Paolo Carnera (Venezia, 1957), dopo essersi diplomato nel 1982 al Centro Sperimentale di Cinematografia, tra la fine degli anni ’80 e i primi anni Duemila gira alcuni dei primi film di registi quali Paolo Virzì, Francesca Archibugi, Edoardo Winspeare e Sergio Rubini. Fra il 2008 e il 2010 cura la fotografia della serie televisiva di Romanzo criminale, diretta da Stefano Sollima, con cui gira anche il lungometraggio ACAB - All Cops Are Bastards del 2012, che gli vale la sua prima candidatura ai David di Donatello e ai Nastri d’Argento. Continuando ad alternare cinema e televisione negli anni seguenti Carnera è dietro la macchina da presa delle serie Gomorra e ZeroZeroZero, tratte dalle opere di Saviano, e del film Suburra sempre di Sollima, per il quale riceve una seconda nomination ai David. Nel 2018 firma la fotografia de La terra dell’abbastanza, film d’esordio di Damiano e Fabio D’Innocenzo; due anni dopo il suo lavoro per Favolacce, secondo film dei due fratelli, gli frutta un grande successo di critica e la vittoria del suo primo Nastro d’Argento.
Favolacce è il tuo secondo film con i fratelli D’Innocenzo dopo la loro acclamata opera prima La terra dell'abbastanza. Cosa ricordi delle riprese di quel primo film? Vedendoli di fatto “nascere” come registi, cosa ti ha colpito di più di loro all’esordio?
Quello che mi ha colpito è stato proprio il primo incontro con i fratelli D’Innocenzo. Il produttore Giuseppe Saccà mi aveva mandato la sceneggiatura de La terra dell'abbastanza; francamente ero un po’ perplesso perché venendo dalla lavorazione della serie di Gomorra e del film Suburra mi sembrava che avrei percorso un territorio già conosciuto, e temevo che sarebbe stato ripetitivo e non particolarmente stimolante da un punto di vista creativo. Però il film era bello e decisi di incontrare il regista sperando che non mi chiamasse perché avevo fatto Gomorra. Ho scoperto così che i registi erano due ed erano gemelli. Il mio incontro con Fabio e Damiano è stato estremamente interessante perché ho scoperto due giovani coltissimi, anche se di una cultura autodidatta, che conoscevano Pasolini non solo per il cinema quanto per la letteratura e la poesia, e avevano una conoscenza molto profonda di grandi fasce poco conosciute del cinema internazionale: certo cinema asiatico, il cinema della Corea del Sud, tanto cinema indipendente americano. Parlando con loro improvvisamente i riferimenti cinematografici si sono aperti e parlare con loro di un progetto non è stato tanto parlare di cose futili come quale macchina da presa usare o che tipo di movimenti di macchina immaginassero, ma quali emozioni, quale sentimento, quale mood cercassero: insomma, che cosa, di fondo, volessero raccontare, che tipo di interpretazione dare al tessuto visivo della storia. Già questo primo incontro, alla trattoria Da Marcello a San Lorenzo, mi rivelava un approccio molto profondo all’immagine, e subito accettai di fare quest’esperienza, nonostante un budget relativamente basso. Avevo voglia di mettermi a disposizione di occhi e sentimenti di una generazione diversa dalla mia. La collaborazione è stata molto positiva, il film ha avuto un notevole riscontro per essere un’opera prima di due registi sconosciuti, ed è stato visto internazionalmente. Pur essendo ancora un film di periferia e di ambito criminale, La terra dell’abbastanza ha scosso qualche cosa nel profondo, in me e nel pubblico. L’approccio che Fabio e Damiano hanno avuto nei confronti dei personaggi del film, un approccio che ci siamo portati dietro anche in Favolacce, era molto diverso da quello di Gomorra e Suburra: nei film dei fratelli D’Innocenzo non c’è un giudizio, i personaggi sono tutti esseri umani fragili, possono commettere cose terribili come capita ai protagonisti della terra dell'abbastanza ma sono persone, li percepisci come esseri umani e gli si vuole bene. Questo approccio mi ha permesso di toccare altre corde visive e di essere un narratore per immagini diverso da quello di Gomorra – un racconto che invece utilizza fondamentalmente le affascinanti, intense modalità del genere – aprendo la strada a Favolacce.
Quando Damiano e Fabio hanno iniziato a parlarti di Favolacce, come te lo hanno presentato? Quali scelte in termini di fotografia e di stile visivo del film avete concordato sin dai primi incontri? Avete fatto riferimento a qualche particolare film come reference visiva?
