Il 14 maggio di diciannove anni fa ci lasciava Armando Nannuzzi (AIC), tra gli autori della cinematografia italiani più noti e talentuosi, vincitore di ben cinque Nastri d’argento. Gli rendiamo omaggio con il figlio d’arte Daniele, anche lui cinematographer e Premio David di Donatello per il film El Alamein - La linea del fuoco di Enzo Monteleone, nonché attuale Presidente dell’AIC (Autori Italiani della Cinematografia). In una conversazione che vuole essere anche una sorta di viaggio nell’età d’oro del cinema italiano.
Come ebbe inizio la straordinaria avventura di tuo padre?
Mio padre il cinema l’ha vissuto fin da ragazzino: dopo aver lasciato la scuola per contribuire al bilancio familiare ‒ suo padre era un semplice macellaio ‒ a quattordici anni (Armando nasce il 21 settembre del 1925, ndr) era già apprendista operatore a Cinecittà. Fu un nostro lontano parente, direttore di produzione, a inserirlo negli Studi. Era il 1939 e Cinecittà era stata fondata appena due anni prima. Immaginate un ragazzino con i pantaloncini corti che viene catapultato all’improvviso sul set, come in una sorta di grande circo, circondato a volte da elefanti, carri, antichi romani. Questo nostro parente lo getta letteralmente nella mischia, affidandolo alla magia di un teatro di posa che sarebbe diventato in seguito leggendario, il Teatro n. 5, al cui interno si stavano effettuando le riprese di La corona di ferro di Alessandro Blasetti, con un cast che comprendeva Gino Cervi, Massimo Girotti, Paolo Stoppa, Luisa Ferida, Rina Morelli. L’autore della cinematografia di quel film era un signore distinto, Václav Vích, che con un megafono dirigeva il set: mio padre rimase letteralmente rapito dalla frenesia tipica del cinema e soprattutto rimase senza fiato davanti alla magia che si materializzava davanti ai suoi occhi quando le costruzioni scenografiche prendevano vita, svelandosi grazie alla luce. Ci raccontava che trascorse così la sua prima giornata, con lo stupore tipico della sua età e quando il nostro parente passò a riprenderlo e gli chiese: «Allora Armandino cosa ti piacerebbe fare?», lui rispose senza la minima esitazione: «Quello che fa quello lì», indicando Vích, appunto. E così venne assegnato al film di Blasetti, in qualità di assistente operatore. Fu l’inizio della sua magnifica avventura. Mio padre è stato un uomo precoce nel lavoro, come nella vita: a diciassette anni era già sposato e prima di compiere i vent’anni aveva già avuto due figli. Un uomo elegante, dotato di un fascino d’altri tempi.
Tuo padre lavorò con i maggiori autori della cinematografia dell’epoca: Václav Vích, Carlo Montuori, Massimo Terzano, Domenico Scala, Arturo Gallea. Cosa puoi dirci riguardo il suo percorso formativo?
Il cinema era agli albori, c’era un grande fermento e un grande e sano desiderio di imparare: mio padre apprese le basi e le prime nozioni proprio frequentando questi grandi Maestri, soprattutto Carlo Montuori e Massimo Terzano. Negli anni ho capito dove lui abbia coltivato e affinato il suo stile, quale sia stata la sua vera formazione: indubbiamente al fianco di Massimo Terzano con il quale aveva lavorato a quel capolavoro che è Malombra, diretto da Mario Soldati, sul cui set tra l’altro conobbe mia madre, che lavorava nel cinema come truccatrice. Terzano è stato uno dei nostri più grandi operatori, il suo lavoro in Malombra è magnifico, con un continuo gioco di chiaroscuri, di contrasti, di controluci e di silouette suggestive. L’influenza che esercitò su mio padre fu fondamentale.
L’esordio Lo svitato (1956) di Carlo Lizzani, pellicola interpretata da Dario Fo, Franca Rame e Giorgia Moll, per Armando Nannuzzi è ufficialmente il primo film in qualità di responsabile della fotografia cinematografica...
