In occasione del lancio di Festa di Franco Piavoli sulla piattaforma per il cinema indipendente Indiecinema, della quale Artdigiland è partner, pubblichiamo un estratto del nostro volume in uscita sul Maestro. Il libro, di Filippo Schillaci, sarà presentato nella seconda metà di aprile presso la Casa del Cinema di Roma (data da definire), in un evento in collaborazione con CSC - Cineteca Nazionale che ci permetterà di rivedere insieme Il pianeta azzurro. In fondo al testo un’offerta per chi vorrà preacquistare il libro.
Con il mediometraggio Festa torna il Piavoli cantore della comunità che aveva mosso i suoi primi passi nel 1962 con Domenica sera, si era pienamente realizzato un trentennio dopo con Voci nel tempo e adesso, dopo ancora un ventennio, porta il tema al giorno d’oggi. Un confronto fra le tre opere, che coprono un arco temporale di oltre mezzo secolo, potrebbe suggerire un approccio di sapore antropologico, ma anche uno più strettamente cinematografico, quale sarà il mio, non potrà fare a meno di sfociare in riflessioni di natura, sia pur sommariamente, sociale.
È stato già notato da altri come alcune opere brevi di Piavoli abbiano una struttura tripartita adagio-andante-adagio. Questa struttura è presente anche in Festa: il risveglio al primo mattino, il crescendo che raggiunge l’apice al centro del film con la scena della giostra, e poi un progressivo ritorno alla quiete che approda, nella notte fonda, alla conclusiva inquadratura lunare.
Se una cosa, col trascorrere dei decenni, non è mutata nel cinema di Piavoli è il fatto che la sua continua ad essere una comunità fatta di individui; da ciò, giova ripeterlo, il frequentissimo ricorso a primi o primissimi piani che caratterizza fin dagli inizi il suo modo di rappresentare l’uomo e che Festa riconferma. Detto questo però, bisogna anche parlare delle diversità. Fino a Frammenti (altro film centrato sul vivere dell’uomo) la poetica figurativa “antropica” non era molto diversa da quella di Voci nel tempo e di quel suo embrionale bozzetto che era Domenica sera; al contrario Festa è un film visivamente molto diverso dalle due opere sorelle che lo precedono. Penso soprattutto ai cromatismi che qui si fanno più intensi, il che non sarebbe una novità perché il colore ha già giocato un ruolo rilevante in film come Il pianeta azzurro e Nostos, ma lì si trattava dei colori connaturati alla Terra, mentre qui la saturazione cromatica è, per la prima volta, quella degli ambienti antropici contemporanei, spesso dai colori innaturali, artificiali. I balli di Domenica sera e Voci nel tempo erano illuminati dalla luce del sole, quelli di Festa si svolgono sotto riflettori da discoteca, e questo è un mutamento non privo di senso.
Piavoli racconta che l’idea del film gli venne un giorno in cui si trovò ad assistere a una messa del mattino durante la quale il prete cominciò a dire alcune cose un po’ diverse dal solito. Decise di filmarlo e questa ripresa improvvisata fu poi il seme da cui nacque il film. Essa è anche l’unico momento in cui la parola interviene significativamente con funzione semantica, il che contribuisce certamente a darle una particolare rilevanza. Il tema toccato dal prete è quello del desiderio di possesso dell’uomo e della necessità di superarlo: «Se vogliamo qualcosa di più grande», dice, «dobbiamo lasciare qualcosa di più piccolo; l’uomo che non vuole rinunciare alle cose non cresce mai. Noi cresciamo quando lasciamo qualcosa. Se non lasciamo non nasciamo neanche mai». È la filosofia del non attaccamento, del distacco dal samsara che è tipica di tanto pensiero orientale e in cui Piavoli certamente si riconosce.
Dopo il «via alle danze» che conclude le riflessioni del prete, Piavoli si concentra ancora una volta sulla messa in scena delle età dell’uomo dedicando la prima metà in prevalenza agli anziani per poi spostare l’attenzione sui giovani. Il modo di rappresentare i primi non presenta novità; il modo di rappresentare i secondi sì.
In mezzo abbiamo il momento più aereo del film, quello dei giocolieri e degli acrobati che, immuni alla forza di gravità, danzano nel vuoto, momento che ci fa respirare per un istante atmosfere affini a quelle di Lo zebù e la stella; per poi sfociare nell’apice di dinamismo che il film tocca, come dicevo, nel giungere al suo centro, ovvero nel vorticoso interludio dell’autoscontro e soprattutto della giostra in cui la tonalità dionisiaca subisce un’impennata in un crescendo di velocità che ben presto trasforma ogni cosa in un astratto movimento di luci, viste prima dall’esterno, poi in una turbinante soggettiva interna.
