Kristof Hoornaert, classe 1980, è un regista belga. Dopo aver studiato Arti Audiovisive a Ghent e a Bruxelles, ha girato il cortometraggio Kaïn (Caino), presentato nel 2009 al Festival di Berlino. Ha poi realizzato il cortometraggio a budget zero The Fall (La caduta), selezionato in più di 40 festival cinematografici in giro per il mondo; Empire (Impero), il suo terzo cortometraggio, è stato presentato al Montreal World Film Festival del 2015 e successivamente selezionato al BFI London Film Festival. Nel 2017 è uscito il suo primo lungometraggio, Resurrection, presentato al Tallinn Film Festival e successivamente selezionato anche al Festival di Rotterdam; fra i premi che il film ha ricevuto il Capri Breakout Director Award, il Prix de la Critique al Festival International de Cinéma d’Auteur di Rabat del 2018 e il SIGNIS Award Special Mention Award al Religion Today Film Festival del 2018.
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Il tuo primo cortometraggio Kaïn conteneva già la premessa di Resurrection: due giovani uomini in lotta dentro una foresta, senza dialoghi o qualunque altra spiegazione di quello che sta accadendo; dopo che uno di loro cade a terra morto, l'altro cammina nella foresta, facendo gesti di espiazione. Puoi dirci di più su questa tua prima esperienza cinematografica e sulla sua accoglienza nei festival?
Ho scritto la sceneggiatura di Resurrection nel 2003, quando avevo 23 anni. Ho sempre sognato di fare lungometraggi, i corti non mi interessavano ma un giovane regista deve ovviamente iniziare con film brevi per guadagnare credibilità per i fondi per il cinema. Il mio produttore di allora mi propose di fare una sorta di test per il lungometraggio girando le prime tre pagine della sceneggiatura di Resurrection. Nei suoi piani saremmo dovuti andare a cercare fondi dicendo «questi sono i primi momenti di Resurrection, se volete vedere il resto del film finanziateci». Ho girato questo teaser nel giro di tre giorni, era un lavoro molto semplice e sapevo cosa fare. Avevo fatto la lista delle inquadrature, avevo selezionato le locations, avevo scelto gli attori, il cameraman, il fonico… Nel 2009 questo cortometraggio è stato selezionato per la Berlinale Shorts Competition. Si intitolava Kaïn, ma io ancora lo vedevo come un test per Resurrection. Kaïn andò molto bene ai festival, principalmente perché era stato presentato alla Berlinale e molti festival sono felici di selezionare cortometraggi già proiettati nei festival importanti. Subentrò però il problema che molti finanziatori iniziarono a pensare che Resurrection era stato scritto dopo il successo di Kaïn, che io volessi fare semplicemente una versione più lunga di quel corto. Non era affatto così: Kaïn era un test per il lungometraggio Resurrection. Questo è il motivo per cui ho impiegato anni ad avere i fondi per realizzare Resurrection. Solo nel 2016 sono riuscito ad avere i finanziamenti, sette anni dopo Kaïn.
Anche The Fall ed Empire affrontano il tema di un male improvviso e inspiegabile che entra nelle vite dei personaggi. Il minimalismo registico di questi cortometraggi si sposa perfettamente con la storia che tu vai a raccontare e ancor di più con i temi che tocchi. La tua intera filmografia sembra essere collegata da una comune riflessione sul male del mondo, le cui conclusioni, soprattutto in Resurrection, è tutt'altro che scontata. Cosa ti spinge verso questi temi etici?