In questo film già si intravedevano le sue qualità, soprattutto in relazione ad alcuni interni che lasciavano trapelare il suo talento artistico: si pensi alle riprese ambientate nella palestra dove la silhouette della ragazza interpretata da Giorgia Moll, che volteggia nell’aria seduta su un trapezio, è dipinta in tutta la sua poesia sulla parete.
Dopo il film La donna del giorno (1956) di Francesco Maselli, che palesò Armando all’attenzione degli addetti ai lavori, ebbe inizio la collaborazione con Mauro Bolognini: il loro primo film, Giovani mariti (1958), lo consacra definitivamente al grande pubblico. Conquista infatti il suo primo Nastro d’argento, appena due anni dopo l’esordio. Con Bolognini, quindi, firma capolavori come: La notte brava (1959), Il bell’Antonio (1960), Senilità (1962), Un bellissimo novembre (1969).
La collaborazione con Bolognini ha dato dei frutti magnifici: gli esterni de La notte brava sono indimenticabili, così Il bell’Antonio è un capolavoro che lascia senza parole. Il regista amava girare le notti con quel tipo di luce cosiddetta “a cavallo”, tra il giorno e la notte. Il bell’Antonio è un film di velluto e d’avorio, con una luce torbida: Mastroianni sullo schermo non è mai stato così bello! Mio padre aveva questa grande qualità, di calarsi nella storia alla perfezione e farla sua: anche in questo film, cattura perfettamente le atmosfere del mondo omosessuale con una luce torbida e insieme patinata. Lui sapeva entrare e uscire dalle storie e dai personaggi con una facilità impressionante. Lui e Mauro Bolognini ci lasciarono insieme: alla stessa ora, lo stesso giorno. Incredibile: ricordo che quando telefonai a Manolo Bolognini, per avvertirlo della scomparsa di mio padre, lui, quasi non credeva a quello che stavo dicendogli. Mi riferì che anche Mauro ci aveva lasciato. Se ne andarono insieme, da veri amici quali erano stati. Ancora oggi ripensare a ciò, è da brividi.
Tuo padre si mosse nell’ottica di una illuminazione che potremmo definire di stampo classico, tralasciando volutamente il realismo fotografico o qualsiasi segnale di “rottura” con la tradizione, diversamente da quello che stava facendo in Francia la Nouvelle Vague, stravolgendo i canoni estetici e figurativi dell’epoca. Fece eccezione però il suo contributo al film di Carlo Lizzani Svegliati e uccidi (1966), girato e illuminato con un’impronta decisamente più moderna rispetto ai suoi lavori usuali.
Sì, possiamo affermare che il suo stile fosse classico, ma un classico rivisitato secondo il suo gusto: all’epoca la fotografia cinematografica si basava molto sulla luce diffusa, morbida, piena di grigi e mio padre invece la caratterizzò con forti contrasti: per lui i bianchi e i neri dovevano essere tali, e molto contrastati. Certo, bisognava sempre distinguere da film e film, ma essenzialmente il suo stile si basava su una forte volontà di usare la luce in relazione a questa opposizione di tonalità. Amava usare la pellicola Ilford, che era molto contrastata. Una fotografia classica, ma reinterpretata ogni volta, a secondo della storia narrata.
Importante il sodalizio ‒ il più intenso in termini numerici ‒ che suo padre strinse con il regista Luigi Comencini, insieme al quale girò ben undici pellicole e una serie televisiva. Da ricordare in particolare: La bella di Roma (1955), La finestra sul Luna Park (1957), La bugiarda (1965), Incompreso (1966) e lo sceneggiato RAI Le avventure di Pinocchio (1972). Tra l’altro tuo padre lavorò anche insieme a Francesca, figlia di Luigi, nel film-esordio Pianoforte (1984).