Favolacce è un radicale passo in avanti rispetto alla terra dell'abbastanza. Perde la dimensione lontanamente autobiografica che potevano avere l’ambientazione e le vicende del film d’esordio, dal momento che anche Fabio e Damiano, come i due protagonisti della loro opera prima, sono nati nella periferia romana, a Tor Bella Monaca, e avevano continuato a mantenere radici lì, pur avendo fatto un percorso molto lontano da quei mondi. Favolacce è quello che dice il titolo: una favola, una favola nera, e in quanto tale è la metafora di qualche cosa, è il racconto di un possibile, terribile pericolo che corre nella nostra società: se perdi le radici, perdi il futuro, e noi senza accorgercene stiamo perdendo il futuro. Le radici, in Favolacce, sono il territorio, quel quartiere che si vede in una delle prime immagini del film, un quartiere di case a schiera: potrebbe essere qualsiasi posto del mondo, l’Italia non c’è più, appare solo quando parlano i personaggi perché parlano in romanesco, perché il loro linguaggio e le loro movenze rimandano all’Italia e in particolare alla periferia romana, ma quello che viene raccontato nel film potrebbe avvenire ovunque.Il mio approccio a Favolacce è stato completamente diverso da quello che ho avuto con La terra dell'abbastanza. Con Favolacce, Fabio e Damiano reintroducono in maniera violenta il cinema d’autore nel nostro panorama cinematografico, quello che era scomparso perché col tempo si era fatto noioso e ombelicale, gli attori raccontavano solo se stessi e a lungo andare aveva perso il pubblico. Per ritrovare un’audience, nel mio personale percorso con Stefano Sollima, abbiamo puntato a raccontare storie importanti ma usando il genere, il crime. Fabio e Damiano, perlomeno in Favolacce, non usano il genere, ma raccontano il mondo come pensano possa diventare e come per certi versi è già: stiamo camminando sul filo del rasoio, il dramma è dietro l’angolo, rischiamo di perderci e, se non facciamo attenzione, di perdere i nostri nostri figli, e con loro il nostro futuro. Iniziando a immaginare Favolacce si è sicuramente parlato di Gummo di Harmony Korine, di The Florida Project (Un sogno chiamato Florida) di Sean Baker, ma anche, ancora una volta, di alcune fascinazioni provenienti dal cinema sudcoreano, molto prima di Parasite, oppure della capacità visiva dei primi, meravigliosi film di Wong Kar-Wai: il cinema di Wong Kar-Wai (Angeli perduti, Hong Kong Express) sembra completamente estraneo al racconto che i D’Innocenzo volevano fare con Favolacce, ma in entrambi i percorsi c’è la convinzione che ogni immagine dev’essere indispensabile e necessaria.
Favolacce, molto più della Terra dell’abbastanza, è raccontato per immagini. Il montaggio è successivo, diventa quasi un assemblaggio, perché la singola inquadratura deve dare il senso del racconto. Di conseguenza la mia responsabilità visiva in quanto direttore della fotografia diventava sempre più alta, e il giudizio di Fabio e Damiano sul set sempre più immediato: «Va benissimo», «Questo no», «Questo non ci serve», «è inutile». Non c’è alcuna mediazione, con Favolacce il loro cinema è diventato un cinema di visione e di direzione degli attori. E prima ancora un’attentissima scelta in fase di casting. Tantissimi i riferimenti visivi. Come avevamo già fatto per La terra dell’abbastanza abbiamo costruito un moodboard composto da immagini che mi mandavano loro e che io mandavo a loro. In una maniera più profonda della Terra dell’abbastanza volevamo sforzarci di avere uno sguardo dolce su un mondo duro; solo con uno sguardo emozionato riusciamo a toccare l’emozione degli spettatori, solo con uno sguardo partecipe riusciamo a far amare le debolezze di questi personaggi e a far capire il senso profondo di questa storia: si tratta di noi, siamo sempre noi, anche se apparteniamo a un altro ceto sociale o abitiamo in un altro quartiere o in un’altra città, siamo noi, siamo un pezzo dell’Italia; Favolacce è il racconto di un pezzo di Italia che può diventare una terribile metafora dell’Italia intera e un po’ di tutto il mondo.
Come si è svolta la pre-produzione? Quanto tempo hanno preso i sopralluoghi? Le scene del film sono state girate tutte in location oppure alcuni interni sono stati ricostruiti in studio?
Non c’è nulla di ricostruito in studio, ogni ambiente è vero ed è stato trasformato, ma la tipologia è quella di quel quartiere di villette a schiera; nel film si dice che la storia è ambientata a Spinaceto, ma in realtà è stata girata in un posto vicino Nepi, in un comprensorio di villini a schiera sulla Cassia bis fra Roma e Viterbo. Anche gli interni sono stati girati lì, mentre il resto è stato girato in zone varie della periferia di Roma. I tempi di preparazione sono stati relativamente rapidi, e a me dispiace perché vorrei sempre che la preparazione fosse più lunga in quanto necessaria a capirsi e a trovare le giuste scelte di illuminazione. Nel caso specifico di Favolacce si è trattato di tre settimane di preparazione “spezzate” nel tempo man mano che c’erano nuovi sopralluoghi da fare. Con i fratelli D’Innocenzo i sopralluoghi sono fatti di tante fotografie, vedere posti e fotografarli: immediatamente si cerca di capire qual è la riproduzione visiva del mondo che vogliamo, come è possibile interpretare quel luogo, come risulta la fotogenia di un personaggio o di uno spazio: ci sono spazi che a un primo sguardo sembrano perfetti ma poi si rivelano difficili o deludenti a livello cinematografico. C’è da dire che in generale la preparazione dei film dei fratelli d’Innocenzo è molto facilitata dalla grande cultura visiva che hanno alle spalle.La preparazione e i sopralluoghi nelle varie location comportano anche la scelta del modo di raccontare quel mondo. Durante la preparazione sono emersi come reference, accanto ai citati Gummo e The Florida Project, film più sorprendenti come The Tree of Life di Terrence Malick o Revoutionary Road di Sam Mendes. Ma a ben vedere si tratta di due film che rappresentano al tempo stesso un grande dolore e una dolcezza estrema al tempo stesso, e io sono assolutamente affascinato dalla capacità di raccontare con enorme dolcezza visiva un grande dolore, perché questo è il modo più semplice e profondo di raccontare uno strazio. Favolacce è la storia di un mondo straziato. Essere così dolce voleva dire anche essere estremamente semplici, sicché tutte le riflessioni intellettuali dovevano azzerarsi di fronte all’emozione che dovevamo essere in grado di comunicare in maniera netta con le immagini. Mi sono trovato a cancellare gli ultimi dieci anni del mio percorso nel cinema di genere e con grande facilità mi sono trovato a vedere il mondo di Favolacce con altri occhi.