Sì, il male nel mondo è qualcosa che attira la mia attenzione. Direi proprio che la crudeltà della specie umana sia l’argomento che mi attira di più. Ho letto di tutto al riguardo: Erich Fromm, Jacques Ellul, Dostoevskij, Elie Wiesel, e molti altri autori. Ma ho visto anche film di registi che affrontavano queste tematiche: Robert Bresson, Ingmar Bergman, Andrei Tarkovskij… Sono tutte tematiche che mi toccano nel profondo: come il male influenza le persone e la civiltà umana? perché le persone compiono atti crudeli? Mi sembra di essere molto sensibile a questi temi. La crudeltà e il male sono parte della nostra esistenza, di chi siamo come esseri umani. Il male è dentro di noi: i nostri istinti, il modo in cui pensiamo, il modo in cui la nostra intera civiltà è stata costruita. Kaïn parlava dell’origine del male: un uomo che uccide il suo compagno senza spiegazioni. Riguardava meramente l’atto della violenza, la natura, la colpa, la sofferenza e il risveglio. The Fall parlava di quanto sottile è lo strato di apparenza che avvolge la nostra civiltà, Empire invece riflette sullo stile di vita moderno. In Resurrection, un uomo anziano che si è allontanato dalla civiltà accoglie un assassino nella sua casa. Cosa farà con lui? Come ci relazioniamo noi con il problema del male? C’è così tanta crudeltà al mondo e come esseri umani noi respingiamo la domanda, ma al tempo stesso il male è una parte di noi. Rispondere alla domanda di cosa fare con questo male è molto difficile. La prima cosa che possiamo fare è provare a capire come funziona, come mai è una parte di quello che siamo. Tutto ciò che io posso fare da regista è porre domande mostrando cose. Il mio compito è di invitare il pubblico a riflettere su queste domande.
Parliamo di Resurrection. Il giovane assassino che, come già in Kaïn, ha ucciso suo fratello in una foresta viene raccolto da un uomo anziano che vive come un eremita nella foresta da più di vent’anni, Quest'incontro cambierà entrambi gli uomini, il ragazzo e il vecchio. Dove hai trovato ispirazione per questa doppia storia di caduta e redenzione? Quanto tempo alla fine è servito per trovare i finanziamenti per il film?
È tutto iniziato con l’idea di un personaggio buono e sensibile. Qualcuno che ha un forte legame con la natura, la vita, gli animali, gli alberi… Un uomo semplice, qualcuno che ha difficoltà ad affrontare la crudeltà che c’è nel mondo. Sin da subito l’ho pensato come una sorta di figura cristologica, un uomo pieno di compassione e sensibilità per la crudeltà che lo circonda. Un uomo così come potrebbe trovare redenzione? Confrontandosi con la cosa peggiore che gli potrebbe capitare: accoglie, senza saperlo inizialmente, un omicida in casa. Deve trovare un modo per affrontare questa situazione del tutto inattesa e sconcertante. Stavolta non può scappare dal male, come aveva fatto tempo prima. Adesso deve rispondere. Queste due persone si influenzano e si cambiano l’un l’altro semplicemente stando lì l’uno per l’altro. Quando l’amore umano viene in contatto con il male e la crudeltà… Mettere il male in carcere è semplicemente troppo facile. È una soluzione semplice che in realtà non risolve niente. Solo una persona che è presente per un’altra può cambiare le cose, attraverso l’amore. Nessuno nasce malvagio. Questo è il motivo per cui ho voluto avere anche delle scene con la polizia e nella prigione… Noi tutti siamo abituati a vedere le cose così: i poliziotti sono i buoni che risolvono i casi, il criminale è il problema. Mettiamo il criminale in prigione e abbiamo un lieto fine. Siamo tutti felici. Ma la vita non è così semplice. Il sistema di polizia non può risolvere tutto. Di sicuro non può risolvere il problema del male. Sviluppando tutti questi interrogativi la storia ha continuato a evolversi. Si dicono ben poche parole in Resurrection, ma affronto molte domande semplicemente mostrando le cose.
Quando nel 2016 ho ottenuto i finanziamenti, ho girato il film nel giro di una ventina di giorni; per me era molto importante comunicare queste tematiche attraverso immagini composte con grande attenzione. Resurrection rappresenta un modo di particolare di guardare il mondo. Una riflessione su cui il pubblico deve investire tempo, se ha voglia di farlo. Per me era l’unico modo di realizzare questo film. È un film molto interattivo, a ben vedere, nel senso che il pubblico deve rifletterci e pensarci per conto suo. Le immagini esprimono i temi e pongono le domande, la trama è semplicemente la spina dorsale. Se gli spettatori guardano solo alla trama si perdono.