Con Luigi Comencini mio padre aveva stretto un’amicizia che andava al di là del semplice lavoro: un rapporto umano splendido che si manifestò in tutta la sua purezza in seguito a un tragico evento che toccò la nostra famiglia durante le riprese del film La bugiarda, da lui diretto. I miei due fratelli, più grandi di me, lavoravano con papà sul set e persero la vita in seguito a un incidente stradale: fu una tragedia immane per tutti noi. Luigi fu molto vicino alla mia famiglia e soprattutto a mio padre, a tal punto da sospendere le riprese, con l’intenzione di riprenderle con lui, solo quando fosse stato in grado di lavorare, e così avvenne: aveva capito che se avesse finito il film con un altro collega, sarebbe stato un altro elemento di depressione. Il fatto di ricominciare a lavorare a quello stesso set, lo spronò a tornare, a trovare la forza per ricominciare. Fummo molto grati a Luigi, splendida persona davvero.
Il film Incompreso (secondo Nastro d’argento), tratto dal romanzo omonimo di Florence Montgomery, segna tra l’altro il tuo debutto, in qualità di assistente operatore: ti sei trovato a lavorare, oltre che con tuo padre, con l’operatore e futuro autore della fotografia Claudio Cirillo (C’eravamo tanto amati, Profumo di donna), che con Armando aveva stretto una proficua collaborazione artistica.
Il primo film importante a colori di mio padre fu senza dubbio Incompreso, con cui tra l’altro vinse il suo secondo Nastro d’argento, come hai ricordato. Io ero un ragazzo, al mio primo film: avevo la mansione di aiuto, assistente, e la mia convinzione fino ad allora era quella che la luce servisse semplicemente per impressionare la pellicola. Non pensavo affatto che la luce potesse servire per interpretare la storia, per dare un particolare taglio figurativo alle immagini: fu proprio su questo set che capii come stavano le cose, che ebbi la consapevolezza di quanto fosse importante lavorare con la luce. Una sequenza in particolare colpì la mia attenzione: quella in cui il padre parla con il figlio, nella stanza di lui, di notte. La luce, entrando dalla porta aperta per metà dietro di loro, sembrava scolpire le loro figure: il bambino immerso nel nero ma con la silhouette in controluce che ne identificava il profilo, e la silhouette del padre completamente in ombra , stagliato sul bianco della porta aperta. Un capolavoro: quando ho potuto, ho sempre cercato di ricreare quella particolare atmosfera fotografica anche nei miei film. Fu lì che capii veramente cosa fosse l’illuminazione cinematografica, fui letteralmente folgorato da quella “rivelazione”. Oggi c’è una sorta di globalizzazione dell’immagine, un appiattimento che rende quasi tutto uguale, non c’è più una vera distinzione tra film e film: si fa per lo più una luce che va bene per tutti e per tutto. Negli anni passati c’era invece l’esigenza di mettere luce all’inquadratura, affinché la pellicola venisse impressionata, ma non solo: illuminare un set comportava anche l’interpretazione da parte dell’autore della cinematografia, che doveva tramutare in luce le pagine della sceneggiatura.
Fondamentale anche il connubio con Antonio Pietrangeli, di cui tuo padre gira quasi tutti i film. Da segnalare in particolare: Adua e le compagne (1960), La parmigiana (1963), La visita (1963), Io la conoscevo bene (1965).