Occhi da bambino forse?
Potrebbe essere, sì. Non penso e non credo, dall’alto dei miei 63 anni, di poter riproporre con semplicità gli occhi di un bambino o di un adolescente. Ho dei figli un po’ più grandi e dei nipoti adolescenti, ma non so se conosco davvero il loro sguardo. Mantenere uno sguardo semplice è qualcosa di molto difficile oggi. Se ci sono riuscito vorrebbe dire per me aver raggiunto un grandissimo obiettivo. Chi mi dice se sbaglio o faccio bene sono sempre Fabio e Damiano, in maniera semplice e diretta, facciamo tanti test e ci fermiamo quando otteniamo il risultato desiderato. Una prima ispirazione iniziale mi è venuta da Sally Mann, fotografa statunitense che ha lavorato con bambini e adolescenti, in bianco e nero, fotografando con grandi lastre al collodio.Come ho già detto in altre occasioni, sin dalla preparazione ho pensato che questo film non potevo e non volevo farlo come direttore della fotografia ma come fotografo, perché il fotografo attribuisce una responsabilità assoluta ad ogni singola immagine, perché ogni singola immagine è in qualche maniera già conclusiva. Questo è quello che ho cercato di fare in Favolacce.
Quale macchina da presa avete utilizzato? Avete fatto dei provini prima di sceglierne una oppure si trattava di una macchina con cui avevi già lavorato su altri set?
La macchina da presa è stata un’Alexa, semplicemente perché si tratta di una macchina che conosco molto bene. I test sono stati fatti sulle lenti, abbiamo usato contemporaneamente tre o quattro serie di lenti vintage di generazioni diverse fra gli anni ’60, ’70 e ’80, e soprattutto abbiamo mescolato lenti sferiche e lenti anamorfiche. Si trattava di una scelta totalmente atipica ma che si inquadrava nell’ambito di una ricerca sensoriale: avevo con me questa serie di obiettivi e prima di ogni scena, a seconda dell’ambientazione o della prova che facevano gli attori, decidevo di usare certi obiettivi piuttosto che altri, perché le emozioni mi guidavano più da una parte o dall’altra. Sicuramente era un po’ estremo come approccio ma al Centro Sperimentale di Cinematografia ho avuto come maestro Carlo Di Palma, che diceva sempre: «Noi direttori della fotografia dobbiamo sapere tutto della tecnica ma non siamo dei tecnici». Questo è stato l’insegnamento più semplice e insieme più grande avuto da lui, perché noi direttori della fotografia siamo, e dobbiamo essere sempre più, degli interpreti, dobbiamo semplicemente conoscere gli strumenti con cui interpretare: così come un attore deve conoscere e usare la sua voce e il suo corpo, noi dobbiamo saper usare la pellicola o il sensore digitale e le varie lenti. Si tratta di una ricerca infinita, perché le possibilità sono moltissime, e prima di ogni nuovo progetto devo rifare dei test e rivisitare le mie conoscenze tecniche come se fosse il primo film, e ricominciare da capo.
Quando c’è stato il primo ciack, e quanto sono durate le riprese?
Il film è durato sette settimane, il primo ciak credo sia stato il 7 giugno 2019. Il film doveva essere primaverile e invece divenne estivo per incastri delle disponibilità degli attori ed esigenze produttive. Io temevo molto la durezza della luce dell’estate nella periferia romane e onestamente non avevo voglia di girarlo in estate. Ma grazie alla dolcezza degli obiettivi e alla disponibilità di Fabio, Damiano e dell’aiuto regista Fabio Simonelli abbiamo impostato un piano di produzione che ci permettesse di girare gli esterni il più possibile a fine giornata, per usare la luce più dolce e radente del tardo pomeriggio-tramonto.
La fotografia di Favolacce colpisce anzitutto per i colori molto particolari, fiabeschi, a volte pastello, a volte più opachi, in ogni caso mai meramente “naturalistici”. Per ottenere l’effetto finale che si vede nel film avevate già sviluppato una LUT durante le riprese, o il lavoro è stato realizzato in post-produzione?
Cerco di lavorare il più possibile sul set. In Favolacce non avevo un DIT, quindi non costruivo delle LUT sul set, avevo semplicemente una LUT di base che era un’interpretazione del negativo digitale. Le immagini di Favolacce sono state ottenute all’80-85% sul set scegliendo obiettivi e lavorando la luce, l’altro l’altro 15%-20% lo si è creato in color con l’aiuto e la sensibilità di Red, Andrea Baracca, il colorist con cui lavoro da anni.
La storia di Favolacce si snoda lungo diversi mesi, da maggio-giugno, quando finisce la scuola, fino all’autunno. La fotografia cambia con lo scorrere dei mesi e l’incupirsi della storia. Come hai impostato questa progressione? Come hai ottenuto l’autunno?