L'eremita di Resurrection è interpretato da Johan Leysen, uno dei più apprezzati attori belgi, noto per i suoi ruoli in film come Je vous salue, Marie di Godard e Giovane e bella di Ozon, e per le sue frequenti collaborazioni con il regista teatrale Milo Rau. In quale momento del processo creativo Leysen è stato coinvolto nel progetto? Quali direzioni registiche gli hai dato per costruire il personaggio dell'eremita con il suo doloroso passato? Come hai impostato invece la collaborazione con Gilles De Schryver, che nel film interpreta il giovane omicida?
Johan Leysen è un attore fantastico. Interpreta anche un piccolo ruolo in Una vita nascosta di Terrence Malick. Volevo avere un attore in grado di esprimere tutto senza fargli aprire bocca. Devi vedere quello che sta pensando semplicemente guardandolo in faccia. Johan è un maestro in questo. Era l’unico attore che avrebbe potuto interpretare questo ruolo. Gli ho scritto un’email, gli ho mandato la sceneggiatura e abbiamo preso appuntamento per un caffè. Dal momento che Resurrection era il mio primo lungometraggio non ero sicuro che lui avrebbe accettato, ma abbiamo semplicemente parlato della sceneggiatura, dei personaggi, dei temi e di come io avevo intenzione di realizzarlo, e ha accettato la parte al termine del nostro incontro. Johan è una persona molto gentile, molto sensibile. Siamo diventati ottimi amici.
Le mie indicazioni di regia consistevano essenzialmente nel parlare dei significati delle varie scene, di ciò che accadeva in ognuna di essa, e lui proiettava tutto questo nella sua recitazione e nel linguaggio del suo corpo. Faceva sempre la cosa esatta, sempre. Io non avevo scritto molte battute nella sceneggiatura e Johan ha addirittura tagliato il 50% dei dialoghi previsti. E’ stata una lezione molto importante per me: a volte una sola parola è abbastanza, a volte nemmeno una parola, basta uno sguardo, un’occhiata, un tremolio della mano. In un momento successivo ho scoperto che anche Malick lavora in questo modo: fa prima recitare agli attori la scena con i dialoghi, poi chiede loro di ripetere la scena senza dialoghi. È una cosa molto affascinante. Si possono esprimere così tante cose attraverso il corpo e il volto… Non si deve dire tutto. Ovviamente questo è il modo più difficile di recitare. Come attore non devi aver bisogno di quella rete di sicurezza che è il dialogo. Ogni momento deve essere reale e vero. Joan diceva sempre questo a proposito del suo modo di lavorare: come attore devi pensare a quello che il personaggio attraversa e il pubblico capirà quello che sto pensando.
Anche con Gilles è stato lo stesso. Anche con lui ho parlato molto di ogni momento del film, di ogni scena. Quello che doveva provare, quello che pensa. Per Gilles è stato molto difficile interpretare una parte priva di dialogo. A volte era fuori scala, recitava in un modo troppo accentuato, o troppo poco intenso; allora io dicevo: un po’ di più, un po’ di meno. Però le intenzioni di ogni scena erano sempre chiare. Alla fine riusciva sempre a tirare fuori quello che cercavo. Per interpretare un ruolo di questo tipo devi avere una concentrazione perfetta. Gli attori erano sempre esausti alla fine di ogni scena perché dovevano investire tantissima fatica ed emozioni. Entrambi hanno detto che è stata la loro parte più difficile, perché non c’era un dialogo dietro cui potevano nascondersi, e ogni momento doveva essere autentico.
L’inquadratura del film che più mi ha affascinato sta alla fine del primo atto. Il ragazzo accende uno stereo che diffonde l’aria di un’opera; la macchina da presa si muove verso la finestra mostrando dei vasi di fiori, e, seduto fuori in mezzo alla natura, l’eremita. Questa Bellissima inquadratura mi sembrava mescolare l’immaginario di Tarkovskij assieme al finale di Professione: Reporter di Antonioni. Chi era il direttore della fotografia del film? Quale macchina da presa avete usato e come hai impostato il lavoro con lui per questa inquadratura e più in generale?