Fece quasi tutti i film di Pietrangeli, erano come fratelli: insieme hanno girato opere bellissime. Mio padre era un vero artigiano, inventava sul set, amava creare l’effetto in macchina, e questa è una caratteristica che ha trasmesso anche a me. A proposito della sua capacità di “creare” dal nulla, mi piace ricordare questo episodio, avvenuto sul set di Adua e le sue compagne: per una scena in notturna, in esterno, era prevista la presenza di lucciole. Come fece? Utilizzò delle antenne da automobile, all’estremità delle quali fece apporre delle luci intermittenti: una volta posizionate queste antenne su delle basi, i macchinisti provvedevano a farle ondulare. Ebbene l’effetto era stupefacente, sembrava di essere davvero circondati da lucciole: geniale. Tra le sequenze più riuscite, poi, devo citarne una da Io la conoscevo bene: la sequenza ambientata ad Orvieto, in notturna, è emblematica. Quando Stefania Sandrelli, che indossa un cappottino bianco e dei guanti neri, costeggia il celebre Duomo, mio padre crea, sul momento, una lezione di cinema, decidendo di proiettare l’ombra della Sandrelli sulle fiancate bianche e nere della Cattedrale, dandole così una propria vita: aveva fatto di quell’ombra un personaggio. Un’intuizione geniale, nata dal suo istinto.
Al fianco di Luchino Visconti, Armando illumina i seguenti film: Vaghe stelle dell'Orsa (1965), trionfo del chiaroscuro e terzo Nastro d’argento, La caduta degli Dei (1969), dove una luce espressionista immerge lo schermo in un’atmosfera teatrale e Ludwig (1973), che gli valse il quarto Nastro d’argento, magnifico affresco, in cui la composizione delle inquadrature è tra gli esempi più riusciti di pittura cinematografica.
La collaborazione con Visconti tocca vette incredibili. I film che fecero insieme sono tra i suoi lavori più riusciti, in cui ha espresso pienamente tutto il suo talento. Vaghe stelle dell’orsa è un film magnifico, Luchino voleva un film in bianco e nero nel vero senso della parola e così tutto venne pensato in funzione di questo: la scenografia venne liberata da tutti i colori, oggetti d’arredamento esclusivamente in tonalità bianche e nere, così come le automobili, niente grigi o vie di mezzo. Un film girato e pensato per il bianco e nero. Visconti aveva ripreso questa impronta cromatica da un’esperienza precedente, avendola già sperimentata con successo in Teatro con la rappresentazione della Traviata nel 1955. La caduta degli Dei è un'altra grandissima prova, un film che ricorda le atmosfere dell’Espressionismo tedesco, che forse lui neanche conosceva: quando gli chiesero se si fosse ispirato al pittore Otto Dix mi guardò spaesato e mi chiese chi fosse. Mio padre era così, non amava documentarsi più di tanto, era un tipo istintivo ma una volta sul set la sua creatività si sprigionava. Ludwig fu un vero kolossal per costumi, scenografie, messa in scena e anche a livello fotografico fu una grande impresa, una vera sfida: sequenze indimenticabili come quella in cui Romy Schneider fa il suo ingresso nella Galleria degli specchi nel castello di Herrenchiemsee, con l’inquadratura che si allarga, da mozzare il fiato. Ma tutti gli interni sono dei quadri magnifici. Un film complicato anche per la difficoltà nel gestire le macchine da presa: Luchino amava usare tre macchine da presa contemporaneamente per ottenere una ripresa larga, media e stretta, per cui si può immaginare le difficoltà nell’illuminare tre diversi campi visivi nello stesso momento e nel dover necessariamente sistemare tre macchine in un ambiente reale, senza le comodità e le opportunità logistiche che poteva offrire il teatro di posa: mio padre si ritrovò a dover fare i conti con diverse problematiche, soprattutto di carattere pratico, come quando fece costruire una piccola gru simile al boom, che serviva per l’audio, per sistemare le sue attrezzature evitando di appenderle ai preziosi soffitti del castello. Incontrò una notevole difficoltà nella sequenza in cui Helmut Berger (Ludwig) conversa con i fantasmi di Luigi XIV e Luigi XV e si fa imbandire la tavola dove vengono servite portate anche ai sovrani presenti solo nella sua fantasia: sequenza ambientata in una sala ottagonale coperta completamente di specchi. Ovviamente si doveva evitare di mostrare luci, macchine da prese e quant’altro riflessi in questi specchi. Cosa invento mio padre? Si fece portare da Roma dello “specchio piuma”, da cui ricavammo delle toppe che attaccammo sulla superficie degli specchi, per deviare l’immagine e impedire così che le componenti tecniche potesse riflettersi: un lavoro immane, quello di occultare apparecchi illuminanti, macchine da presa e membri della troupe. Un’altra difficoltà riguardava la quantità di luce che serviva per la ripresa, dal momento che la pellicola era appena 100 ASA, con obiettivi Panavision, due zoom con apertura minima 5/6 e un 600mm per i primi piani, tutto questo in interno notte: si può immaginare quanta luce dovesse servire, una quantità enorme. Ludwig fu letteralmente dipinto da mio padre.
