Fabio Zamarion (Roma, 1961) è un direttore della fotografia italiano. Diplomatosi al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 1985 sotto la guida di Carlo Di Palma e Beppe Lanci, affianca a lungo Vittorio Storaro e Mauro Marchetti come assistente operatore e operatore di macchina, girando fra gli altri anche Piccolo Buddha di Bertolucci. Dopo alcune esperienze televisive come direttore della fotografia, esordisce sul grande schermo nel 2000 con Occidente di Corso Salani e nel 2003 riceve la sua prima candidatura al David di Donatello con Respiro. Nel 2006 il thriller La sconosciuta scandisce l'inizio della collaborazione di Zamarion con Giuseppe Tornatore, e gli frutta la vittoria al David e una candidatura agli European Film Award; la collaborazione fra i due viene continua L'ultimo Gattopardo - Ritratto di Goffredo Lombardo (2010), La migliore offerta (2013), con Geoffrey Rush, e La corrispondenza (2016), con Jeremy Irons e Olga Kurylenko. Altri film di cui Zamarion ha firmato la fotografia sono stati La signorina Effe di Wilma Labate, Evilenko e La macchinazione di David Grieco, Un giorno perfetto di Ferzan Özpetek, Questione di cuore di Francesca Archibugi e Tolo Tolo di Checco Zalone.
Quale è stata la tua formazione e chi sono stati i tuoi maestri? Quali film hanno preceduto l'incontro con Tornatore?
La mia formazione si è svolta al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dopo aver preso il diploma in un liceo scientifico. Per me l’“illuminazione” è stata vedere Novecento di Bernardo Bertolucci all’età di 16 anni, con la fotografia di Vittorio Storaro: l’emozione che mi hanno trasmesso le immagini di quel film mi ha letteralmente cambiato la vita. In quel momento ero un calciatore e giocavo nelle giovanili della Lazio, da allora invece ho deciso di dedicarmi all’immagine e alla luce. Inizialmente ho fatto per un po’ il fotografo, occupandomi prevalentemente di eventi sportivi, poi ho capito che la mia vera “strada”, per così dire, era quella della direzione della fotografia. Ho frequentato per tre anni il Centro Sperimentale, poi ho fatto l’apprendistato tipico per ogni aspirante direttore della fotografia, alternandomi nelle varie mansioni intorno alla macchina da presa. La mia fortuna è stata di iniziare a lavorare subito e proprio al fianco di Vittorio Storaro in progetti visivamente ambiziosi realizzati in co-produzioni internazionali, come quelli di Bertolucci. Lavorando al fianco di Vittorio ho imparato molto, sia a livello teorico sia a livello pratico. Oltre a lui ho anche altri riferimenti fotografici, ma lui è il mio mentore e il mio punto di riferimento. Prima di conoscere Giuseppe Tornatore avevo girato dei film abbastanza interessanti per l’età che avevo, come Respiro di Emanuele Crialese, che aveva vinto il Gran Premio della Giuria a Cannes, e altre opere analoghe, che, come spesso accade, avevano attratto, l’attenzione di registi affermati verso un direttore della fotografia emergente.
Come e quando hai conosciuto Tornatore? Come è nata la vostra collaborazione per La sconosciuta?
Giuseppe era rimasto abbastanza colpito da Evilenko, un film che avevo girato in Ucraina per la regia di David Grieco sul mostro di Rostov. Giuseppe mi ha chiamato e abbiamo avuto un incontro di quattro ore molto bello, che ricorderò per tutta la vita, durante il quale lui mi ha consegnato lo script de La sconosciuta. Dopo qualche tempo ha deciso che potevo essere io il direttore della fotografia di quel film. Almeno fino a questo momento, dei film che ho girato, La sconosciuta resta quello a cui sono più affezionato. Esistono dei registi “completi”, come lo è Giuseppe Tornatore, con i quali puoi svolgere la tua professione nella tua interezza. Registi come lui sono completi nel senso che hanno una grande capacità di previsualizzare il film e di dare giusti parametri ai collaboratori. Dal primo giorno con un regista di questo genere ti muovi in maniera molto chiara e ben delineata: questi parametri sono necessari per far sì che il tuo lavoro di direttore della fotografia proceda nella maniera giusta rispetto alla narrazione del film, ed è difficile sbagliare se lavori al fianco di un regista così chiaro e deciso. Io ho sempre pensato che la luce più interessante fosse quella che trovasse la narrazione giusta rispetto alla trama del film.
Come si è svolta la vostra collaborazione per La sconosciuta? Quali indicazioni ti ha dato Tornatore e quali reference visive avete condiviso?
