Vincenzo Marra (Napoli, 1972) dopo alcuni anni come fotografo sportivo esordisce al cinema nel 2001 con il lungometraggio Tornando a casa, vincitore di 18 premi internazionali tra i quali il Miglior film della Settimana della Critica della Mostra di Venezia. Tornando a casa segna l’inizio di una ventennale carriera organicamente costruita attorno a una riflessione sulla città di Napoli e i suoi abitanti che procede di film in film. Fra le sue opere, sempre oscillanti fra cinema di finzione e documentario, si ricordano anche Vento di Terra, L’udienza è aperta, L’ora di punta con protagonista Fanny Ardant, Il gemello e L’equilibrio, presentato alle Giornate degli Autori di Venezia nel 2017 e candidato ai Nastri d’Argento per il miglior soggetto; ha inoltre partecipato, accanto a registi del calibro di Jean-Luc Godard e Ursula Meier, al film-collettivo I ponti di Sarajevo del 2014. Lo scorso ottobre è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma il suo ultimo lungometraggio, La volta buona, con Massimo Ghini protagonista; l’uscita nelle sale era prevista per il 13 marzo 2020 prima che l’emergenza Coronavirus imponesse la chiusura delle sale.
Quale è stata la sua formazione e quali sono i suoi principali modelli cinematografici-documentaristici? Quanto la sua precedente attività di fotografo sportivo ha influenzato il suo stile di regia?
La mia formazione è avvenuta in tutt’altro campo rispetto al cinema, mi ero quasi laureato in Legge e a un certo punto ho avvertito un bisogno interiore di raccontare delle storie. Sono partito dalla scrittura, passando poi all’immagine aiutato dal fatto che il mio primo mestiere era stato quello di fotografo sportivo. La fotografia mi ha certamente influenzato, soprattutto nel modo di lavorare: il set è un luogo nevrotico e la velocità di pensiero e di realizzazione è fondamentale.
L’udienza è aperta, del 2006, è un documentario che mostra un giorno nella corte d’appello di Napoli, seguendo il “dietro le quinte” di un giudice d’appello, del suo giudice a latere e di un avvocato penalista durante un’udienza per un processo di camorra. Come si sono svolte le riprese e in che modo è stato possibile ottenere il coinvolgimento di questi personaggi reali anche abbastanza noti nella cronaca giudiziaria di Napoli?
La mia carriera si è divisa in due poli, film di finzione da una parte e documentari ambientati a Napoli dall’altra. C’è stato e c’è tuttora un progetto con una linea molto precisa, raccontare la mia città per luoghi e edifici; seguendo questo percorso ad un certo punto sono arrivato al tribunale. Sono riuscito a convincere quelle persone senza particolari segreti, mi presento spiegando la mia idea e il mio metodo di lavoro senza imbrogli e chiedendo la massima disponibilità, in assenza della quale è inutile poter immaginare di realizzare un lavoro di quel tipo. Fino ad oggi hanno sempre accettato, forse riescono a sentire un’onestà di fondo.
Il gemello, del 2012, ci porta invece al seguito del processo, nel carcere di Secondigliano, dove Raffaele, soprannominato “il gemello” perché ha a carico due fratelli gemelli, condannato per rapina, lavora alla raccolta differenziata per mandare i soldi alla famiglia. Personalità carismatica, stimato sia dai detenuti che dalle guardie carcerarie, in una delle scene più forti dice al secondino Niko che avrebbe preferito la pena di morte, che sarebbe stata forse più giusta. Sia da Il gemello che da L’udienza è aperta emerge la convinzione che la reclusione in carcere per un lungo periodo non abbia quella funzione “rieducativa” che Cesare Beccaria attribuiva alla pena. Quali misure pensa siano realmente necessarie ed efficaci per punire e soprattutto prevenire il crimine?
Ho una mia opinione rispetto al tribunale e al carcere, ma sono essenzialmente un regista; indipendentemente dalla domanda che mi hai fatto posso dirti una cosa. In questo periodo in cui tante persone privilegiate si lamentano per la difficoltà di rispettare le norme imposte dal governo per fronteggiare il Covid, penso all’esperienza fatta con le riprese de Il gemello, alle persone giovani che ho conosciuto, con ergastoli davanti, e mi dico che se possono resistere loro ci posso riuscire anch’io.