La battaglia di Waterloo (Waterloo,1970), prodotto da Dino De Laurentiis e diretto da Sergej Fëdorovič Bondarčuk (con Rod Steiger nel ruolo di Napoleone Bonaparte) ne sancisce la fama anche oltre confine, come confermato da una più che meritata Nomination al Bafta Award (l’equivalente inglese del Premio Oscar) per la miglior Cinematografia. Cosa ricordi di questo film, a cui hai preso parte anche tu?
Un kolossal impressionante, con ventimila comparse, settemila cavalli, impensabile poterlo girare oggi: noi della troupe ci avevano letteralmente abbandonati in questa landa sconfinata, in Russia, in un albergo dove vivevamo come profughi: papà aveva la stanza più grande, con il frigo, e tutte le sere ci invitava a cenare sul suo terrazzino, e questo stare insieme ci aiutò a recuperare tutta la fatica del set. Lavoravamo quindici ore al giorno, un’esperienza durissima, la sera rientravamo in albergo neri di fuliggine. In questo film fece un lavoro straordinario, un film inarrivabile come messa in scena. Miracoli di luce, vastità di campo con queste luci notturne.
Con Franco Zeffirelli, con il quale anche lei ha più volte collaborato, suo padre firma la cinematografia di Gesù di Nazareth (1977), quinto e ultimo Nastro d’argento, e delle opere liriche Cavalleria rusticana (1982), Pagliacci (1982).
Avevo già avuto modo di collaborare con Franco Zeffirelli, quando lavorai come assistente operatore per Ennio Guarnieri per il film su Francesco D’Assisi Fratello sole, Sorella luna. Quando si trattò di portare sullo schermo la storia di Gesù di Nazareth, Zeffirelli scelse mio padre, perché gli serviva la sua impronta classica, d’altronde la storia richiedeva un’interpretazione fotografica di questo tipo. Lavorai anch’io a Gesù di Nazareth, dove diressi anche la seconda unità: sia Franco che mio padre riponevano grande fiducia nelle mie qualità. La riuscita del Gesù di Zeffirelli è evidente ancora oggi, dopo più di quarant’anni: è diventato un cult nel suo genere, sicuramente tra le serie televisive più note al mondo. La collaborazione tra Franco e mio padre proseguì quindi con le due opere liriche Cavalleria rusticana e Pagliacci che ricordavi.
Tuo padre si è cimentato anche nella regia, in due occasioni: L’albero dalle foglie rosa (1974), con Renato Cestiè, Marisa Merlini, Rina Morelli, e Natale in casa d'appuntamento (1976) con Ernest Borgnine, Françoise Fabian e Corinne Cléry. Cosa ricordi di queste due esperienze?
Aveva “rubato il mestiere” come si dice in queste casi, lavorando con grandissimi registi: aveva tutte le carte in regola per dirigere lui stesso un suo film. L’esperienza con Visconti, poi, lo aveva portato a scegliere di girare questi due film, con tre macchine da presa: girare con tre macchine, con i tre ciak in sincrono, era l’ideale per montare il film. Devo dire, però, che secondo me commise un errore nel farli, nel senso che tutti nutrivano aspettative altissime nei riguardi del Nannuzzi regista, perché all’epoca era all’apice della carriera, era tra i primi tre autori della cinematografia italiani. Quindi era rischioso esporsi nella regia: avrebbe dovuto realizzare due capolavori, per confermarsi all’altezza della sua fama di operatore. Alla fine vennero fuori dei film ben realizzati, con budget minimi. Avrebbe dovuto pretendere di più e gettarsi nella regia con più certezze credo.
