“Siberia” di Abel Ferrara. Conversazione con l’autore della fotografia Stefano Falivene

Stefano Falivene è un direttore della fotografia italiano. Dopo un’importante gavetta come focus puller e operatore di macchina per film come Kundun e Gangs of New York di Martin Scorsese, Hannibal di Ridley Scott, L’uomo delle stelle di Giuseppe Tornatore, Così ridevano di Gianni Amelio, esordisce come direttore della fotografia nei primi anni Duemila. Nel corso della sua ventennale carriera, ha curato la fotografia di film come Anche libero va bene di Kim Rossi Stuart (premio migliore fotografia al festival di Copenaghen), Machan e Still Life (Globo d'oro migliore fotografia 2014) di Uberto Pasolini, Aspromonte - La terra degli ultimi di Mimmo Calopresti, Carmel di Amos Gitai, All You Ever Wished For del premio Oscar Barry Morrow e La voce di silenzio di Michael Redford. Con il regista italo americano Abel Ferrara ha collaborato per tre film: Mary del 2005, premiato con il Gran Premio della Giuria a Venezia, Pasolini del 2014 e Siberia, presentato con grande successo all’ultima edizione del Festival di Berlino.  

Stefano Falivene sul set messicano di Siberia

Stefano Falivene sul set messicano di Siberia

Come è nata la tua collaborazione con Abel Ferrara?

La collaborazione con Abel è nata tantissimi anni fa, qualche mese prima delle riprese di Mary. Avevo saputo che era in cerca di un direttore della fotografia italiano. Casualmente la sua assistente personale era la compagna di un mio collaboratore abituale, così gli feci recapitare il mio showreel. All’epoca io avevo fatto solo due film da direttore della fotografia, fu un gesto che feci con entusiasmo, ma senza molte speranze, ero convinto che il mio reel finisse abbandonato su uno scaffale. Invece incredibilmente Abel lo guardò, gli piacquero le mie immagini e mi volle conoscere. Andai al primo incontro in preda a una fortissima emozione. Abel Ferrara per me era un autentico mito, un regista che avevo sempre amato, profondo in un modo unico, mi ero innamorato del suo lavoro vedendo Il cattivo tenente, un film crudo, duro, violento, meravigliosamente trasgressivo. Il nostro primo incontro, a dire il vero, fu un po’ surreale: per me fu molto difficile entrare in sintonia con lui, mi era difficile comprendere il suo inglese del Bronx e avevo difficoltà a resistere ai suoi silenzi, quindi per rompere l'imbarazzo azzardavo frasi sciocche. Quando uscii ero convinto che l'incontro non fosse andato affatto bene. Invece inaspettatamente poco dopo ricevetti una chiamata dall’organizzatore che mi comunicava che ero nel film. Così è iniziata una collaborazione che ancora vive. Mary ebbe molte difficoltà: una preparazione lunghissima segnata da pause dovute a mancanza di fondi, alcuni finanziatori privati sembravano sempre pronti a chiudere il budget, ma in realtà avevano continui ripensamenti. Alla fine di questo percorso tortuoso, circa sei mesi dopo il nostro primo incontro, i finanziamenti finalmente arrivarono e così nacque Mary, che poi vinse il Gran Premio della Giuria a Venezia nel 2005.

Hai un ricordo particolare della lavorazione di Mary?