Il direttore della fotografia è il lituano Rimvydas Leipus. Avevo ammirato il suo lavoro in alcuni dei film di Šarūnas Bartas e anche in khadak di Brosens & Woodworth. Non avrei mai pensato che avrebbe detto di sì a un regista debuttante come me. Volevo ottenere una bellezza naturale nelle immagini. Pura e precisa. Il linguaggio cinematografico in sé e per sé è il fulcro di Resurrection. Si tratta di un film visivo, un’esperienza contemplativa. Le immagini dovevano essere quelle giuste perché là stava il significato del film. Prima di girare ho fatto un elenco di tutte le inquadrature. Ho disegnato l’intero film con delle planimetrie basate sulle vere location e così ho ottenuto una lista delle inquadrature molto precisa, che non era più la mia sceneggiatura, era qualcosa di più preciso. Ogni inquadratura, la grandezza delle immagini, ogni movimento, quale inquadratura veniva prima e quale veniva dopo, tutto è stato preparato per tempo. Dopo questa preparazione, Rimvydas si è unito al progetto e abbiamo visitato la location principale, quella della casa, e gli ho spiegato quello che volevo fare ripercorrendo la lista delle inquadrature. Da quel momento in poi ci siamo entrambi impegnati a fare assieme il miglior film possibile. Ogni inquadratura doveva essere quella giusta. Lui spesso mi proponeva delle soluzioni per migliorare le inquadrature. Ma c’era un’unica regola: ciò che quelle immagini dovevano esprimere era il fulcro di tutto, ed era più importante di fare immagini che fossero semplicemente “belle”. Abbiamo girato con un’Arri Alexa mini, perché la casa era molto piccola e non volevo usare una macchina da presa troppo grande. Le lenti erano Cooke Speed Panchro SII & III lenses. Ma per essere onesti è stata la magia di Rimvydas a dare alle immagini tanta bellezza. Lui è una persona che non parla molto. Lui guarda le cose. Il direttore della fotografia perfetto per Resurrection. Per quanto riguarda la scena in cui la macchina da presa va verso la finestra, l’ho scritta nella sceneggiatura e l’ho inserita anche nell’elenco delle inquadrature. Dopo di che abbiamo semplicemente messo un carrello e girato con la musica in sottofondo. Ma ancora una volta, l’espressione è quello che conta: per me era una reazione alla crisi e alla disperazione che il protagonista aveva attraversato prima di quella scena. Volevo esprimere la bellezza come una risposta a questa disperazione e alla crudeltà nel mondo. Aprire la prospettiva mostrando anche la bellezza della natura fuori della casa.
Nelle dinamiche fra i due protagonisti, nell’inquadratura iniziale che mostra un bus in fiamme, nella caratterizzazione del personaggio di Johan Leysen e in diverse soluzioni registiche, il tuo film mi ha ricordato in modo particolare Sacrificio di Tarkovskij. C’è anche un omaggio esplicito al film nella scena in cui l’eremita si ritira nella sua camera da letto e dice il Padre Nostro. Quali sono i registi e i film che più ti hanno influenzato come regista?