Abbiamo avuto la fortuna di avere degli acquazzoni. Sul set eravamo sempre pronti a cogliere le trasformazioni del cielo e del clima perché sapevamo quanto potessero essere funzionali al racconto. Appena il cielo si rannuvolava o cadeva qualche goccia di pioggia, appena insomma c’era qualche segnale di rottura dell’estate ci buttavamo in esterni per girare con il cielo grigio, come ad esempio nella scena della festa di compleanno di Viola – questo era uno dei vantaggi di avere molte delle location concentrate nel villaggio delle casette a schiera. Tutto il blocco finale delle scene di Geremia – il ragazzino biondo, il più povero di tutti che vive in una specie di palafitta ai margini del bosco e alla fine sarà l’unico a salvarsi – è stato girato a fine lavorazione, quindi nelle ultime settimane di agosto, e molte di quelle scene erano in una location ai margini del bosco; grazie a ciò si è percepito in modo particolare il senso di fine dell’estate. Un giorno c’è stato un grande acquazzone e io ho preso la macchina da presa, senza neanche cambiare l’obiettivo che c’era, e ho sfruttato quell’improvviso temporale per la sequenza con Geremia che cammina sotto pioggia con fucile di legno. Evidentemente non potevamo attendere il cambio delle stagioni come Malick e Lubezki in The Tree of Life, non ne avevamo la possibilità economica e produttiva, e allora abbiamo cercato di sfruttare il più possibile le occasioni che ci capitavano.
Michelangelo Antonioni, nel corso della fase matura della sua carriera, cercò sempre più di ottenere una “drammaturgia del colore”. I fratelli D’Innocenzo, seppure con uno stile molto diverso, cercavano qualcosa di analogo?
Antonioni ha provato a farlo in un momento in cui iniziava ad affacciarsi una tecnologia con cui si poteva alterare dal vivo l’immagine realistica, vedendo quello che stavi facendo. La grande differenza tra fare cinema in pellicola e fare cinema in digitale è che la pellicola ha un respiro sospeso, tu resti in attesa della proiezione dei giornalieri e fino a quel momento intuisci ma non sei sicuro di quello che stai girando; invece il cinema digitale te lo mostra immediatamente e questo ti dà grande possibilità di sperimentare. Antonioni lo aveva capito e con Il mistero di Oberwald, insieme a Luciano Tovoli, ha provato a farlo, con risultati interessanti. Io non credo che per ora Fabio e Damiano pensino a questo, ma hanno una tale consapevolezza dell’importanza dell’immagine nel cinema, sanno così bene quanto l’immagine sia profondamente narrativa, che sono aperti e sono alla ricerca di continue sperimentazioni. Recentemente siamo tornati a lavorare insieme per una pubblicità in pellicola della collezione Gucci Cruise 2020, che sta per uscire. La mia generazione ha iniziato a lavorare in pellicola, Fabio e Damiano invece avevano grande desiderio di provare questo strumento. Tornare a girare in pellicola per me è stato bellissimo e io stesso sono rimasto stupefatto di fronte ad alcune immagini che innegabilmente erano infinitamente più preziose di quelle che si ottengono con il digitale. Sono sicuro che i fratelli D’Innocenzo, se potranno, proveranno tutti gli strumenti possibili, perché sono dei grandissimi sperimenta tori e questo rende molto bello lavorare con loro, in quanto ti fanno tentare nuovi percorsi. Camminiamo sempre, per così dire, sul filo del rasoio, e per una persona della mia età e della mia esperienza questo è meraviglioso, perché scopro sempre cose nuove, a volte anche ripercorrendo in maniera diversa strade già percorse in passato, come per il ritorno alla pellicola in occasione della pubblicità di Gucci.
In alcune scene del film sembra emergere un impiego simbolico del colore. C’è qualche simbolismo particolare che avete cercato di ottenere durante le riprese?
Il simbolismo è didascalico. Il cinema di Fabio e Damiano tendenzialmente non vuole mai essere didascalico, mira a comunicare emozioni. Uno dei punti chiave di Favolacce sta nel fatto che è la storia della lettura di un diario: la storia è vista attraverso il filtro della memoria. Per questo motivo l’immagine non poteva essere del tutto limpida, doveva avere una sua patina, come se fosse il racconto in diretta di un passato recente. Ci sono però alcune sequenze di Favolacce e de La terra dell’abbastanza dove il punto di vista improvvisamente si sposta all’interno di uno dei personaggi, non c’è più un narratore che racconta: ad esempio la sequenza in cui la mamma di uno dei due ragazzini viene a conoscenza del fatto che è stata trovata la bomba a casa di Geremia e intuisce che anche i suoi figli stavano costruendo la stessa cosa, sale le scale e vede questo oggetto che potrebbe essere o è la bomba. Quella sequenza improvvisamente non è più dal punto di vista del narratore, ma è vissuta con l’emozione della madre, e là il registro visivo cambia, non per seguire un qualche simbolismo, ma perché si sposta il punto di vista del film.
Possiamo analizzare più nel dettaglio questa scena?
Allora, abbiamo già detto che questa sequenza non è più narrata dal narratore ma viene vista con gli occhi della mamma di Alessia e Denis; per questo ti ritrovi improvvisamente in un mondo alterato, come se tu stesso vivessi un incubo: «Mio figlio ha costruito una bomba che potrebbe fare esplodere l’intero quartiere», questa è l’emozione che prova quella mamma mentre sale le scale e va di sopra cerca di bloccare il timer. In questa scena c’è un doppio livello di allucinazione, uno dal punto di vista ottico e uno dal punto di vista della luce. Dal punto di vista ottico abbiamo utilizzato degli obiettivi Tilt and Shift, che hanno un particolare banco ottico che ti permette di spostare l’obiettivo dal suo asse naturale, rendendo sfocata una parte del fotogramma; dal punto di vista della luce: la luce c’è ma si tratta di una luce alterata, di un sole malato, non del sole che vediamo tutti i giorni, è come se arrivasse da un filtro alterato, acido e fastidioso. Anche questa ovviamente è stata una scelta “nostra”, non solo mia: Fabio e Damiano trasmettono suggestioni, io propongo soluzioni che loro con estrema immediatezza mi dicono se giuste e sbagliate. Queste scelte nascono unicamente da una risposta emotiva: se l’immagine emoziona l’inquadratura è quella giusta, se ti lascia freddo l’inquadratura può anche essere bellissima ma non è quella giusta, perché è frutto di mera riflessione intellettuale. Tornando a come abbiamo realizzato la scena, dietro alla finestra della casa non c’era ovviamente il sole, ma un jumbo con una gelatina gialla.
