Tragedia per sottrazione. Conversazione con Andrea Pallaoro

Andrea Pallaoro, nato a Trento nel 1982, vive stabilmente in America da vent’anni. Formatosi al California Institute of Arts, nel 2013 ha presentato la sua opera prima, il dramma rurale Medeas, alla sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia. Quattro anni dopo tornava a Venezia con Hannah, una coproduzione europea che ha fruttato alla sua protagonista Charlotte Rampling la Coppa Volpi. È attualmente in preparazione il suo terzo film, Monica, su una donna transessuale che va a fare visita alla madre morente dopo trentacinque anni di assenza. Tra i registi più interessanti in circolazione, Pallaoro sembra uno dei pochi che ancora si sforzi di portare avanti una riflessione teorica e artistica sul cinema, sulla sua sintassi e sui modi originali ed efficaci di cambiarne le regole. Medeas e Hannah sono esperienze emotive uniche, calibratissime, in cui la tragedia che i protagonisti affrontano si "spalma" lungo tutto il corpo dell'opera attraverso una narrazione ipnotica e palpitante.

Quali sono state le tue prime esperienze con la regia cinematografica? 

La mia prima esperienza con la regia risale a un cortometraggio che girai nel 2008 intitolato Wunderkammer e che è stata la mia tesi di Master. Quel film fece il giro del mondo, programmato in più di 50 festival cinematografici internazionali, vincendo diversi riconoscimenti. E’ grazie a questo cortometraggio che ho incontrato molti dei miei attuali collaboratori.

Tanto Medeas quanto Hannah trasmettono una concezione del cinema organica, fedelmente rispettata in ogni inquadratura. I tuoi film, all’insegna di un sapiente minimalismo visivo e sonoro, sembrano esplorare varianti di un medesimo malessere umano, che emerge lentamente mentre il film procede. Ci puoi esplicitare la tua concezione del cinema?

Penso che la mia idea di cinema sia radicata nel mio bisogno e ricerca di catarsi. È attraverso questo che cerco di instaurare un rapporto con il singolo spettatore, perché è attraverso la catarsi che per me il cinema funziona da specchio, dandoci l’opportunità di conoscerci e capirci meglio. Perseguo dunque un tipo di cinema che non cerca di imporre letture, soluzioni o giudizi. È fondamentale per me che un film non giudichi mai i suoi personaggi e che cerchi di manipolare lo spettatore il meno possibile, senza suggerirgli cosa provare o pensare, lasciando ad ognuno la libertà di arrivare a conclusioni autonome. L’esplorazione del rapporto che l’individuo ha con il mondo che lo circonda, e più precisamente dei confini tra l’identità del singolo e della società sono una tematica centrale alla mia ricerca artistica, come, di conseguenza, i temi dell’alienazione, dell’abbandono, del bisogno di comunicare e dell’incapacità di farlo. 

Medeas

Medeas

I tuoi film mi hanno ricordato, per lo stile di regia, il cinema di Ari Kaurismaki. In Hannah hai chiamato nel ruolo del marito della protagonista André Wilms, apparso in diversi film del regista finlandese. Kaurismaki e/o altri registi ti fanno da riferimento?

Sono onorato di venire rapportato a Kaurismaki, perché il suo cinema negli anni mi ha toccato profondamente. Sono tanti i registi che forniscono profonde fonti di ispirazione. Michelangelo Antonioni, Rainer Werner Fassbinder, John Cassavetes, Bela Tarr, Lucrecia Martel, Luis Buñuel, Tsai Ming Liang, Carlos Reygadas, Chantal Akerman, Andrea Arnold sono solo alcuni degli autori che sono stati e che continuano a essere importanti punti di riferimento per me. Per Hannah ad esempio, il mio dialogo con i miei collaboratori ha fatto riferimento a tre opere cinematografiche in particolare: Jeanne Dielman, 23 Commerce Quay, 1080 Brussels di Chantal Akerman, La mujer sin cabeza di Lucrezia Martel, e Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni.  

