Dopo il primo articolo Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche. L’escatologia di Roland Emmerich, prosegue la serie di Ludovico Cantisani sul tema dell’Apocalisse nel cinema contemporaneo. L'analisi prende spunto da La fine del mondo di Ernesto De Martino e dalla differenza da lui posta tra apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche.
L’esserci come esser-nel-mondo rimanda alla vera condizione trascendentale del doverci essere. L’uomo è sempre dentro l’esigenza del trascendere, e nei modi distinti di questo trascendere l’esistenza umana si costituisce e si trova come presenza al mondo, esperisce situazioni e compiti, fonda l’ordine culturale, ne partecipa e lo modifica. Linguaggio, vita politica, vita morale, arte e scienza, filosofia, simbolismo mitico-rituale procedono da questo ethos: l'antropologia non è che la presa di coscienza sistematica di questo ethos, la determinazione dei distinti modi del suo manifestarsi storico.
Ernesto De Martino, La fine del mondo, cap. 2
Un uomo si aggira fra i palazzi deserti dell’EUR. Si guarda intorno, ma non vede nessuno. Tutto sa di cenere amara. Ogni tanto trova, per terra o rintanato in un palazzo, il corpo di un non-morto e lo uccide definitivamente conficcandogli un paletto nel cervello. Sempre più scoraggiato, tenta di tanto in tanto di mettersi in contatto via radio con eventuali altri sopravvissuti, utilizzando una frequenza internazionale. Invano. Quando si fa sera torna in fretta a casa sua, dove si barrica per non essere mangiato anche lui dagli zombie. Il suo nome è Robert Morgan, era un medico, forse un virologo, ed è l’ultimo uomo sulla terra. Il film è stato girato a Roma credo per risparmiare soldi. Il film è The Last Man on Heart di Ubaldo Ragona, tratto, con alcune libertà, da Io sono leggenda di Richard Matheson, probabilmente il romanzo più saccheggiato dal cinema post-apocalittico, ed è uscito nelle sale nel 1964. Ancora adesso è uno dei più bei film post-apocalittici, che dal romanzo di Matheson riprende l’intuizione più formidabile, quella dell’ultimo uomo non infetto sulla faccia della Terra, nemico giurato degli zombie, “leggenda” e spauracchio agli occhi di un terzo gruppo di post-umani, che ha trovato un vaccino per limitare gli effetti della loro infezione e che sarà costretto a giustiziare Morgan perché nelle sue battute di caccia aveva ucciso, oltre agli zombie, anche numerosi membri di questa nuova razza umana.
Non sono pochi i film ambientati dopo un’apocalisse, tutt’altro. Il cinema post-apocalittico, rispetto al cinema dell’Apocalisse, ha la fortuna di costare molto di meno, come ha dimostrato George A. Romero con la sua tetralogia degli zombie iniziata nel 1968 con La notte dei morti viventi. Non c’è bisogno di mostrare grandi esplosioni, palazzi che crollano, alieni che invadono le strade. Il cinema post-apocalittico generalmente è piuttosto minimalista, e trova nella famiglia il suo fulcro drammatico. Un padre e un figlio alla ricerca della salvezza, come ne La strada di Cormac McCarthy e nel film con Viggo Mortensen che ne è stato tratto, o un padre e una figlia, come nel più recente Light of My Life di e con Casey Affleck; oppure, ancora più drammatico il caso del Dottor Morgan, costretto a uccidere la moglie “zombificata”. Non sono però gli zombie a qualificare il cinema post-apocalittico. Basta una catastrofe qualsiasi, e un gruppo di sopravvissuti che si fa strada fra le macerie del vecchio mondo.
Il vero problema delle apocalissi materiali – passato il momento della distruzione – sta nel crollo della civiltà umana, nel collasso di ogni valore. Tutte le nostre operazioni culturali – siano esse una collaborazione pacifica, l’adesione a un determinato codice comportamentale, la creazione di opere dell’ingegno – hanno un valore all’interno della civiltà. Lo pensava Leopardi, che riconduceva il sentimento umanissimo dell’angoscia (anche) a questa considerazione “nichilista”, e lo pensava De Martino, che attribuiva alle apocalissi culturali il compito di fornire agli uomini gli strumenti necessari a superare la crisi presente per trascenderla e far continuare la vita comunitaria – anche a costo di vivere una crisi controllata e ritualmente delimitata come nella taranta pugliese. Ogni film post-apocalittico rappresenta, a ben vedere, un’apocalisse culturale in atto, che dura fintantoché la luce della proiezione incontra lo schermo: uno dei film più al modello di De Martino è Codice Genesi dei fratelli Hughe, distribuito nel 2010.