Per un breve periodo, a metà degli anni ’80, lavorò negli Stati Uniti, collaborando tra l’altro con lo scrittore Stephen King alla sua unica esperienza come regista, con Brivido (Maximum Overdrive, 1986). Durante la lavorazione di questo film tuo padre fu vittima di un incidente: un tosaerba radiocomandato andò fuori controllo e colpì un pezzo di legno, usato come supporto per la macchina da presa, che finì per ferirlo, e perse un occhio. L’incidente diede origine a una causa civile. Tu eri presente sul set: cosa ricordi di quel momento?
Il tempo di operarsi e dopo una breve convalescenza, di appena due settimane, tornò sul set con gli occhiali neri, con l’occhio bendato, e riprese a lavorare al film: era una vera e propria macchina da guerra. In ospedale gli fu ricostruita l’iride, però la retina rimase danneggiata irreversibilmente. Durante la sua assenza fui io a sostituirlo. La dinamica dell’incidente andò così: in sceneggiatura era previsto che un tosaerba improvvisamente prendesse vita e, accendendosi, si scagliasse contro con un bambino nel frattempo caduto a terra, per ucciderlo: una trama in puro stile King. Io ero il punto di vista del bambino, nel senso che, in qualità di operatore, ero posizionato a terra con la macchina da presa, sul vialetto di un giardino. Dal momento che questo vialetto era leggermente sconnesso, pensai di livellare la macchina con un cuneo di legno, che sporgeva in avanti, naturalmente posizionato fuori campo. Gli addetti agli effetti speciali usarono questo tosaerba con lame reali, non pensarono di sostituirle, ad esempio, con un filo di nylon. Peraltro in scena c’era anche un bambino, e non valutarono il rischio che avrebbe potuto correre. Questo tosaerba funzionava ad aria compressa, con un radiocomando. Dopo diverse prove l’addetto agli effetti aumentò oltre il limite il volume d’aria e così il tosaerba partì come un razzo verso di me. Io fortunatamente riuscì ad evitare la collisione, ma ci fu un impatto con la macchina e questo listello andò a colpire mio padre, che, sebbene fosse distante dietro di me, si era catapultato per venire in mio soccorso. Così venne ferito a un occhio da una scheggia, violentemente. Ci fu uno strascico giudiziario che andò avanti per sette anni: allora, negli Stati Uniti, a differenza del nostro Paese, la prassi era che il produttore si assicurasse contro le eventuali cause che potessero arrivare dalla troupe, che di conseguenza non era direttamente assicurata. Alla fine mio padre venne risarcito, ma quell’incidente compromise la sua carriera negli anni a venire.
Come influì questo episodio sugli esiti successivi della carriera di tuo padre: possiamo affermare che rappresentò una sorta di spartiacque?
Indubbiamente l’incidente fu determinante. Superò molto bene il trauma dell’incidente, però, tristemente, non lo superarono gli altri, nel senso che gli addetti ai lavori, produttori e registi, forse pensarono che non sarebbe stato più quello di prima, e così il suo lavoro cominciò a scemare. Subito dopo il film di King ci furono sì due film con Giuliano Montaldo, Gli occhiali d’oro e Il giorno prima, ma la sua carriera si era interrotta a poco più di sessant’anni purtroppo. Liliana Cavani, con la quale aveva girato in precedenza Milarepa, Al di là del bene e del male e La pelle, lo richiamò per Dove siete? Io sono qui, in cui si raccontava la storia di due ragazzi sordi, un film non fortunato. Un giorno mio padre mi invitò a una proiezione, io ero impegnato con la mia carriera, che si era già avviata con successo: rimasi sorpreso, perché ero davanti a un film che sembrava illuminato da un ragazzo, un film fresco, giovane, delicato, senza orpelli, era riuscito a entrare nella storia anche in quella occasione. A un certo punto, nella sequenza del kabuki, sullo schermo appare questo samurai con una rosa in mano, che si muove in maniera rallentata: illuminato con una sola luce, una riga di luce che tagliava il nero, attraversata dallo stesso attore. Eccolo lì pensai: Armando aveva lasciato la sua firma un’altra volta.