Nelle note di regia di Medeas scrivi: «Tendo prevalentemente a stimolare la profondità istintiva dell’attore piuttosto che il suo intelletto. Sono attratto da una performance viscerale e impulsiva per il suo potenziale di sovvertire le norme più rigide della morale sociale». Quali background avevano gli interpreti di Medeas e come hai impostato il lavoro con loro?

Gli interpreti di Medeas venivano tutti da background diversi, con stili ed esigenze diverse. I bambini non avevano esperienze con la recitazione, Brian O’Byrne veniva per lo più dal teatro e Catalina Sandino Moreno da un background di improvvisazione. Ho cercato di usare le loro diversità per creare un ambiente basato sul rispetto e la fiducia reciproca, nel quale gli attori potessero interagire gli uni con gli altri eliminando il più possibile il bisogno, il disagio, e la paura di doversi “auto-valutare”. È in questi momenti, in cui l’attore si abbandona al personaggio, che riconosco le interpretazioni più illuminanti e sorprendenti. Perché questo accada, penso che debba esserci totale fiducia tra attore e regista.

Catalina Sandino Moreno in Medeas

Catalina Sandino Moreno in Medeas

In Medeas - sono tue parole - «molte inquadrature elaborano lo spazio grazie all'uso di specchi, finestre, corridoi, puntando allo stesso obiettivo: rimandare costantemente alla dialettica tra interno ed esterno, tra psicologico e fisico». Hannah invece «indaga il confine delicato tra l’identità del singolo, le relazioni umane e le pressioni sociali». Come sei arrivato a questa originale sintesi tra introspezione del personaggio e analisi del mondo che lo circonda?

Trovo che il cinema abbia la capacità di illuminare verità altrimenti non immediatamente accessibili e di regalarci chiavi di lettura sulla condizione umana attraverso immagini che decodificano “l’esterno” e “il fisico” per rivelare il mondo interiore e il pensiero dei personaggi. Sono queste le immagini che aspiro a creare con i miei collaboratori.

Come funziona, per te, il processo di ideazione e creazione? La scrittura esige molta preparazione, oppure è un processo che sgorga fluido e immediato?

La fase di scrittura per me è un processo che cambia e si evolve a seconda del progetto. A volte questo processo è dettato e motivato dalla ricerca, altre volte da un’espressione poetica e/o personale. Detto questo il mio punto di partenza è quasi sempre l’immagine, non la storia: le mie sceneggiature tendono a nascere come una collezione di immagini la cui storia emerge dalla loro unione. In questo modo è l’osservazione dei personaggi nella mia immaginazione e il mio desiderio di vedere certe immagini realizzarsi che mi conducono alla narrazione.  

Medeas

Medeas

In Medeas c’è un’alternanza di primi piani e campi lunghi che esplorano il magnifico paesaggio della provincia americana in cui sono ambientate le vicende del film. In Hannah lo sguardo è concentrato sulla protagonista mentre, in una città indefinita e impersonale, perde il contatto con la realtà. Quali sono le riflessioni che tu e il tuo direttore della fotografia Chayse Irvin fate prima di impostare l’inquadratura?

Con Chayse Irvin le scelte sono motivate dal bisogno di articolare nel modo più eloquente possibile lo stato interiore dei personaggi, di trovare quel linguaggio cinematografico capace di rivelare il pensiero del personaggio. Per esempio in Hannah abbiamo cercato di astrarre, e privilegiare il disagio interiore di Hannah, la disperazione della sua progressiva perdita di identità, usando inquadrature e composizioni visive che accentuassero il suo paralizzante disorientamento rispetto al mondo circostante. 

In che modo è stato possibile avere Charlotte Rampling come protagonista di Hannah e come hai preparato il ruolo assieme a lei?