Siamo nel 2043, trent’anni dopo una guerra nucleare che ha spazzato via la razza umana. Eli (Denzel Washington) è un avventuriero solitario che si fa strada in un mondo dominato da gang e cannibali. Porta con sé un libro che deve assolutamente consegnare in un posto sicuro sulla Costa Ovest dei vecchi Stati Uniti d’America. Il libro, che presto si rivela essere la Bibbia, è bramato anche dal signore del crimine Carnegie (Gary Oldman), che vuole utilizzare il testo sacro come instrumentum regni, per soggiogare definitivamente le popolazioni che abitano i suoi territori. Il finale è piuttosto classico, ed echeggia Fahrenheit 451: Carnegie si impadronisce del libro ma scopre che è una versione per non vedenti; Eli, gravemente ferito, riesce a raggiungere il rifugio dei sopravvissuti “umanisti” di San Francisco e a dettare il testo dell’intera Bibbia, imparato a memoria nel corso degli anni, prima di morire. Se (quasi) tutte le apocalissi cinematografiche riecheggiano in qualche modo l’apocalisse cristiana, Codice Genesi chiude il cerchio: il compito di offrire nuova speranza alla razza umana e di guidarla nella ricostruzione della civiltà è affidato direttamente alla Bibbia. Ed è sempre la Bibbia a dare la forza e la direzione al pellegrinaggio di Eli, questo guerriero veterotestamentario che per raggiungere il suo scopo non si fa problemi ad uccidere almeno una dozzina di uomini, aiutato da una forza divina mai chiaramente rappresentata ma sempre presente. Codice Genesi chiude il cerchio proprio perché torna a quello che, almeno per la civiltà europea e occidentale, è stato il punto di partenza di ogni apocalittica trascendente, di ogni apocalittica che sapesse superare il momento della crisi in nome di un eschaton comunitario e complessivamente positivo. Più che la razza umana, ciò che nelle varie esperienze apocalittiche sembra essere messa a repentaglio è la civiltà umana; e il libro ne è il simbolo principale. La fine delle religioni rischia di mettere a repentaglio l’efficace sviluppo della dinamica apocalittica, rischia di far pervenire a un’“apocalisse senza eschaton” come quella del protagonista della Nausea sartriana? Codice Genesi, che come ogni film americano sotto sotto è un po’ conservatore, riparte direttamente dal libro-Bibbia.
Il riferimento al simbolo dei libri era particolarmente forte nel già citato Fahrenheit 451, non tanto nell’adattamento di Truffaut quanto nel romanzo originale di Ray Bradbury: il protagonista Montag si riunisce a un gruppo di Uomini-Libro nell’entroterra californiano, mentre San Francisco è devastata da un bombardamento nucleare; sarà quello sparuto gruppo di uomini, ciascuno dei quali ha imparato a memoria un volume prima di bruciarlo perché non cadesse nelle mani della polizia dello Stato distopico e dispotico immaginato da Bradbury, a muoversi in soccorso dei cittadini sopravvissuti, consapevoli che sarà loro compito, in un tempo più o meno lontano, di restaurare l’ordine culturale umano. Il flusso dei pensieri di Montag, nelle ultime righe del romanzo, è dominato dalla speranza: «Per ogni cosa c'è una stagione. Sì. Il tempo della demolizione, il tempo della costruzione. Sì. Il tempo del silenzio e il tempo della parola. Sì, tutto questo. Ma che altro? Che altro ancora? Qualcosa, qualcosa...».
Il cinema dell’Apocalisse ha una chiara origine, è un modo per esorcizzare e prevenire il rischio di una crisi più o meno grave a livello collettivo o individuale. Da cosa deriva invece l’esigenza di un cinema del dopo apocalisse? Sarebbe un po’ lontano il riferimento al racconto della peste di Atene secondo Tucidide o alla mitica peste di Tebe la cui causa era la colpa di Edipo, inconsapevolmente parricida e incestuoso nell’Edipo re di Sofocle, ma senz’altro l’origine culturale di tutto il cinema post-apocalittico – innanzitutto di quello che rappresenta il mondo dopo un’infezione zombie, ma non solo – va ritrovata nella “peste nera” che colpì l’Europa nel 1348, e nei numerosi ritorni dell’epidemia nei secoli a venire. Film come The Last Man on Earth, Io sono leggenda del 2007 con Will Smith e la stessa tetralogia degli zombie di Romero riprende alcuni topoi narrativi che dalla storia vera sono entrati a far parte dell’immaginario occidentale da 672 anni: il contagio che avviene a velocità altissime senza che i medici riescano a trovare nessuna cura, l’infezione che si propaga per contatto, i gruppi di infetti confinati fuori delle città, i cadaveri che devono essere bruciati il prima possibile e via dicendo. Narrazioni popolari che partivano dall’esperienza collettiva della peste per pervenire a un qualche cosa di “altro”, immaginifico. Echi della peste nera furono incorporate anche ne L’ultimo uomo di Mary Shelley, tradizionalmente considerato come romanzo di fantascienza. Se nel 1826 Mary Shelley ambientava il suo romanzo attorno al 2092, immaginando come causa del contagio una nuova epidemia di peste, sarebbe stato il Novecento a dare una nuova linfa al genere.