Di Mary ricordo soprattutto l'emozione dei primi giorni, era l’occasione della vita, con un regista che consideravo un autore assolutamente geniale. Abel è un regista esigente, ma confida molto sul feeling che instaura con i suoi collaboratori, la difficoltà per me fu appunto costruire questo rapporto di fiducia. Girare un film con Abel è un work in progress costante; si buttano giù idee e si fanno ipotesi che poi si vagliano, si sottolineano, si cancellano. Tutti i suoi collaboratori sono, fin dalla preparazione, così coinvolti nel progetto che una volta sul set sanno bene su che direttive muoversi. Un ricordo particolare che ho delle riprese di Mary è il primo giorno di lavoro con Juliette Binoche. Giravamo la scena nel sepolcro di Cristo, Abel mi aveva chiesto di avere un unico fascio di luce che entrasse dall'imboccatura della grotta. Dopo alcune prove mi resi conto che Juliette avrebbe girato completamente in controluce. Era la prima volta che illuminavo una scena recitata da un premio Oscar, avevo paura che lasciare completamente nera la Binoche, senza dettaglio sul volto, potesse essere controproducente per la mia giovane carriera. Così chiesi ad Abel di poter intervenire per aggiustare la luce sull'attrice. Lui mi rispose: «Juliette è venuta per un cachet decisamente inferiore a quello suo abituale, le piace fare questo film quindi non credo che si dispiaccia dell’illuminazione: questa luce è esattamente quella che voglio, giriamo così». Da quel giorno ho capito che la luce deve essere a servizio del film più che di eventuali esigenze personali, mie comprese.

Hai qualche altro ricordo simile anche per Pasolini, il tuo successivo film con Ferrara?

A Pasolini ho cominciato a lavorarci circa un anno e mezzo prima che cominciassero le riprese, anche lì ci furono lunghe vicissitudini produttive. Più che un ricordo specifico, mi è rimasto un grande amore per quel film perché mi ha portato a rileggere PPP in età adulta e a comprendere la grandezza di quell’intellettuale e di quell’uomo molto più di quanto avessi colto da giovane  Nell’ambito della preparazione mi è molto piaciuto fare, assieme ad Abel, un gran numero di interviste ad amici di Pasolini, al cugino Nico Naldini, perfino a Giuseppe Pelosi, l’uomo che, almeno secondo la sentenza del tribunale, assassinò materialmente Pasolini la sera fra il 1° e il 2 novembre 1975. L’intervista a Pelosi mi lasciò un senso di fastidio, ebbi una pessima impressione di quell’uomo, persona veramente sgradevole. Tutto questo percorso di interviste mi ha fatto capire in qualche modo che ognuno possiede il suo Pasolini, che lui è stato una figura talmente immensa che ognuno di noi si è appropriato indebitamente solo di un pezzo: i cattolici magari hanno tenuto per loro il Pasolini antiabortista, a sinistra si amava la sua critica feroce al moralismo borghese e alla società dei consumi. In realtà credo che lui fosse talmente grande che non può esistere qualcosa che lo contenga, strabordava oltre ogni confine ideologico. Più che un aneddoto specifico, nel caso di Pasolini mi è rimasta la bellezza di questo percorso di riscoperta di PPP.

Stefano Falivene e Abel Ferrara sul set messicano di Siberia

Stefano Falivene e Abel Ferrara sul set messicano di Siberia

Nelle interviste recentemente rilasciate, Abel Ferrara ha detto che Siberia era un film che sognava di fare da diversi anni. Quando ti ha parlato per la prima volta del progetto? Come te lo ha presentato?

Siberia era un film che ero convinto non avremmo mai girato, un’operazione che consideravo impossibile da finanziare, soprattutto in Italia. Abel l’ha scritto insieme a uno psichiatra e a Willem Defoe. È un viaggio interiore nell’inconscio di un personaggio che si trova a metà fra Willem e Abel. Abel ha iniziato a parlarmi di Siberia circa due anni prima delle riprese, ma ovviamente c'era una difficoltà enorme per i finanziamenti. Si tentò anche un crowdfunding, ma senza esito positivo. Sembrava veramente impossibile mettere in piedi il film, solo Abel non si rassegnava. La svolta ci fu quando Michael Weber (Match Factory) si innamorò del progetto e lo sottopose a Marta Donzelli e Gregorio Paonessa, produttori della Vivo Film. In maniera forse un po’ incosciente e sicuramente rischiosa, i due hanno accettato la sfida e si sono messi al lavoro per trovare i fondi necessari. Alla fine Siberia è risultato essere il film con il maggiore budget dei tre che ho girato con Abel, fra i due milioni e mezzo e i tre milioni se non ricordo male, comunque decisamente più alto di quelli di Mary e di Pasolini.

