i più alti auspici, con solenni celebrazioni e con le migliori speranze, ma pur atteggiandosi tronfio del suo ruolo sembra addirittura non aver mai combattuto nessuna guerra. Kadare ne indaga il passato con brevi flashback e accenna a un coinvolgimento poco importante nella seconda guerra mondiale: senza accorgersene, è molto meno eroico e “generalesco” di quanto vorrebbe credere. Una volta avviata quella strana impresa in cui i resti di un’“armata morta” vengono dissotterrati per essere ricondotti in patria dagli stessi albanesi che li hanno uccisi, il generale ripudierà la guerra non perché messo a stretto contatto con la sua ferocia come potevano fare altri personaggi letterari o storici, ma perché ha scarnificato ogni narrazione e simbolo sulla guerra e sul suo ruolo, fino a raschiarne lo scheletro. «Vedo solo crani», la frase ricorrente nei suoi pensieri sia nel romanzo che nelle battute di Mastroianni, non vuole indicare solamente come il personaggio sia sempre più ossessionato e incupito dal suo incarico, ma sancisce anche il suo disincanto verso certa narrazione dell’essere militari e dell’essere soldati. Non è un caso allora che le faide tipiche fra i contadini albanesi e infine la stessa guerra vengano esplicitamente ricondotte, dalle pagine di Kadare, a tragedie teatrali, e che sin dai primi capitoli il sacerdote ogni tanto si trovi a commentare con il generale – raffinato guizzo metanarrativo – che loro stessi sembrano parlare come personaggi di un testo teatrale moderno. A ben vedere, né il romanzo né men che meno il film sono lontani da certe dinamiche del teatro di Beckett e di Brecht ai quali probabilmente lo scrittore voleva riferirsi. Il romanzo non è però solamente antitragico: per il suo continuo richiamo a una dimensione archetipica relativa alla sepoltura dei morti che contrariamente alla retorica militaresca non viene mai “ribaltata” e confutata né dal narratore né dai personaggi, per la sua struttura tutta incentrata su una dualità tragica fra il generale e il prete e ancor di più fra il generale e il colonnello morto suo paradossale rivale, Gjenerali i ushtrise se vdekur ha molto anche della tragedia, e della tragedia più classica.
Di fronte a questo grumo narrativo in cui tragico e antitragico si intrecciano fino a confondersi, Tovoli e i suoi collaboratori alla sceneggiatura si ritrovavano in una situazione insolita. Il film mantiene l’inquietante presenza di tragico e antitragico – personaggi farseschi su trama archetipica – propria del romanzo, ma nel passare da un linguaggio all’altro non può quasi mai trasporre i ricorrenti richiami a riferimenti culturali alti destinati immancabilmente a essere smentiti e a risuonare stridenti con l’effettiva realtà dei fatti narrati – dei voice over che riprendessero a piè pari quei passi del libro sarebbero stati quanto mai anticinematografici. Il Generale dell’armata morta di Luciano Tovoli risolve però in partenza questo problema, affidandosi innanzitutto alla messa in scena e alla rappresentazione per mantenere, trasformandolo, l’equilibrio fra tragico e antitragico: la stessa scelta di avere Mastroianni nel ruolo del generale è quella che adesso si definirebbe un casting against his type, l’utilizzo di un attore in un ruolo decisamente atipico per lui, lontano dalle sue interpretazioni e dai suoi personaggi più noti. La stessa fotografia, firmata da Tovoli assieme a Tinelli, contribuisce a trasmettere un senso di desolazione e un’impressione di decomposizione mentre accompagna i personaggi di Mastroianni e Piccoli nel loro viaggio quasi iniziatico attraverso le montagne dell’Albania. Il finale è inaspettato e graffiante, e innalza l’analoga conclusione del romanzo: la risoluzione del doppio conflitto fra doppi tragici – Ariosto e Benetandi da un lato, Ariosto e Di Brenni dall’altro – è al tempo stesso classica e burlesca, quasi programmaticamente irrisolta. Tutto ciò che hanno vissuto insieme sembra essere stato inutile, la “crisi di identità” in senso lato del generale – il suo interrogarsi circa l’effettivo valore della sua missione e del suo stesso ruolo, fino a ripudiare la retorica della guerra -– si risolve in un sorriso compiaciuto davanti allo specchio del barbiere. È in questo irrisolto equilibrio fra tragico e antitragico che sta la grandezza tanto del romanzo di Ismail Kadare, autentico capolavoro della letteratura europea del secondo novecento, quanto del film di Luciano Tovoli, gemma dimenticata del cinema italiano.

[1] https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1984/10/12/quarant-anni-dopo-la-guerra-un-film.html