Ma fra giovani e anziani è anche qui ricorrente il tema degli esclusi, una lunga nota tenuta che, nel mutamento che la circonda, attraversa sempre uguale il corso dei decenni: l’uomo che rimane solo in casa, quello sulla sedia a rotelle, la donna che prega accoratamente. Perché ogni comunità, in ogni tempo, ha i suoi paria e Piavoli ci tiene ancora una volta a ricordarlo.
E adesso confrontiamo i diversi momenti storici che i tre film “antropologici” di Piavoli ci mostrano. Una generazione separa l’uno dall’altro, tanto che possiamo vedere i giovani che appaiono in ciascuno come i genitori di quelli del successivo.
Partiamo dalla scena del ballo di Domenica sera. Una cosa che non sfugge all’attenzione è che quasi nessuno sorride; i giovani che vi partecipano sono quelli nati nei bui anni del secondo dopoguerra, i giovani che non hanno ancora conosciuto il ’68, l’utopia della liberazione sociale e sessuale. Essi recitano il loro ruolo in un contesto predeterminato, che non hanno ancora imparato a mettere in discussione e che si limitano a riprodurre.
I giovani di Voci nel tempo appartengono a un momento storico in cui l’eco di quelle utopie, benché ridotta appunto a un’eco dal sopravvenuto filtro del “riflusso”, non si è ancora estinta. E c’è dunque in loro ancora uno slancio vitale che trova l’apice, durante la scena del ballo sudamericano, nelle evoluzioni esplicitamente erotiche della ragazza bionda e del suo partner.
Quanto ai giovani di Festa, benché dei sorrisi sui loro volti ci siano, il gioioso slancio vitale dei loro padri di un ventennio prima appare ormai appannato, tanto che Piavoli, nel tradurlo in forma filmica, sembra quasi volerlo sublimare con la macchina da presa che si immerge nel vorticare di luci della giostra come la ragazza bionda di Voci nel tempo si immergeva nel ballo. Qui però tutto avviene secondo le modalità impersonali dell’arte astratta; lì erano il suo sorriso gioioso e le movenze del suo corpo a esprimere vitalità, qui un immateriale inseguirsi di strutture luminose. Suggestive, ma non vive. Esteticamente eccelse, ma di un’arte che, in quanto astratta, non è specchio immediato della vita bensì rappresentazione mediata di essa.
Sarebbe tuttavia esagerato affermare che i giovani di Festa siano tornati alla stessa rigidità dei loro predecessori di mezzo secolo prima; la sensualità vitale che hanno scoperto i loro padri non li ha abbandonati e la manifestano anch’essi nei movimenti del ballo. Ma il mondo che li circonda ha qualcosa di falso, come i colori troppo saturi che li illuminano, e non si può fare a meno di pensare che essi sono, loro malgrado, i giovani di una nuova Restaurazione che vuole nell’uomo un automa sociale incapace di slanci vitali; e che quella sensualità vitale che essi pure manifestano, rimarrà irrealizzata e sarà presto incanalata in una direzione non viva.
E alla fine ci si accorge infatti che manca una cosa: la scena d’amore fra l’erba, cui Piavoli ci aveva abituati fin dai tempi di Domenica sera. Perché già lì, facendosi strada fra le maglie del puritanesimo che ancora imperversava agli albori degli anni ’60 (ne mancavano ancora sei al già citato ’68), una tale scena c’era a concludere la giornata. Qui no. È vero che abbiamo l’immagine di due giovani distesi sull’erba a guardare la Luna nel cielo notturno, ed è vero che lui rivolge a lei uno sguardo carico di aspettativa, ma lei continua a guardare la Luna. Sono passati appena quattro anni da Frammenti, ma questi giovani appaiono diversi da quelli di Bobbio, che avevano ancora la spinta ad amoreggiare e sapevano immergersi nudi nel mondo vivente sentendosi parte di esso. A ben pensarci, con la sola eccezione di un bacio subito prima della scena lunare, non ci sono effusioni fra loro, il loro divertirsi è, sì, vitalizzato da momenti di sensualità, ma nel mondo dominato da manufatti artificiali in cui vivono, ogni più vitale espressione della vita è sublimata da surrogati tecnologici, come il frenetico videogioco che vediamo all’inizio.
Non si può tuttavia dire che Festa sia un film pessimista. Piavoli non prende posizione, non giudica. Mostra il nuovo mondo dei giovani per come è, e con la dolcezza di sempre. Ma allo stesso tempo ci parla non meno intensamente di vitalità, di desiderio di appartenere alla vita nell’immagine di una donna anziana che, infischiandosene della tarda età, delle rughe e di tutto il resto, si lancia in un ballo acrobatico, subito prima della notte, che sembra sentire lontana da sé non meno dei bambini di Lo zebù e la stella.