L’equilibrio parla di un giovane sacerdote che, assegnato a una parrocchia del napoletano, si scontra con la realtà locale intrisa di criminalità e camorra. Per tratteggiare il personaggio di Don Giuseppe si è ispirato alle storie di sacerdoti realmente esistiti? Come è nata e come si è svolta la collaborazione con il protagonista Mimmo Borrelli, acclamato drammaturgo e attore teatrale alla sua prima esperienza cinematografica?
L’equilibrio doveva essere all’origine un documentario, poi, dopo tante ricerche e dopo aver trovato una serie di cose molto molto forti, ho capito che per il mio modo di fare documentari non sarebbe stato il soggetto giusto e quindi è diventato un film “di finzione”, costruito quasi esclusivamente a partire da cose vere trovate sul campo. Ho conosciuto Mimmo e mi è sembrato subito la persona giusta per interpretare il ruolo di Giuseppe, lui ha accettato la sfida ed è stato un bel viaggio insieme che ricordo sempre con grande affetto.
Massimo Ghini sulle pagine di «Repubblica» ha parlato del film La volta buona in toni molto positivi, ma purtroppo ancora non abbiamo potuto vederlo nelle sale: cosa ci può anticipare?
La volta buona è un film diverso per certi aspetti da quelli che ho fatto prima, in alcuni punti ha un tono più leggero ma nell’essenza, nelle cose che volevo dire e raccontare, è decisamente coerente con tutto il lavoro fatto in questi anni. La data di uscita era il 12 marzo, non so quando lo si vedrà, vista la situazione. Spero che questo film potrà avere una sua vita perché ritengo che dica cose importanti.
In alcuni film si è affidato ad attori professionisti, in altri ci sono interpreti alla prima esperienza, in altri ancora riprende persone nella loro realtà senza il filtro della fiction. Come si relaziona con gli “attori” dei suoi film?
Rispetto alla scelta degli attori ho avvertito sin dall’inizio della mia produzione la necessità di rimanere aderente alla realtà, quindi ho sempre fatto un lavoro profondo cercando di trovare le persone, anche non professionisti, che avrebbero potuto offrire al pubblico qualcosa di vero. Essendo stato uno studente di cinema deluso da film in cui non riuscivo a credere, questa è stata sempre una delle mie maggiori “ossessioni” registiche.
Vista nel suo insieme, la sua filmografia sembra costruire una sorta di accorata “enciclopedia” di Napoli e delle sue periferie. Pensa che questa scelta possa aiutare il territorio? La narrazione di Napoli portata avanti da film e serie tv come Gomorra a suo parere fa opera di sensibilizzazione oppure esalta implicitamente le criminalità che ritrae? Come si può, in fondo, raccontare Napoli in un film?
Napoli per me rappresenta una cosa importantissima, fondamentale, è una delle “persone”, se così si può dire, uno degli esseri a cui voglio più bene. A Napoli ho dedicato quasi tutta la mia carriera, ho realizzato tre film di finzione – Tornando a casa, L’equilibrio, Vento di terra – e cinque documentari – Estranei alla massa, L’udienza è aperta, Il grande progetto, Il gemello e L’amministratore. Per me Napoli è sempre stata fondamentale e continua ad esserlo. Negli ultimi anni Napoli ha avuto un’esposizione mediatica incredibile soprattutto per quanto riguarda film e serie tv. Alcuni di questi lavori li sento più vicini altri, decisamente meno, ma è normale che sia così.
Che effetti crede che avrà il Coronavirus sulla sua terra? Indebolirà o aumenterà il potere delle mafie?
Penso che il Coronavirus potrebbe essere innanzitutto una grandissima fonte di insegnamento e di crescita, sembra volerci suggerire che, indipendentemente dalla nostra cecità e dalla nostra idea di poter dominare tutto, la natura è più forte di noi, se vuole può fermarci tutti, fermare il mondo. Questo deve farci riflettere, e dovrebbe insegnarci a pensare a noi, a rivalutare le cose che abbiamo sempre dato per scontate. Il “sistema” dovrebbe interrogarsi sui valori fondamentali. Se sotto certi aspetti il Coronavirus è molto “democratico” ‒ può colpire tanto il primo ministro inglese quanto l’ultimo essere umano della scala sociale ‒ purtroppo ho l’impressione che una volta terminata la pandemia ci sarà una forbice sempre più ampia fra quelli che hanno e quelli che non hanno. Sì, senza una protezione, una solidarietà e una vigilanza importanti si rischia che le mafie possano prendere il sopravvento. Molte famiglie e molte imprese in difficoltà potrebbero rivolgersi a gente che ha a disposizione grandi liquidità e molte possibilità.