Uno dei grandi dibattiti nel mondo della fotografia contemporanea riguarda la cosiddetta luce naturale. C’è una sorta di partito, capeggiato se vogliamo proprio da Lubezki, che sostiene che ormai le caratteristiche delle macchine da presa digitali permettono di girare in un modo realistico senza uso di luci di scena; altri invece preferiscono coniugare luce naturale e luce artificiale. Tu come ti collochi in questo dibattito? Quanta luce artificiale avete utilizzato per Favolacce e nel caso quali apparecchiature avete impiegato più spesso?
Non sono particolarmente interessato alla tecnica, anche se la uso. Se potessi fare film in 30 settimane di lavorazione come ha fatto Lubezki per The Tree of Life o Revenant adorerei farlo, questa possibilità ancora non mi è stata data ma spero di averla in futuro, e in tal caso sarò pronto a far costruire la casa da riprendere ‒ come si fece per The Tree of Life ‒ in una determinata posizione pensando all’esposizione delle varie finestre rispetto all’arco della luce solare nel corso della giornata, e ben volentieri concorderei un piano di lavorazione in interni basato anche sull’incidenza della luce del sole all’interno della casa, e non avrei difficoltà a dire «Ci dispiace ma oggi la luce non è buona e non possiamo girare». Ma questo evidentemente fa parte mondo dei sogni. La realtà è un piano di lavorazione che devi portare a termine perché se accumuli ritardi certe scene non saranno girate. Favolacce fa parte di quei film in cui quando la luce non è perfetta devi trovare un’altra soluzione oppure devi costruirla. Favolacce è un film fatto di tanti interni, in cui il sole di fatto è ricostruito da proiettori sufficientemente forti, Jumbo o Dino light a 16 par, oppure 6000 HMI. Abbiamo utilizzato anche piccole luci a batteria o dei LED, ogni luce ha la sua caratteristica e quando ho bisogno di qualcosa la chiedo alla produzione, ma non sono legato a nessuna apparecchiatura in modo particolare, scelgo quale utilizzare in funzione della scena. Nel caso di Favolacce ci sono stati anche esterni notte girati con apparecchiature un po’ più importanti, altri in cui abbiamo utilizzato semplicemente le luci naturali o notturne, spegnendo i proiettori invece che accenderli. Certamente girare in digitale richiede in linea di massima meno luce che girare in pellicola, perché le macchine attuali sono molto più sensibili alla luce, ma non è detto che sia sempre così. In Favolacce, nella sequenza della piscina abbandonata – quella in cui i due ragazzini si incontrano per un presunto incontro sessuale prima che il ragazzo fugga per la paura di sperimentare una cosa tanto agognata ma così difficile – ci sono due inquadrature che a causa di un improvviso annuvolamento del cielo ho dovuto girare con luce artificiale, e non rivelerò mai quali siano. Ecco: Favolacce è un film in cui, se sono stato bravo, nessuno si accorge che ho usato la luce artificiale nelle scene in interno giorno; per le scene notturne abbiamo dovuto per forza usare quasi sempre luce artificiale, ma spero che si senta il meno possibile e che sembri quella di qualche lampione.
Alcune inquadrature di Favolacce sembrano girate direttamente “contro il sole”, ma mostrano raramente riflessi o altre sbavature. Come avete ottenuto questo?
Due o tre riflessi in realtà ci sono, anche perché ho girato con degli obiettivi vecchi che avevano un trattamento antiriflesso molto debole, ma se c’era qualche sbavatura di questo tipo andava bene, rientrava nella logica del film: non sono andato alla ricerca di obiettivi cristallini, anzi sono andato in senso contrario a scegliere delle ottiche con tanti difetti e bordi sfocati. Ho girato contro il sole e ho inquadrato il sole perché era ed è un elemento narrativo fondamentale di questa estate e racconta la vitalità di questi ragazzini; spesso per inquadrarlo il più possibile mi sono messo in una posizione molto bassa, come nella scena in cui Ada spruzza acqua contro la macchina da presa. Per quell’inquadratura ho solo chiesto di proteggere la macchina e mi sono fatto innaffiare con molto piacere. La cosa fondamentale del set di Favolacce era essere liberi, permettendo ai giovanissimi protagonisti di mostrare quello che sono con il massimo della spontaneità.
La luce estiva, una presenza multiforme dell’acqua e le ombre sull’asfalto o sui muri sono alcune delle “costanti visive” di Favolacce, anche quando il cielo si rannuvola e l’autunno si avvicina. In cosa si distingueva la luce con cui hai plasmato Favolacce, sia sotto un aspetto tecnico che sotto un aspetto concettuale, dalla luce dei tuoi precedenti lavori?