Il cinema post-apocalittico è catartico, certo, rappresenta un’apocalisse culturale che prevede – quasi sempre – un eschaton, lo abbiamo già detto, ma a partire dal Novecento diventa anche avvertimento, warning. È solo nel corso del Novecento che l’idea di un’apocalisse – sostanzialmente causata dall’uomo – che annienti o decimi la razza umana diventa possibilità reale e angosciosa; un’apocalisse causata per esempio da un Olocausto nucleare, che temporalmente si situa al fianco dell’apocalisse individualistica e borghese dei vari Roquentin sartriani e Dino moraviani, oppure, dopo il 2000, un’apocalisse dovuta al surriscaldamento globale. Di questa fantascienza “di avvertimento” è significativo esponente il primo Pianeta delle scimmie, distribuito nel 1968 per la regia di Franklin J. Schaffner e tratto da un romanzo francese a firma di Pierre Boulle da cui il film differisce soprattutto per il grandioso finale. Fino all’ultima scena, Il pianeta delle scimmie non appare come un film post-apocalittico, ma come una storia di viaggio nel tempo ed esplorazione spaziale che vede l’astronauta George Taylor (Charlton Heston) farsi strada in un mondo in cui le scimmie parlano e sono la razza egemone, a cui umani privi di linguaggio fanno da schiavi. È solo nel finale che Taylor, e assieme a lui il pubblico, davanti ai ruderi della Statua della Libertà scopre di trovarsi sulla Terra dell’anno 3768: nei secoli che sono passati fra la partenza e il suo arrivo l’umanità si è autodistrutta con un olocausto nucleare che, per cause che saranno chiarite nei sequel degli anni ‘70 e nei prequel di recente realizzazione, ha causato un’inaspettata evoluzione delle scimmie. Struttura inversa invece troviamo nel recente (2014) Interstellar di Christopher Nolan, i cui primi 40 minuti sono un esempio piuttosto forte di warning ambientale e che poi prosegue come space opera. Anche il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick, datato 1964, trattava con toni satirici il tema dell’illogicità del meccanismo di “mutua distruzione assicurata” che regolava i rapporti fra Unione Sovietica e Stati Uniti d’America all’indomani della crisi missilistica di Cuba. Più ingenuamente antisovietica era stata invece la fantascienza degli anni ’50, con classici quali L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel o La cosa da un altro mondo di Christian Nyby e Howard Hawks, che riflettevano la paura di un’invasione silenziosa, di un’“infiltrazione” da parte di una specie extraterrestre capace di sostituire la razza umana: i bacilli, ovvero i sovietici.
Sul versante del pericolo ecologico, oltre a The Day After Tomorrow, di cui abbiamo già parlato nel precedente articolo, sono significativi anche Waterworld con Kevin Costner, lo sfortunato Geostorm di Dean Devlin e soprattutto Mad Max: Fury Road di George Miller del 2015, seguito più maturo della fortunata trilogia di Mad Max realizzata fra il 1979 e il 1985. Un discorso a sé meriterebbero i Godzilla giapponesi, figli dell’enorme shock culturale provocato dal bombardamento di Hiroshima e Nagasaki e delle crescenti preoccupazioni per i test nucleari del Pacifico, parte integrante della mitologia del mostro sin dal primo film di Ishiro Honda datato 1954. Se a partire dagli anni ’40 il pericolo collettivo era causato dal nucleare, se dagli anni ’90 in poi sarebbe andata crescendo la consapevolezza delle potenzialità distruttive di uno sviluppo industriale senza freni, mettendo per il momento da parte Chernobyl per ragioni di brevità, l’avanzare della cronologia delle opere viene a scontrarsi con uno degli eventi più significativi della storia contemporanea: l’11 settembre.