I nostri incontri preparatori si concentravano su immagini, film e palette di colori che Giuseppe aveva scelto credo già durante la fase di scrittura. Avevo un percorso ben delineato davanti a me: se fossi stato capace di ampliarlo e renderlo più ricco avrei fatto un ottimo lavoro, ma era già sufficiente seguire la strada che lui aveva tracciato per fare un buon lavoro. Giuseppe mi ha mostrato soprattutto film noir degli anni ’30 e ’40, come L’uomo leopardo: questi film non gli interessavano tanto dal punto di vista della fotografia, tanto più che erano in bianco e nero e noi avremmo girato a colori, ma lo avevano colpito per come rappresentavano il rapporto dei personaggi con gli elementi, con il vento, con l’acqua, con il fuoco, e con la stessa luce. Anche ne La sconosciuta ci sono spesso dei richiami alla luce, alla pioggia e agli altri elementi naturali: era necessario mostrare un attaccamento a questi elementi perché il nostro film fosse diverso, in termini di narrazione e di composizione, da quello che si era visto fino a quel momento. Questi film in bianco e nero degli anni ’40 sono stati l’unica reference importante che mi ha dato durante la preparazione; poi ovviamente, una volta sul set, ti arrivano altri esempi e indicazioni anche più precisi, ma le basi erano state poste in quelle chiacchierate molto lunghe fatte in precedenza.
La migliore offerta ha segnato il passaggio di Tornatore dalla pellicola al digitale. Come si è svolto questo passaggio? Avete fatto dei provini prima di scegliere l'Arri Alexa come macchina da presa con cui girare il film?
Abbiamo fatto due mesi e mezzo di provini, provinato tutto ciò che era provinabile a livello di pellicola, di lenti e di macchine da presa. Mano a mano ci siamo accorti che alla storia era necessaria una caratteristica fotografica: la definizione. La vita del protagonista, fondamentalmente, incarnava in ogni momento questo valore. Virgil Oldman è un critico d’arte e vede nei quadri dei particolari che gli altri non vedono: per rappresentare questo approccio anche a livello fotografico, era necessaria una definizione chiara dell’immagine. Dopo aver provato tutte le combinazioni possibili con la pellicola, abbiamo fatto delle inquadrature comparative tra pellicola e digitale. All’epoca la macchina da presa digitale più innovativa e più affidabile era l’Alexa dell’Arriflex. Visti questi provini, dopo mesi di tentativi abbiamo capito che la Arri Alexa era la macchina più adatta e che il digitale era la chiave giusta. Questa scelta però è avvenuta dopo molti test e dopo profonde considerazioni su quello che vedevamo come risultato sul grande schermo.
La corrispondenza narra la storia d'amore, quasi interamente virtuale e tecnologica, fra Edward Phoerum, professore di astrofisica, e la studentessa nonché stuntwoman Amy Ryan. Per girare La corrispondenza avete utilizzato nuovamente la Arry Alexa? Come sono stati invece ripresi i videomessaggi che il personaggio di Jeremy Irons lascia all'amante dopo la sua scomparsa?
Anche La corrispondenza lo abbiamo girato con la Arri Alexa, usando sempre le stesse lenti, le MasterPrime della Zeiss. Questo mi sembrava il connubio ideale per ottenere un’immagine che avesse una sua “materia”. Il rischio del digitale è che l’immagine non abbia matericità, laddove nella cinematografia classica il supporto che utilizzi, la pellicola, ha una sua matericità perché è un supporto fisico. Se giri in digitale la fatica sta nel restituire plasticità e matericità in un’immagine che per sua natura tende a perderla. Anche i videomessaggi lasciati dal personaggio di Jeremy Irons erano girati con la Arri Alexa, poi abbiamo corrotto le immagini per scimmiottare delle sorgenti di ripresa meno ricche di quelle che può produrre l’Alexa dell’Arriflex. L’impressione che quei videomessaggi davano era che il personaggio di Irons li avesse registrati con un telefono o con una videocamera non professionale, ma in realtà noi li abbiamo girati con la nostra Arri. Cerco sempre di partire dalla ricchezza informativa più alta possibile e poi lavorarla con applicazioni tecnologiche diverse a seconda delle esigenze narrative, piuttosto che partire con un range di informazioni fotografiche più ristretto che ci impedirebbe poi di fare sperimentazioni più creative.
Oltre a tre film di finzione, con Tornatore hai girato anche il documentario L'ultimo Gattopardo, dedicato alla figura del produttore Goffredo Lombardo. Cosa ricordi di questa esperienza documentaristica? Come si è svolta la raccolta delle interviste ai molti personaggi del mondo del cinema che raccontano e ricordano l'operato di Lombardo e della Titanus Film?