La luce per me cambia a ogni film. Penso che il mio lavoro, quando mi riesce bene, è veramente quello di un interprete, e per essere un interprete devo cercare di guardare con occhi più semplici possibile, senza pensare a niente di quello che ho già fatto. Il mio rapporto con luce cambia perché quando si va a fare un nuovo progetto cambia anche la luce. L’unica cosa che posso indicare, come novità particolare di Favolacce, è la dolcezza. Quando ho utilizzato la luce artificiale ho cercato di non farla sentire mai. Vorrei che, vedendo il film, sempre si abbia la sensazione della naturalezza della luce. Non so se ci sono riuscito, sono molto critico con il mio lavoro, e anche per questo motivo lascio che lo giudichino gli altri. Dietro la macchina da presa penso di essere una sorta di narratore, e il mio più grande piacere sta non nel narrare da solo bensì insieme a qualcuno: col regista e in questo caso con i registi. Se raggiungiamo gli occhi dello spettatore, comunicando anche a lui la nostra emozione, abbiamo raggiunto gli obiettivi, e la calda accoglienza che ha ricevuto Favolacce e la sua fotografia mi fa sperare di esserci riuscito.
Anche l’acqua ha un ruolo visivo molto forte in Favolacce. Come hai lavorato per ottenere questo continuo dialogo fra acqua, luce e ombre?
Fin dall’inizio quelle due ombre che camminavano sull’asfalto sono state un’idea di Fabio e D’Innocenzo, si trattava di una loro intuizione che ho cercato di raccogliere. Nelle inquadrature sott’acqua, i riflessi sono abbastanza casuali, capitano come capitano, il controllo di un’immagine subacquea è molto relativo, vedevamo i bambini e le loro espressioni meravigliose e queste bastavano a rendere molto belle quelle scene. Nelle inquadrature sopra la superficie dell’acqua, siccome Favolacce è il racconto di un pezzo di vita e la voce fuori campo rappresenta la lettura di un diario, Fabio, Damiano ed io abbiamo sempre cercato di lasciare l’impressione che tutto accada attraverso un filtro, a volte attraverso la vegetazione, a volte attraverso una tenda, a volte attraverso dei riflessi, che noi inevitabilmente andiamo a cercare quando già siamo sul set. In una scena, ad esempio, si vede sulla televisione il riflesso di Geremia che cammina nel giardino, con una tenda di quinta: fu Fabio a farlo notare a me e a Damiano e immediatamente ci ha ricordato le fotografie di Nan Goldin, grande fotografa che spesso ha raccontato gli ultimi delle periferie americane. Quando giro con loro i nostri occhi sono sempre alla ricerca di qualcosa che viaggia attorno ai personaggi e attorno alla scena, non direttamente sulla scena. Si tratta di un approccio molto diverso da quello abituale: c’è la scena ma sappiamo di non dover girare per forza “la” scena, con i soliti primi piani, campi, controcampi che fanno parte della tradizionale grammatica cinematografica. Noi dobbiamo trovare l’inquadratura che comunichi l’impressione della scena, e questa inquadratura può essere da molto lontano, da molto vicino, di spalle, di riflesso su una finestra, su un televisore o sul vetro di un tavolo o anche sott’acqua. L’ombra – l’ombra che disegna sul muro la madre di Denis e Alessia quando va di sopra a scoprire la bomba, o l’ombra sull’asfalto dei bambini che camminano andando verso la piscina – è un segno grafico. L’ombra è un elemento fotografato spesso dai fotografi invece della persona; è significativo in quanto il soggetto dello scatto viene ridotto a una bidimensionalità, il gesto sull’ombra è profondamente emozionante a volte, come nel caso delle ombre cinesi e nel cinema espressionista tedesco di Murnau. Noi però con l’ombra ci giochiamo senza grande intellettualismo, con spontaneità naturale: prima di dirtelo in questo momento mai mi era venuto in mente Murnau girando Favolacce, semplicemente certi riferimenti fanno parte del tuo bagaglio visivo e istintivamente li riutilizzi quando giri. Nessuna inquadratura è simbolo di qualcosa, semplicemente scegliamo una determinata inquadratura se quando vediamo un’immagine da quel particolare punto di vista ci arriva un’emozione e quella è l’emozione giusta per la scena che dobbiamo girare.
Una sequenza abbastanza breve, ma che è stata piuttosto apprezzata dagli spettatori, è quella della gita in campagna di una delle famiglie, una sequenza molto più visiva che narrativa, girata prevalentemente in camera a mano. Alcuni l’hanno accostata a Malick, a me ha ricordato anche alcuni esperimenti di “cinema sensoriale” di Reygadas. Come vi siete approcciati a questa breve sequenza? La sceneggiatura la prevedeva già così, oppure i fratelli D’Innocenzo ed Esmeralda Calabria sono andati a sottrarre durante il montaggio?