Siberia è un viaggio sensoriale nella psiche di un uomo straniero, autoisolatosi in un luogo impervio per ritrovare se stesso. Quali sono stati i primi input visivi che Ferrara ti ha dato per la fotografia del film? Avete realizzato un moodbook insieme, o comunque una lista di riferimenti e possibili ispirazioni?

Siberia non ha mai avuto una sceneggiatura vera e propria, Abel aveva fatto un trattamento più o meno sviluppato, corredato da una serie di fotografie che vagamente proponevano un'idea visiva del film. In ogni caso le suggestioni fondamentali mi sono arrivate per lo più dalle nostre lunghe discussioni. Alla ricerca disperata di finanziamenti, Abel aveva fatto sopralluoghi in molti posti diversi, dal Massachusetts alle Alpi Piemontesi, nella speranza che le Film Commission locali potessero elargire fondi. Durante questi sopralluoghi aveva sempre scattato delle fotografie, che mi sono state molto utili per farmi un’idea piuttosto chiara di quello che cercava. Una volta deciso che avremmo girato il film in Alto Adige, abbiamo iniziato a fare sopralluoghi più mirati, soprattutto per cercare la baita. Il primo sopralluogo fu condotto con grande difficoltà: era inverno, le valli erano completamente sommerse dalla neve, noi ci muovevamo pericolosamente con i gatti delle nevi e con lunghi e faticosi tratti a piedi. Fortunatamente però riuscimmo ad identificare la baita che sarebbe diventata la location principale del film. Temevamo tutti che le condizioni ambientali avrebbero potuto essere un problema per le riprese. Molte delle risorse furono spese per pianificare lo shooting in funzione di questo. Paradossalmente invece le settimane che precedettero la data di inizio furono segnate da temperature miti e bel tempo che avevano diminuito molto la neve in quel paesaggio autunnale. Abbiamo temuto fortemente che potesse saltare tutto. A due giorni dal primo ciak, però, nevicò copiosamente, permettendoci di girare quelle meravigliose distese di neve che si vedono nel film.  In fase di preparazione Renate Schmaderer, la scenografa tedesca, ha mandato tantissimo materiale visivo di luoghi siberiani, possibili facce, vestiti, utensili, insomma qualsiasi cosa potesse servire a capire la direzione che Abel volesse seguire. Tutti questi materiali venivano caricati su Dropbox e ogni volta che trovava qualche spunto interessante Abel me ne faceva partecipe. Questo work in progress a distanza è durato più di un anno: continuamente nuovi input, annullavano i precedenti, salvo ritornare indietro o trovare sintesi tra le diverse idee. Malgrado ciò, le soluzioni definitive sono nate in gran parte sul set, durante le riprese. Le emozioni suscitate dai luoghi reali e la partecipazione di Willem Defoe nell’impostazione delle scene sono state uno stimolo creativo fantastico.

Willem Dafoe e Stefano Falivene sul set di Siberia in Trentino Alto Adige

Willem Dafoe e Stefano Falivene sul set di Siberia in Trentino Alto Adige

Alla fine dove è stato effettivamente girato Siberia? Oltre all'alto Adige, quali altri luoghi avete visitato durante i sopralluoghi?

In Alto Adige, in una baita a 2700 metri di altezza, e in alcune altre location sempre in Val Pusteria dove abbiamo ricreato l'ambientazione del viaggio in slitta e del campo di concentramento. Dopo, per accordi di co-produzione, siamo andati in Germania in teatro di posa, dove abbiamo girato le scene degli interni americani e i contributi con il green screen di alcune scene con VFX. Ci siamo poi spostati nel deserto messicano in questo posto surreale al confine con gli USA, la mia stanza d’albergo si affacciava sul maledetto muro di Trump. Durante la preparazione i sopralluoghi li abbiamo fatti quasi esclusivamente in Alto Adige, dove siamo tornati più volte sia in inverno che in estate, ed è stata l'unica location preparata nei minimi dettagli. In Germania invece siamo arrivati solo una settimana prima di cominciare effettivamente le riprese in Italia, in modo da vedere i teatri e pianificare gli spazi in funzione dei bozzetti della scenografa, permettendo al reparto costruzioni di approntare in tempo quanto necessario. Le location messicane erano invece state scelte in fotografia. Abel era ovviamente in ansia, così siamo partiti una settimana prima del resto della troupe, proprio per constatare la validità o meno delle scelte fatte esclusivamente su foto.