Tarkovskij è sicuramente una delle mie maggiori influenze. Principalmente perché i suoi film sono contemplazioni meditative. Non ha importanza la trama o la storia. Lui si esprime attraverso il linguaggio cinematografico: immagini e suoni. Il significato dei suoi film sta nell’espressione cinematografica stessa. Questo è un’altra delle cose che volevo fare da sempre. Ero un grande appassionato di film da ragazzo, ma solo quando ho visto i film di Tarkovskij ho capito che questo era il vero cinema per me. Un regista si esprime solo attraverso le immagini e i suoni, la trama è solo la loro spina dorsale. Così mi sono sentito molto vicino a Tarkovskij, anche per quanto riguarda il soggetto, e in modo particolare a Sacrificio, e per questo motivo ho voluto inserire alcuni riferimenti al suo ultimo film. Dopo Tarkovskij c’è Terrence Malick, anche se lui gira con grande libertà. È sempre alla ricerca di immagini. Di momenti. Ma sappiamo tutti che lo stesso Malick ha un forte debito con Tarkovskij. Sono entrambi registi contemplativi. È sempre a proposito del significato delle immagini che mi sento molto connesso a entrambi i registi, ma devo dire che voglio comunque mantenermi fedele alla mia personale voce: ai temi che mi stanno cari, e al mio stile visivo. Uno stile che è contemplativo, ma non soggettivo o onirico come quello di Tarkovskij. Non sarei in grado di girare neanche come fa Malick. Lui immagina sempre il montaggio dopo aver finito le riprese. Io sul set sono molto preparato. So cosa voglio e il 90% delle inquadrature che giro le ho già pensate prima. Un altro cineasta a cui guardo molto è Robert Bresson. Mi piace la sua purezza, lui porta le cose alla loro essenza. Una semplicità che è molto potente, ma anche molto difficile da ottenere. Volevo fare qualcosa di simile anche con Resurrection. Carlos Reygadas è un altro regista che ammiro, soprattutto per Silent Light e Our Time. Di nuovo film contemplativi, meditazioni, riflessioni che esprimono tantissimo sull’uomo e sulla vita. Non so perché questo genere di film è quello che più mi tocca. La trama non fa molto per me. Limita l’espressione e l’interpretazione dello spettatore. Come essere umano io sono più che altro uno che pensa per immagini mentre guarda il mondo attorno a sé.
Resurrection, a cominciare dal suo titolo, mostra un legame con l’immaginario Cristiano. In effetti è una fusione della parabola del Figliol Prodigo con la parabola del Buon Samaritano, assieme a una sensazione di Eden violato con rimandi alla storia di Caino e Abele; il personaggio di Johan Leysen si rivelerà nel finale profondamente cristologico; la “Risurrezione” del titolo può essere effettivamente riferita sia all’eremita che al giovane assassino; il finale brillante e apertamente irrealistico del film è molto cristiano nelle sue radici, apparentemente molto distante dalla sensibilità moderna sulla colpa e sulla punizione. Lo stesso vale anche per i tuoi corti, a cominciare da Kaïn, che è il nome fiammingo di Caino. Puoi dirci qualcosa di più a proposito delle radici cristiane dei tuoi film?
Sono cresciuto in un paesino molto piccolo delle Fiandre con una chiesa al centro del paese. Io non sono credente e non vado in chiesa, ma sono cresciuto con le storie della Bibbia: Caino e Abele, il Buon Samaritano, Adamo ed Eva, il sacrificio di Cristo, il figliol prodigo… sono stati una parte importante della mia educazione e del piccolo mondo che mi circondava. Una comunità. Facevano una vita molto semplice, erano contadini, persone amichevoli. Solo quando ho studiato arte a Bruxelles mi sono confrontato con un mondo diverso. Un mondo moderno. Nei miei film c’è sempre un contrasto tra natura e civiltà. Ma in qualche modo quando sei nel mondo naturale tendi a vedere le cose in modo molto più chiaro, perché il contrasto è più grande. Quando un’autostrada attraversa un campo, tutto è piuttosto chiaro. Ma per tornare ai temi cristiani: puoi trovarli in letteratura (Tolstoj, Dostoevskij) e dipinti (Brueghel, Da Vinci). Così mi sento connesso con questi artisti e con queste loro immagini. Queste storie parlano di temi universali, che coinvolgono tutta l’umanità, per questo mi interessano tanto. E indubbiamente il finale di Resurrection non vuole essere realistico. L’intero film è una espressione poetica. Non ha niente a che fare con il realismo. Si tratta di un’espressione di temi ed immagini. Sensazioni, pensieri… Deformando la realtà posso esprimermi molto meglio. Praticamente ogni dipinto e ogni scultura sono una deformazione della realtà, a ben vedere. Molti registi non sono interessati a fare film realistici: Kubrick, Von Trier, Tarkovskij, Pasolini, Bresson… Ogni regista ha il suo modo personale di esprimersi, il suo mondo personale sospeso fra cinema e poesia. Puoi esprimere te stesso in un modo più personale e chiaro se deformi la realtà.