Malick e Reygadas sono entrambi delle reference importanti, nulla è casuale, ma non c’è mai il riferimento esplicito, la citazione, non è che Fabio e Damiano preparando la scena pensavano a Malick o a Reygadas: semplicemente dopo il ciak “lanciavano” Denis e Alessia e loro guidavano la ripresa. Quella della gita in campagna poteva essere una scena molto banale ma girandola è diventata semplicemente lo sguardo di Denis e Alessia su quel mondo fuori dalle loro case, mentre prendono un’ultima boccata di ossigeno prima del dramma. La macchina da presa ‒ in quel caso ero io a fare da operatore ‒- semplicemente doveva cogliere il loro sguardo, interpretarlo e farlo suo. C’è sicuramente dietro Malick, c’è sicuramente dietro Reygadas, Days of Heaven un è film che adoro, e mille volte ho pensato a Lubezki ma prima di iniziare Favolacce; mentre giravo non ho più pensato a niente e a nessuno, consideravo le immagini che avevo davanti e cercavo di realizzarle al meglio, di prendere la mdp sulle spalle e seguire il piccolo attore nei suoi gesti e nei suoi movimenti. Una volta Denis si trovò sotto la pioggia di un acquazzone improvviso, e gridava: «Mamma, papà, Alessia dove siete?», una battuta improvvisata, suggerita dai registi, che esprimeva la paura di essere rimasto solo. Io ero sotto la pioggia, assieme a lui, vedendo la pioggia che lo bagnava e mi bagnava senza nessuno che ci coprisse; Fabio e Damiano erano alle mie spalle in maniera molto semplice, senza intervenire dovevamo sentire quello che stava sentendo Denis in quel momento per comunicare l’emozione con le immagini.
Un’altra delle scene più belle del film è quella in cui Vilma (Ileana D’Ambra) e il suo ragazzo sono seduti ai tavolini di un bar, dopo aver lasciato in macchina la loro bambina di poche settimane. Sentendo Sara di Paolo Meneguzzi, Vilma prima canta a squarciagola, poi scoppia in lacrime. In questa scena è visibilmente preponderante, sullo sfondo, il colore blu. Si trattava di una caratteristica della location che voi avete accentuato, oppure siete intervenuti con luci artificiali per ottenere questo effetto?
Tutte e due le cose insieme. Se prendi il totale di quell’ambiente si tratta di una gelateria-snack bar vicino al rental di macchine da presa dove prima di girare il film ho fatto i test, la D-Vision di Ciampino. Un test lo facemmo di notte là attorno e Fabio si è accorto che quello era il posto perfetto per la scena dello snack bar, ed è diventato una location del film. Il bar ha un’insegna al neon rosa e sul fondo ci sono delle luci un po’ fredde,tendenti al blu; partendo da quello spunto, senza negarlo, ho semplicemente cercato di unire nell’inquadratura le due diverse fonti di luci presenti nell’ambiente, come già mi era capitato, questo sì, di fare sul set di Gomorra. Ho preso quei colori avvicinandoli ai due personaggi con delle lampade a LED che riproducono varie tonalità cromatiche, portandoli sui loro volti. Quei colori erano lì, ma non erano proprio lì. Se mi fossi limitato a girare con le luci che c’erano, sarebbe stato interessante il totale ma la luce sui volti degli attori non sarebbe stata emozionante.
I protagonisti di Favolacce sono tutti giovanissimi, gli adulti hanno tutto sommato un ruolo (negativo) di contorno. Com’è stato lavorare con degli attori di fatto ancora bambini e più o meno tutti alla prima esperienza di recitazione? È stato facile per te e per i due registi spiegare loro di non guardare in camera e di non uscire dall’inquadratura?
Il lavoro con gli attori bambini lo hanno fatto in grandissima parte Fabio e Damiano, innanzitutto nel fare i casting quando, come tutti i registi, sceglievano non solo delle facce ma anche degli esseri umani, dei piccoli uomini e delle piccole donne che capivano avere qualcosa dentro. Il casting che fanno Fabio e Damiano è lungo e molto attento, quindi i giovani attori” già erano pronti all’esperienza sul set. Alcuni di quelli che alla fine sono stati scelti avevano già avuto qualche esperienza di set, in particolare la ragazzina che interpretava Alessia o il ragazzino che faceva Geremia, altri no, ma nel miscuglio che si era creato tra di loro stavano tutti vivendo un’esperienza eccitante ed erano molto felici e disponibili. Fabio e Damiano hanno un approccio semplice, parlavano con i bambini fuori dal set, prima dell’inizio delle riprese, spiegando la scena: gli attori bambini non avevano mai letto la sceneggiatura e hanno visto il film finito per la prima volta solo a Berlino in Sala Grande, quindi di volta in volta Fabio e Damiano cercavano di provocare reazioni riguardo alla scena. Abbiamo avuto pochi problemi di sguardi in macchina. Per quel che mi riguarda, il mio obiettivo era quello di rendere per loro la macchina da presa a tratti come un amico invisibile, a tratti una presenza con cui dialogare, cosa non molto diversa da quello che cerco di fare con tutti gli attori, anche i più grandi. Con gli attori che interpretavano i ruoli degli adulti ovviamente il rapporto era più facile su un piano tecnico. Elio Germano è un’interprete eccezionale ma anche tutti gli altri sono stati e sono bravissimi e hanno dato grande partecipazione personale ed emotiva al film; quei ragazzini per me rappresentavano però un paesaggio visivo strepitoso, non potevo non amare la loro semplicità, la loro spontaneità, la loro bellezza. Avevo sempre con me un obiettivo macro, perché nessun’altra ottica mi avrebbe permesso di stare loro così vicino nei primi piani, così vicino da scrutare i loro pensieri e le loro emozioni.
La color correction del film quanto è durata? Quali sono stati i tuoi maggiori interventi sul colore e sull’immagine durante la post-produzione? I fratelli D’Innocenzo erano sempre presenti in sala color?