Giusto per dare qualche coordinata cronologica sulle tempistiche delle riprese, quando c’è stato il primo ciak e quando si sono concluse le riprese?

Le riprese le abbiamo iniziate ad inizio aprile 2019, le abbiamo un po' posticipate perché Willem doveva presenziare alla cerimonia degli Oscar dove era candidato per At Eternity’s Gate, il film su Van Gogh. Alla fine fra riprese, preparazione nei vari paesi e viaggi, Siberia ha preso complessivamente sette settimane di lavorazione, ma di riprese effettive solo 24 giorni.

Con quale macchina da presa hai girato Siberia? Qual era il set di ottiche?

Ho girato come sempre con macchine da presa della Arri, un’Alexa XT Studio e un’Alexa Mini; in particolare l’Alexa Mini era costantemente sul Ronin 2, usato sia come testata remotata che con l'Easy-rig in sostituzione dello steadycam. Per questo film ho preferito Ronin-Easy-rig alla steadycam perché, malgrado stabilizzi notevolmente i movimenti, la macchina da presa conserva un leggero respiro, più simile alla macchina a mano. Ho scelto per il film ottiche con cui lavoro abitualmente già da un po’ di anni, le Leica Summicron, perché sono lenti che mi restituiscono un po’ di quella morbidezza propria della pellicola. Le macchine digitali hanno una durezza nei contorni che non amo molto, cerco sempre di trovare soluzioni che mi garantiscano un’immagine meno cruda. Le Summicron sono una evoluzione diretta delle fantastiche Laica fotografiche, con una straordinaria capacità di assorbimento delle alte luci e con una eccezionale nitidezza unita ad una piacevole morbidezza dei toni che me le fa preferire ad altre.

Una delle prime scene del film mostra Clint, il personaggio di Willem Defoe, immerso in uno splendido chiaroscuro mentre serve i clienti al bar. Quello del bar era un set ricostruito in studio o era la location reale? Di quali luci ti sei servito per illuminare la scena?

Siberia

Siberia

Le scene del bar sono girate nella baita, che era stata totalmente riadattata in fase di preparazione. Avevamo apportato modifiche tali da garantirci la massima agilità di ripresa, avevamo fatto in modo che il set assumesse una serie di caratteristiche simili ad un teatro di posa. Abel voleva una libertà totale sia per gli attori, sia per la macchina da presa. La soluzione migliore era quella di avere le luci fuori dal set. Con la scenografa abbiamo scelto la tipologia e la posizione delle luci di scena e per il resto ho approntato un impianto luci totalmente esterno alla baita, preoccupandomi di far spostare porte o creare nuove finestre in modo da poter modellare l'ambiente con i giusti fasci di luce.

Una delle scene visivamente più belle del film è la scena d’amore fra Clint e una ragazza incinta, alla luce del fuoco. I giochi di dissolvenze erano semplici movimenti di fuoco? Per girare quella scena bastava la luce diegetica proveniente dal caminetto oppure hai dovuto aggiungere luce artificiale? In generale, come ti collochi nel dibattito contemporaneo sulla luce naturale?