L’ultimo Gattopardo ha rappresentato la prima esperienza in digitale della mia carriera, perché giravamo con una D21 dell’Arriflex, una telecamera molto particolare. Lavorare a quel documentario per me è stato straordinario per le conoscenze che mi ha permesso di fare, facendomi incontrare persone meravigliose, che nella loro vita avevano fatto cinema in una maniera profonda e appassionata e che nel documentario ricordavano il loro rapporto con Lombardo. L’ultimo Gattopardo ci richiedeva un lavoro molto complicato, perché Giuseppe voleva che gli intervistati fossero circondati dalle immagini del loro film. Quindi intervistavamo i vari Scola, Monicelli, Rotunno, Loren, Delon, Ranieri, Morandi con un proiettore Christie puntato su di loro e con un ulteriore green screen alle loro spalle che riproduceva il loro film. Per ottenere l’effetto che voleva Giuseppe dovevamo girare con due telecamere, sincronizzare le immagini con il proiettore e riportare sul green screen i contributi. E’ stato uno dei lavori più difficili della mia carriera, con un’applicazione tecnologica molto seria, ma il risultato finale era di una bellezza incredibile. Girare L’ultimo Gattopardo alla fine è risultata una delle esperienze più belle della mia vita. Ho conosciuto le persone che hanno fatto alcuni dei film che amo di più, in queste interviste che duravano anche un’ora e mezza e che rappresentavano per me occasioni straordinarie di conoscenza.
Dopo che i suoi primi film avevano immortalato diversi luoghi della nativa Sicilia, La sconosciuta, La migliore offerta e La corrispondenza hanno in parte rifondato l'immaginario del cinema di Tornatore andando ad esplorare località più o meno note del Nord Italia, come Trieste, Borgo Ventoso, Gorizzo, il lago d'Orta e il lago Maggiore. Tu partecipi ai sopralluoghi e alla scelta delle location? Girare in antiche ville come quella dove hanno luogo molti degli eventi de La migliore offerta cosa comporta dal punto di vista dell'illuminazione?
La fase di scelta delle location è un percorso che si fa tutti insieme: con il regista, lo scenografo e il direttore della fotografia. La scelta è obbligata dalla sceneggiatura. Tornatore è molto preciso nella scrittura dei suoi script e questo ci agevola nel cercare ciò che lui ha scritto o almeno la cosa che ci si avvicini di più. La fase dei sopralluoghi è il momento in cui più si esercita la fantasia, non hai restrizioni di alcun genere, né in termini economici né in termini di tempo. Forse in tutto il processo di produzione di un film è il momento più bello perché l’emozione e la fantasia spaziano oltremodo. Certo, i sopralluoghi sono anche faticosi. Ogni volta che incontro un ambiente, anche se alla fine non sarà scelto, lo illumino provando le varie possibili scelte di illuminazione e a fine giornata torno in albergo stanchissimo perché magari ho visto quattro set e ho immaginato altrettante luci diverse. È vero, non ho mai fatto un film siciliano con Giuseppe, ma girerei volentieri anche in un’ambientazione mediterranea. Anche fotografare ambientazioni più fredde e nordeuropee però è molto bello e fotograficamente è un’esperienza che mi è piaciuto fare.
Ne La migliore offerta e in La corrispondenza Tornatore ha diretto come protagonisti due premi Oscar del calibro di Geoffrey Rush e Jeremy Irons, oltre a Donald Sutherland che affianca Rush in un ruolo secondario ne La migliore offerta. Come ti sei relazionato con loro? Trattandosi di tre volti maturi, con una lunga storia cinematografica alle spalle, nei primi piani come hai lavorato a livello di luci per valorizzarli ed accentuare la loro espressività?
Faccio una fotografia narrativa, quindi non mi preoccupo troppo del cosiddetto star system fotografico sugli attori di spicco. Cerco di essere coerente con la luce che avvolge tutta la scena e porto avanti questa scelta di luce fino ai primi piani. Quando sei davanti a facce come queste è difficile sbagliare l’illuminazione tanto sono espressive e forti: per noi direttori della fotografia è più complicato illuminare un viso meno espressivo, dove la luce diventa necessaria per aggiungere quello che non c’è. Nel caso di Geoffrey Rush, Donald Sutherland e Jeremy Irons la loro espressione e la loro forza di recitazione era forte, e semplificava molto il mio lavoro.