Gli ultimi film, la collaborazione con Alberto Sordi: Assolto per aver commesso il fatto (1992), Nestore, l’ultima corsa (1994) e Incontri proibiti (1998), l’ultimo film per entrambi.
Sembravano due vecchi compagni sul set, però avevo il cuore piccolo a vederlo così, non lo riconoscevo più. Insieme lavorarono anche a Nestore, l’ultima corsa, film in cui il titolo, per un amaro scherzo del destino, prefigurava appieno il loro viale del tramonto.
Hai avuto l’opportunità e la fortuna di lavorare accanto a tuo padre: quali dinamiche vennero alla luce tra voi due in un luogo così particolare e unico quale è il set cinematografico?
Mio padre era molto affettuoso con tutta la troupe, gli piaceva stare con noi del set, era un po’ come un patriarca in un certo senso, era molto generoso e assai amato anche dai suoi colleghi. Però quando si arrabbiava era molto duro, ricordo delle sfuriate epiche, e io che ero il figlio le subivo più degli altri. Dovevo sempre essere attento a tutto, e se qualcuno sbagliava qualcosa, mi diceva:«Ma non potevi farlo tu!». Non gli si poteva nascondere nulla poi. Ma ciò che più non sopportava era la malafede, quella proprio non gli andava giù.
Tra i tanti capolavori firmati da Armando Nannuzzi, in quali secondo te, il suo talento spicca maggiormente?
Il suo talento si è espresso appieno nel bianco e nero, senza dubbio, più che nel colore. Amava i contrasti e la contrapposizione di luci e ha in un certo senso rivoluzionato il bianco e nero che in quegli anni non era così contrastato. Secondo il mio gusto personale non posso non citare Vaghe stelle dell’orsa e Il bell’Antonio per il bianco e nero e La caduta degli Dei e Ludwig per il colore.
Concludendo: quale insegnamento le ha lasciato?
Per forza di cose il nostro rapporto risentì molto del suo lavoro, dal momento che passava lunghi periodi lontano da casa, e così posso dire di averlo veramente conosciuto solo quando ebbi la possibilità di lavorare al suo fianco. La sua è stata una scuola straordinaria, non ci sono corsi o lezioni che tengano: la scuola vera è il set, e quando hai la fortuna di avere un maestro come Armando Nannuzzi hai colto nel segno. Grazie a lui ho avuto la possibilità di lavorare con i più grandi registi dell’epoca e maturare un’esperienza unica e privilegiata. E poi mi ha insegnato cosa significasse nutrire rispetto per il proprio lavoro e crederci fino in fondo, sia se si trattasse di un grande film, che di uno minore: la stessa serietà in ogni film. È quello che ho sempre fatto anch’io in tutta la mia carriera: questa è la stata la sua più grande lezione. Ho un grande rammarico però: lui voleva che io studiassi, non voleva che lavorassi nel cinema, e in un certo senso questa cosa me la sono portata dentro tutta la vita. Devo dire che poi, una volta che prese coscienza che quella sarebbe stata effettivamente la mia strada, mi fu sempre vicino. Peccato che in occasione della vittoria del David di Donatello lui non potesse essere lì con me, non c’era più: l’avrei voluto abbracciare e avrei voluto tanto che lui finalmente si sentisse pienamente orgoglioso di me.