Siberia

Siberia

In verità mi sembra un dibattito sterile, la luce, naturale o artificiale che sia, deve servire a creare le giuste immagini per il film. Il nostro lavoro consiste proprio nella capacità di manipolare e modellare la luce. La straordinaria sensibilità delle macchine da presa digitali dà la possibilità di impressionare immagini con una ridottissima quantità di luce e questo porta alcuni a pensare che sia possibile sfruttare totalmente la luce preesistente nelle location, senza la necessità di interventi ulteriori. Impressionare un'immagine, però, non significa propriamente fotografarla. Intervenire con il proprio apporto creativo diventa necessario a creare nuove ipotesi visive, altrimenti si corre il rischio di una sorta di omologazione. Inoltre, per raggiungere un’alta qualità di visione è necessario poter controllare totalmente contrasti e tonalità della scena, ed è proprio in questa ottica che diventa fondamentale l'apporto anche tecnico del direttore della fotografia. La fantastica tecnologia di post produzione garantisce enormi possibilità di manipolazione digitale, però credo che il suo apporto sia essenziale come completamento del lavoro svolto sul set e non certamente come sua sostituzione, pegno la produzione di immagini grigie, piatte, senza profondità e soprattutto un appiattimento della ricerca visiva. Per tornare a Siberia, la scena è completamente illuminata, ricostruita in termini visivi partendo dall’assunto che solo il camino desse luce all'ambiente. Durante le riprese abbiamo deciso di lasciare la messa a fuoco su una determinata distanza, in modo che i movimenti degli attori e della macchina da presa, creassero sui volti e sui corpi un gioco continuo tra definito e indefinito. Questo, in aggiunta alle continue dissolvenze in montaggio, ha creato un effetto credo insolito e accattivante.

 Una delle scene più forti del film è una sorta di visione orrorifica di Clint di un campo di concentramento dove alcune SS compiono un’esecuzione di massa. Ferrara ti ha detto da cosa gli è venuta l’ispirazione per quella scena? Come avete lavorato poi sul set per trovare il giusto tocco visivo?

Come tutto il film questa scena è strettamente collegata alle paure e agli incubi di Clint. Ho sempre avuto un po' di difficoltà ad inserirla nella storia, ma quando ci si inoltra nell'inconscio è inutile usare strumenti del reale. Per questa scena ho deciso di usare insieme proiettori con caratteristiche cromatiche differenti. Ho illuminato la piana dall'alto con due gru usando luce molto fredda, differenziando la zona del falò con tonalità molto calde. I movimenti della macchina e degli attori favorivano così un sovrapporsi continuo di tonalità all'interno delle inquadrature.

In una delle scene madre del film, Clint immagina di entrare in una grotta sotterranea che contiene un piccolo laghetto da cui letteralmente “emerge” un sole arancione che sprizza luce. Come ti sei coordinato con il team degli effetti speciali per quella scena?

Siberia

Siberia

Abbiamo preparato il film convinti che avremmo fatto largo uso degli effetti digitali, ma Abel non li ama affatto, per cui ha spinto molto perché io trovassi soluzioni più “artigianali” che riducessero al minimo i VFX. In particolare nella scena del sole che sorge c’è un piccolo intervento di effetti digitali ma la base l’abbiamo costruita sul set: banalmente abbiamo usato una volgarissima lampada Ikea dalla forma sferica, fissata su di pistoncino meccanico che la faceva emergere dall’acqua, la mia squadra elettricisti controllava l'impianto luci attraverso un dimmer e cambiava l'atmosfera della grotta in relazione al sorgere del sole. In post-produzione con i VFX abbiamo reso quella sfera più grande e luminosa, sfumato i suoi contorni, ma sostanzialmente l'effetto lo abbiamo costruito sul set.

Subito dopo l’apparizione del sole Clint ha un breve colloquio con una sorta di suo Doppelgänger, che parla col volto coperto da una maschera mostrandosi specchiato nella pozza d’acqua, interpretato ovviamente sempre da Defoe. Inizialmente nell’alternanza di campo e controcampo il Clint “reale” viene inquadrato direttamente e il suo doppio è riflesso nell’acqua, poi anche il primo Clint viene inquadrato specchiato nella pozza d’acqua, peraltro con una particolare composizione dell’inquadratura che fa apparire “in orizzontale” il suo volto. Come avete realizzato quella scena?