In Resurrection così come nei tuoi cortometraggi il silenzio e la dialettica fra ciò che è nell’inquadratura e ciò che resta fuori dall’inquadratura hanno una grande importanza: per fare un esempio, in The Fall un ragazzo viene investito fuori schermo dall’auto dei protagonisti, e anche il suo corpo viene a malapena intravisto quando i due cercano di nasconderlo nella foresta. Questo mi riporta alla mente quella frase di Bresson secondo cui «il cinema sonoro ha inventato il silenzio». Quali sono i tuoi riferimenti nell’uso del silenzio e delle scene off-screen all’interno dei tuoi film? Ti sei mai imposto delle regole per fare cinema?
Per me queste cose fanno tutte parte del linguaggio cinematografico. Come girerò questa parte? Cosa mostrerò? Cosa non mostrerò? Quando taglierò? Devo fare un primo piano o è meglio che io giri l’intera scena da una certa distanza? Un’unica inquadratura o la taglio in più inquadrature? Chi è il personaggio importante in questa scena? Ogni volta che penso come dirigere una scena nel modo migliore mi pongo queste e altre domande. Andare all’essenza come faceva Bresson, se vogliamo. Ho sempre avuto una forte passione per lo studio della sintassi cinematografica. Impiego molto tempo a capire cosa cerco in termini di linguaggio. Che effetto può avere sul pubblico. Cosa esprime. Così ho guardato moltissimi film per vedere come i differenti tipi di linguaggio cinematografico funzionano, in modo da trovare il mio linguaggio personale. Se sei un regista devi pensare sempre al linguaggio cinematografico. È il linguaggio di noi registi. Girare qualcosa in un certo modo solo perché sembra fico o bello generalmente non è il modo più efficace per esprimerti. Ho studiato ogni genere di regista: Hitchcock, Bresson, Haneke, Von Trier, Scorsese, Tarr, Antonioni… Trovo molto interessante esplorare il linguaggio cinematografico. Sono innumerevoli i modi in cui puoi riuscire a esprimerti attraverso questo linguaggio. Devi semplicemente trovare un linguaggio che coincide con il tuo modo di pensare e di guardare, e che funziona per il film che hai intenzione di fare. Per Resurrection ho dedicato molto tempo al suono. Doveva essere tutto molto preciso. Volevo condurre il pubblico in questa meditazione attraverso il silenzio e il suono. Neanche un singolo suono poteva essere troppo forte o troppo basso. Doveva essere il suono giusto. Tutto serviva alla meditazione. A trasferire il pubblico in un mondo diverso. Un mondo poetico.
Quali sono i tuoi progetti futuri? Come stai vivendo l'emergenza Coronavirus?
Sto attualmente scrivendo un trattamento per il mio nuovo lungometraggio, affronto di nuovo gli stessi temi o meglio li esploro ulteriormente. Questa volta però voglio girare con la macchina a mano, voglio creare un film di diverso tipo, qualcosa di crudo e fisico, ma allo stesso tempo contemplativo. Il protagonista è un poliziotto donna che vive e lavora vicino al mare e che inizia a interrogarsi sul suo lavoro dopo aver assistito ad alcuni crudeli atti di violenza. Quando il trattamento sarà finito inizierò a cercare un produttore. Non so come andrà. I progetti artistici non sono facili da finanziare al giorno d'oggi.
La vita con il Coronavirus… diciamo che a volte non è facile. Ho due bambini a casa, uno di tre anni, un altro di undici, e nessuno dei due può andare a scuola. Mia moglie deve lavorare da casa. Anche io lavoro quanto più possibile, ma come puoi immaginare la combinazione bambini a casa e lavoro da casa non è delle più facili. La situazione è pesante anche per i miei figli: sentono la mancanza della scuola e dei loro amici… Ma facciamo quello che dobbiamo fare per superare quest'emergenza.