Hannah è stato scritto per Charlotte fin dal primissimo momento. Ricordo che vidi Charlotte per la prima volta sul grande schermo ne La caduta degli dei di Visconti. Avrò avuto non più di quattordici o quindici anni e fu un colpo di fulmine. Da quel momento iniziai a seguirla in tutte le sue interpretazioni e a sognare di poter un giorno collaborare con lei. Non avrei mai immaginato che questo sogno si sarebbe avverato poco più di quindici anni dopo. Una volta completato il primo draft di Hannah, le inviai la sceneggiatura assieme a una copia di Medeas. Con mia grande felicità rispose subito positivamente. Andai a incontrarla a Parigi e fu in quell’occasione che lei accettò. Ricorderò sempre quel nostro primo incontro. Fin dal primo momento era chiaro che artisticamente eravamo motivati da impulsi ed obiettivi simili. Quell’incontro segnò l’inizio di un’amicizia e una collaborazione artistica estremamente importanti per me. Creare e collaborare con Charlotte è stata un’esperienza straordinaria, profondamente significativa e di grandissimo insegnamento. Charlotte è un’artista sempre alla ricerca della verità del personaggio e della storia. È un attrice che non recita ma diventa, che è il personaggio. Il suo rigore e la sua integrità non hanno mai smesso di sorprendermi e stimolarmi. È stato un grandissimo onore, oltre che un immenso piacere, dare vita al personaggio di Hannah con lei.

Charlotte Rampling in Hannah

Charlotte Rampling in Hannah

Nei tuoi film la "tragedia" non viene mai mostrata e, nel caso di Hannah, non viene neanche spiegata chiaramente. Questa scelta mi ricorda indirettamente il cinema di Kore'eda, ma porta a un risultato opposto: nel caso del regista giapponese serve a evidenziare la ricomposizione all’interno dell’intimità della famiglia (in un senso ampio del termine), nei tuoi due film invece l’evento delittuoso non è altro che un catalizzatore o comunque una cartina tornasole del disagio esistenziale dei protagonisti; scoprirne le esatte dinamiche è indifferente se non controproducente ai fini della comprensione emotiva del film. La tragedia di partenza o di arrivo, dai contorni indefiniti, si espande così su tutto il corpo del film invece di restare delimitata all’inizio o alla fine. Puoi spiegare l’idea alla base di questa scelta?

Acuta osservazione. Penso che questo sia dato dal fatto che le mie scelte siano motivate principalmente dal mio interesse e desiderio di esplorare e penetrare lo stato d’animo del personaggio, il suo stato emotivo e psicologico senza distrazioni narrative. Trovo che spesso il bisogno di dare risposte e di raccontare il susseguirsi di eventi diventi un ostacolo che, in un qualche modo, limita e riduce la possibilità di catarsi e introspezione, l'opportunità di riconoscersi nel personaggio individualmente e, in tal modo, forse anche di capire se stessi e conoscersi più approfonditamente. Come hai avuto modo di notare, sia in Medeas che in Hannah la tragedia si dilaga inesorabilmente a macchia d’olio per tutta la durata del film negli universi emotivi interiori dei personaggi, più precisamente nella loro incapacità di comunicare e di cambiare il loro destino. In particolare, in Hannah, la catarsi di rivela nell'opportunità dello spettatore di identificarsi nella condizione di una donna che non si riconosce più, che cerca continuamente di rialzarsi senza però riuscirci.

Charlotte Rampling in Hannah

Charlotte Rampling in Hannah

Presentando Hannah hai espresso l’intenzione di costruire una trilogia di tre personaggi femminili, anticipando anche alcuni dettagli del secondo film, Monica. A che punto è il processo di produzione di Monica?

Con Monica stiamo ancora nella fase di raccolta fondi. Speriamo di iniziare la produzione quest’estate. Abbiamo un cast di attori e collaboratori in cui credo moltissimo e non vedo l’ora di dare vita a questi personaggi e a questa storia con loro.