Anche quel dialogo in un primo tempo sembrava dovesse essere realizzato completamente con i VFX. Invece anche qui abbiamo finito per trovare una soluzione differente. Fondamentalmente tutta la scena è costruita con delle semplicissime dissolvenze. Durante le riprese abbiamo previsto le porzioni delle inquadrature da lasciare libere per poter inserire il secondo primo piano in dissolvenza, ovviamente anche la luce è stata costruita in modo tale che la sovrapposizione dei quadri non andasse ad influire negativamente sulla definizione dei volti. L'inquadratura in verticale, invece l’abbiamo semplicemente fatta ruotando di 90° l’asse della macchina. La scena in fondo è stata costruita con strumenti semplicissimi, ma il lavoro fatto in ripresa è stato fondamentale per la sua riuscita.

In questo film hai regalato a Willem Defoe alcuni dei suoi primi piani visivamente più belli e intensi. È il tuo terzo film con lui, dopo Pasolini e Le avventure acquatiche di Steve Zissou di Wes Anderson, dove eri direttore della fotografia di seconda unità. Come si svolge il tuo rapporto con lui?

Willem Dafoe in Siberia

Willem Dafoe in Siberia

Ne Le avventure acquatiche di Steve Zissou Willem Defoe era uno degli attori principali, io facevo appunto il direttore della fotografia della seconda unità con la regia di Roman Coppola, figlio di Francis, sostanzialmente abbiamo girato solo scene in mare, su un set distante da quello della main unit. Willem l'ho incrociato qualche volta, ma non si può dire che l'abbia conosciuto. Ho iniziato veramente a conoscerlo sul set di Pasolini. Lì ho incontrato ovviamente un grandissimo attore, ma soprattutto una persona straordinaria, disponibile, collaborativa, che anche nei momenti di inevitabile tensione riesce sempre a mantenere una calma invidiabile. Girando Pasolini però il nostro era rimasto un rapporto strettamente professionale. Facendo Siberia invece, ho avuto modo di conoscerlo meglio, abbiamo trascorso molto più tempo insieme, quando si è in trasferta capita molto più frequentemente di condividere momenti di socialità al di fuori del set. Casualmente abbiamo scoperto di vivere nello stesso quartiere a Roma, ci incrociamo spesso, ogni tanto ci capita di incontrarci banalmente al supermercato. 

Quanto è durata e dove si è svolta la post-produzione del film? Quali sono stati i principali interventi sull’immagine che tu ed Abel Ferrara avete chiesto al colorist?

La post-produzione è durata tanto per diversi motivi, non ultima la difficoltà narrativa del film, in fondo Siberia è un film senza storia. Dopo circa due mesi dalla fine delle riprese Abel ha invitato noi collaboratori, alcuni suoi colleghi italiani e amici stimati, a vedere un primo montaggio. Quella versione era di circa due ore e quaranta. Le reazioni furono molto contrastanti, ma fu comunque una proiezione molto proficua. Abel ama molto avere giudizi e impressioni in corso d'opera, li usa come stimolo creativo. Dopo quella proiezione ce ne sono state altre che hanno aiutato lui e il montatore Leonardo Bianchi ad arrivare alla versione finale presentata a Berlino. In fase di post produzione abbiamo dovuto affrontare molte problematiche legate alla realizzazione dei VFX. Abel, come ho detto, detesta sentire il “falso” nel film, abbiamo impiegato molto tempo per riuscire a realizzare effetti che lui trovasse soddisfacenti. La color correction non è durata molto, circa due settimane. Lavoro molto sul set con il mio DIT Alfredo Lembo per realizzare quelle che tecnicamente si chiamano CDL, ovvero parametri di correzione colore che invio al mio colorist in modo da avere una base di partenza piuttosto definita in fase di correzione finale del film. Questo modo di procedere è molto importante per me, oltre a velocizzare enormemente la lavorazione in laboratorio, mi garantisce soprattutto di ritrovare tracce di quelle emozioni avvertite sul set che inevitabilmente condizionano il mio lavoro durante le riprese.

Qual è il ricordo più bello che ti porti dietro dalla lavorazione di Siberia? 

Sicuramente il ricordo più bello sono i luoghi, quelli fantastici del Trentino e del deserto messicano. Spero che le immagini di quei paesaggi fotografati nel film possano restituire allo spettatore le emozioni che hanno dato a noi.


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