«È prematuro parlare di un cinema sull’11 settembre. Ci vorrà qualche anno perché Hollywood ci si butti a corpo morto. Si può però già parlare di un cinema dell’11 settembre, cioè di una serie di film che in modo allusivo, sintomatico, emotivo afferiscono all’argomento e ai suoi variegati corollari: l’insicurezza collettiva degli occidentali (degli americani soprattutto, come si evince da La guerra dei mondi versione Steven Spielberg), il senso di colpa (Mystic River di Clint Eastwood), il bisogno di un sincero esame di coscienza (La 25° ora di Spike Lee), l’autocritica e l’attacco frontale a un sistema disonesto e illiberale (Bowling a Columbine e Fahrenheit 9/11 di Michael Moore sul versante documentaristico, La terra dei morti viventi di George A. Romero su quello della finzione)». Esordiva così un articolo di Anton Giulio Mancino pubblicato sul numero di «Cineforum» di agosto-settembre 2005, a quattro anni dall’attentato alle torri gemelle. Il 2005 era stato l’anno di due film profondamente simili e profondamente diversi, il remake de La guerra dei mondi firmato da Steven Spielberg e l’ultimo capitolo della tetralogia degli zombie di George A. Romero, La terra dei morti viventi. Come l’originale Guerra dei mondi di Byron Haskin e George Pal aveva raggiunto le sale americane e occidentali in pieno clima da guerra fredda, nel 1953, mentre si muovevano i primi passi per la corsa allo spazio, il remake di Spielberg è rivolto innanzitutto a un’America che mostra ancora le ferite aperte dell’attacco terroristico alle Twin Towers.
Rivelano affinità con l’attentato di Al Qaeda innanzitutto il carattere improvviso dell’attacco, pianificato da millenni dagli alieni e realizzato contemporaneamente in tutte le principali città del mondo; il ruolo dei mezzi di comunicazione nel riportare – anche a costo di compiere un’operazione di sciacallaggio sul futuro della razza umana – le notizie dell’attacco dei tripodi contro le città americane; il sospetto esplicito, nei primi momenti dell’invasione globale, che ad aver compiuto l’attacco siano stati “i terroristi”; i cartelloni dove vengono appese le fotografie delle persone scomparse durante l’attacco, esattamente come accaduto l’11 settembre nella zona vicina alle due torri; la reazione violenta del figlio adolescente del protagonista Tom Cruise, che abbandona la famiglia per unirsi all’esercito. Pur prevedendo una dinamica degli eventi del tutto diversa rispetto all’originale film del 1953 e al romanzo di H.G. Wells, da cui entrambi i film sono tratti, il film si conclude nello stesso modo: gli alieni non vengono sconfitti dall’uomo bensì dai microbi terrestri, «quegli organismi infinitesimali che Dio, nella sua saggezza, aveva messo sulla Terra», che avvelenano gli alieni condannandoli a morte pochi giorni dopo il loro primo attacco – altro film americano, oltre a Codice Genesi, che, un po’ retoricamente, recupera una visione biblica. Questo riferimento a Dio non è casuale, anche se l’explicit riprendeva battuta per battuta quella del film del 1953. Tutta l’America, anzi, tutto il mondo occidentale, a seguito degli attentati alle Twin Towers, da Paul McCartney a George W. Bush che giurò che Dio stesso gli aveva detto «di mandare un po’ dei nostri ragazzi in Iraq», si rivolse a un Dio improvvisamente riscoperto veterotestamentario come garante della libertà dei cittadini occidentali e come restauratore della giustizia infranta. Il trauma subìto dall’America per l’11 settembre è talmente forte da rivelarsi anche in un dettaglio – l’arma che il personaggio di Tom Cruise tiene nascosta in casa e che subito corre a prendere dopo il primo attacco dei tripodi alieni – che molto difficilmente sarebbe apparso in un film precedente o successivo di Steven Spielberg, autore dichiaratamente democratico e favorevole al controllo della vendita delle armi negli USA; del resto Spielberg ai tempi della realizzazione del film aveva dichiarato: «Per la prima volta nella mia vita sto realizzando un ritratto alieno dove non esiste amore e tentativo di comunicazione».
Un’ulteriore considerazione può mostrare quanto l’11 settembre avesse lasciato sconvolto e incattivito perfino il regista di E.T. ed Incontri ravvicinati del terzo tipo, e accomuna il suo La guerra dei mondi a La terra dei morti viventi di Romero: il pericolo non viene più dall’alto, dallo spazio esterno sotto forma di un meteorite come nel film di Haskin o in Terrore dallo spazio profondo di Philip Kaufman, ma dal basso, dalle fognature e dai sobborghi delle città occidentali, ora sotto forma di misteriosi extraterrestri colonizzatori ora come zombie proletari. Lo shock provocato dalla scoperta delle sacche eversive e terroristiche che abitavano lo stesso Occidente – oltre al disprezzo anti arabo – si analizza anche da queste scelte di scrittura.