Centrale nel cinema di Tornatore, almeno da Malèna in poi, è un'indagine sulla figura femminile. Ksenia Rappoport, Claudia Gerini, Sylvia Hoeks e Olga Kurlyenko sono le protagoniste femminili dei tre film che avete girato insieme. Ne La migliore offerta il protagonista Virgil Oldman ha una collezione segreta di ritratti femminili: Tornatore ha mai condiviso con te reference pittoriche o fotografiche per indicarti come fotografare le sue attrici? Come pensi si sia evoluta e affinata, di film in film, la visione e la scrittura di Tornatore riguardo ai suoi personaggi femminili?
I personaggi femminili e maschili per Giuseppe hanno stessa importanza, perché lui ha un’affezione altissima verso i ruoli che scrive e ancor di più verso gli attori con cui lavora, perché per lui sono uno strumento narrativo fondamentale. Vedere Tornatore al lavoro con i suoi attori attori è molto bello. C’è un’interazione pazzesca, che raramente si crea in altre situazioni. Per quanto riguarda La migliore offerta c’erano moltissime reference pittoriche, anche perché, come tu ricordavi, nella stanza segreta del protagonista c’è il meglio della pittura su soggetti femminili. Andando nello specifico, quella stanza della casa del protagonista, l’ho fotografata con una lente da 10mm, che secondo me rappresentava bene il carattere ossessivo e lo sguardo deformante del protagonista. Per il personaggio di lei non dovevo però scadere nel darle una luce che richiamasse volontariamente precedenti pittorici, perché Claire è un personaggio molto moderno nella vita del protagonista, che gli crea una situazione molto diversa da tutte quelle che ha affrontato precedentemente. Fotograficamente ci siamo tenuti fedeli alle atmosfere generali del racconto, e siamo stati attenti affinché l’illuminazione pittorica non invadesse le situazioni che riguardavano invece i personaggi del film.
Il passaggio dalla pellicola al digitale vi ha dato ulteriori possibilità in termini di controllo dell'immagine e della fotografia. Soprattutto La migliore offerta e La corrispondenza mostrano un look visivo piuttosto particolare e ricercato. Prima delle riprese impostate una LUT di massima? A riprese finite, quali sono i principali interventi in fase di color correction?
Con l’avvento del digitale e le possibilità che questo comporta sarebbe assurdo non proporre già sul set, sin dalla prima inquadratura girata, un risultato prossimo a quello che si vedrà sullo schermo. Prima delle riprese, dopo aver parlato con Giuseppe, concepisco una LUT che ci porta vicino all’immagine che vogliamo realizzare per il grande schermo. Ovviamente poi, in fase di color, c’è una maggiore possibilità di intervento che ci permette di arrivare ancora più vicini al risultato che ci eravamo proposti. Nondimeno, quello che facciamo sin dal primo giorno sul set è legato a scelte fatte precedentemente, e si muove in una direzione ben precisa: non sono un direttore della fotografia a cui piace creare la luce in laboratorio per un film girato senza anima; fotografo sul set secondo le esigenze del regista e in fase di color se possibile miglioro il risultato. Così facendo, anche grazie alla LUT, il 70% del risultato definitivo già si vede sul set.
Il cinema di Giuseppe Tornatore, da Nuovo Cinema Paradiso fino a La corrispondenza, è stato legato al sodalizio con Ennio Morricone, scomparso lo scorso luglio. Il montaggio dei suoi film spesso ha evidenziato la compenetrazione fra immagini e musica, dando un ritmo all'alternarsi dell'inquadratura che seguiva l'avvicendarsi delle note. Hai mai conosciuto personalmente Morricone? Vi siete mai confrontati direttamente durante la preparazione o le riprese di un film di Tornatore?
Con Giuseppe Tornatore abbiamo realizzato un documentario sul maestro Morricone. Lo abbiamo girato nel corso di questi ultimi anni e che penso che sarà distribuito fra non molto. Si intitola Ennio: the Maestro. Ho avuto la fortuna di conoscere Ennio durante questo documentario e durante altre occasioni legate ai film di Giuseppe e non solo. L’ho visto lavorare in sala mixaggio alla colonna sonora ed è stata un’esperienza incredibile. Ancora adesso faccio una grande fatica a pensare che il maestro non ci sia più. Quello con Ennio Morricone è stato uno degli incontri più belli che abbia mai fatto, era una persona e un artista straordinario, con capacità artistiche “imbarazzanti”. Ci mancherà tantissimo. Ricordo un momento di quando giravamo il documentario a casa sua: si è seduto al piano, c’erano tutti i ragazzi della mia squadra, e ha iniziato a suonare il tema di C’era una volta in America. Dopo cinque minuti mi sono girato, nel silenzio generale, e ho visto tutta la troupe sul punto di piangere. La caratteristica di Morricone era proprio quella di colpire il cuore di tutti. Ci mancherà tantissimo, come persona e come artista.
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