La color del film è durata poco, è stata molto semplice. Andrea Baracca detto Red, lo abbiamo citato prima, è un colorist che conosco e mi conosce benissimo, quindi quando trovo un’immagine capisce in maniera molto intuitiva da che parte voglio andare. Dopo un giorno di color Fabio e Damiano sono venuti in sala e abbiamo visto le immagini insieme, «Molto bello», hanno detto, «ma c’era qualcosa che ci emozionava di più nella copia lavoro». Io mi sono subito accorto che avevano ragione e lo stesso Red ha immediatamente capito a cosa alludevano, e mentre ancora io parlavo con Fabio e Damiano – avevamo fatto il primo rullo di cinque – ha semplicemente modificato due o tre impostazioni, detto banalmente ha abbassato i contrasti, e l’immagine si è trasformata in quello che era e in quello che è diventata definitivamente con altri piccoli interventi che la raffinavano in questa direzione, la dolcezza. Dopo una passata generale di color con Red abbiamo fatto una seconda proiezione, Fabio e Damiano hanno detto: «E’ bellissimo” e abbiamo ultimato il film. La post-produzione è stata per me molto semplice proprio perché avevamo già condiviso tantissismo prima.
I fratelli D’Innocenzo sono anche fotografi e hanno recentemente pubblicato un libro di fotografie, Farmacia Notturna. Da direttore della fotografia come pensi cambi il tuo lavoro con un regista o in questo caso con due registi che sono anche fotografi?
I fratelli D’Innocenzo hanno una profonda cultura dell’immagine. Fabio in particolare è un grande fotografo, come dimostra il libro recentemente pubblicato con Contrasto, Damiano disegna molto bene e scrive poesie, ma in realtà loro collaborano su ogni cosa che fanno. Con chi ha un grande rapporto con l’immagine visiva il lavoro che faccio sicuramente cambia, ma cambia in meglio se si parla la stessa lingua, un regista che è anche fotografo o comunque ha una grande cultura visiva punta a realizzare immagini che raccontano, non solo dialoghi che spiegano. Questi due film sono venuti così perché loro hanno cercato insieme a me di trovare l’immagine più giusta, se non ci fossero stati loro non avrei fatto una fotografia di quel tipo, magari sarebbe venuto fuori un lavoro comunque bello ma meno emozionante. La loro è una storia paradossale di soggetti mandati invano alle produzioni e molte porte chiuse in faccia; con loro sono rimasto continuamente in contatto da quando li ho conosciuti, alcuni mesi prima di iniziare le riprese de La terra dell’abbastanza, perché con Fabio e Damiano c’è uno scambio di idee molto fertile, e ogni loro sceneggiatura è accompagnata da suggestioni, immagini, testi, visioni sempre molto stimolanti. Quando si parla di tecnica con Fabio e Damiano se ne parla per capire come è nata un’immagine, perché quell’immagine attira la nostra attenzione, non perché la tecnica abbia un fine, la tecnica non ha nessun fine, è un mero strumento.
L’uscita al cinema di Favolacce era prevista per aprile, ma a causa Covid è stato distribuito in streaming l’11 maggio per poi approdare nelle sale dopo la riapertura. In questo modo il film è stato visto e discusso da molte persone, e c’è anche chi pensa che se fosse arrivato nelle sale non avrebbe avuto lo stesso successo. Tu eri d’accordo con questa scelta? Hai lavorato molto in ambito televisivo e di recente hai girato un film per Netflix: come pensi che il cinema e la serialità cambieranno, con i futuri sviluppi dei servizi di streaming?
Lavoro spesso con la televisione, e il cinema è in parte sostenuto da finanziatori che vengono dalla televisione, lo stesso Favolacce era coprodotto da RAI Cinema. Sicuramente il Covid è stato un periodo particolare per tutti noi, sia per i set che per le sale. Andare al cinema anche ora non è facile e questo evidentemente è un problema. La mia prima reazione quando ho saputo che dopo Berlino sarebbe uscito su piattaforma e non in sala è stata onestamente di delusione, perché ho sempre pensato a Favolacce come un film per grande schermo. Le reazioni che ci sono state dopo la diffusione sulle varie piattaforme sono state però estremamente positive, cosa che mi ha stupito. A questo punto penso che veramente stiamo spostando le nostre modalità di fruizione dell’audiovisivo, ma bisogna stare attenti a non spostarle troppo: l’esperienza in sala resta unica innanzitutto perché è un’esperienza di condivisione con altre persone, e mi rifiuto di pensare che debba essere catalogata come esperienza del passato; l’audio e il video vissuti in una sala cinematografica sono decisamente un’altra storia, spero che presto le sale possano riaprire al 100% lasciandoci condividere con gli altri la visione del film.
Detto questo, riflettendoci bene ho capito che se tardava ad uscire Favolacce poteva invecchiare, non dal punto di vista del racconto ma dal punto di vista del lancio pubblicitario: il film era stato presentato a Berlino, si era detto com’era e di cosa parlava, a quel punto bisognava farlo uscire. Dal risultato sia di pubblico che di critica alla fine mi sembra che l’uscita in piattaforma sia stata, in questo frangente, la giusta scelta distributiva; mi auguro però che il futuro del cinema sia ancora in sala e poi, in un secondo momento, su piattaforma. Sì, di recente ho avuto un’esperienza con un film di Netflix USA, The White Tiger di Ramin Bahrani, un’esperienza nuova non solo perché l’ho girato in India nello scorso inverno con una produzione-distribuzione con cui non mi era mai capitato di lavorare precedentemente, ma anche perché adesso ho dovuto seguire la color correction in remoto non potendo andare negli USA, ancora a causa Covid: mi: mi ritrovo a fare la color di un film che dovrebbe essere distribuito in sala da un iPad, per il momento. Forse nelle prossime settimane finalmente potrò andare a Londra per vedere in una sala il film prima di decidere che il nostro lavoro è terminato.
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