Andrea Paolo Massara, di origini calabresi e cresciuto in Svizzera, è uno sceneggiatore italiano di film di finzione e documentari. Diplomato in sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, dopo alcuni cortometraggi ha co-sceneggiato il film L'attesa di Piero Messina, presentato nel 2015 alla Mostra del Cinema di Venezia e interpretato da Juliette Binoche, che per questa interpretazione vince il Nastro d'argento europeo. Dopo Non è un paese per giovani di Giovanni Veronesi e Tutte le mie notti di Manfredi Lucibello, nel 2020 è tornato a Venezia co-sceneggiando il film The Rossellinis di Alessandro Rossellini, figlio di Renzo e nipote di Roberto, incentrato sull'ampia discendenza del grande regista.
Qual è stata la tua formazione come sceneggiatore? Quali film hanno preceduto The Rossellinis?
Scrivo da quando avevo quindici anni. Non ho mai sopportato i temi di attualità e così una volta ho chiesto all’insegnante: posso rispondere alla traccia con una storia inventata? Il professore d’italiano mi disse di sì e da allora non ho mai smesso. Durante l’Università ho avuto la fortuna di entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia. Lì si insegnava l’immaginazione. Sono stati anni tra i più belli della mia vita.
Fra i tuoi precedenti titoli spicca L'attesa, co-scritto con il regista Piero Messina e interpretato da Juliette Binoche. Cosa ricordi di questa esperienza? L'attesa è un film giocato sui silenzi e sul non-detto: per uno sceneggiatore qual è la sfida di scrivere un film di questo tipo?
Quel film per me è come il primo amore. Lo abbiamo immaginato in quattro, appena usciti dalla scuola di cinema: Ilaria Macchia, Giacomo Bendotti, il regista ed io. Non scherzo se dico che abbiamo scritto migliaia di pagine per poi condensarle in una sceneggiatura di soltanto cinquantaquattro. Volevamo essere certi che arrivasse al pubblico quel dato pensiero del personaggio, anche se magari la protagonista non ha aperto bocca per tutta la scena. L’intento di Piero credo sia stato quello di guidarci a raggiungere un’immagine auto-significante, dove tutto passa dal visivo e il sonoro. Le parole non sono usate per quello che sono, ma per quello che richiamano. Se ci siamo riusciti, il vero film si crea nella mente dello spettatore. L’attesa è stato concepito come una sorta di meditazione.
Come hai conosciuto Alessandro Rossellini e come sei stato coinvolto nella scrittura di The Rossellinis?
The Rossellinis era un progetto difficile da inquadrare, che metteva insieme la storia del cinema, il racconto di una famiglia e la vita privata di Alessandro. I produttori della B&B – Raffaele Brunetti e Ilaria De Laurentiis – mi hanno presentato Alessandro, pensando forse che la mia professionalità di scrittore di film drammatici e commedie potesse essere adatta. Più che un documentario storico sulla figura di Roberto Rossellini, la direzione che abbiamo intrapreso insieme è quella di puntare a una sorta di commedia familiare. Alessandro è il regista e la persona che conduce per mano lo spettatore, permettendogli di entrare nell’atmosfera intima di una famiglia speciale.
The Rossellinis è stato il tuo primo documentario come sceneggiatore dopo una serie di corti e lungometraggi di fiction. Come cambia il tuo lavoro nel passaggio dalla fiction al documentarismo? Con quali materiali ti sei preparato per raccontare la storia della famiglia Rossellini assieme a uno dei suoi discendenti?
Il mio lavoro è cambiato, ma fino a un certo punto: anziché pensare e scrivere seguendo solo logica e sentimento, qui dovevo usare pezzi di realtà e unirli insieme secondo un disegno. A volte i frammenti non si incastrano, altre volte ti spingono a ridisegnare il tutto… Credo sia un po’ come inventare un mosaico, con tessere di tutti i colori, di pietre diverse. Per The Rossellinis in particolare c’era anche il materiale di repertorio, un archivio sterminato, disperso in tutto il mondo. Ho letto e visto tante cose, documenti pubblici e album di famiglia. So persino quando e perché Robin si è rotto un dente da bambino o che Roberto Rossellini si nutrisse solo di pasta asciutta. A guidarmi non è stato un interesse storico e cinematografico verso il regista del neorealismo, ma le emozioni di Alessandro, la sua rete di memorie familiari. Sono diventato il suo più grande confidente.
Il montaggio di The Rossellinis segue un viaggio intorno al mondo di Alessandro, intervallandolo con materiali d'archivio, video di famiglia e foto d'epoca. La successione degli incontri con i vari zii e cugini sembra seguire l'ordine dei matrimoni del nonno Roberto. Come e in che punto del processo di scrittura avete deciso di seguire questa struttura?
L’idea del collage era chiara fin dall’inizio, ma non sapevamo come sarebbe venuta fuori. La montatrice, Ilaria De Laurentiis, è stata in prima linea a guidarci in questa scoperta: quale sarebbe stato il linguaggio del film? Abbiamo fatto una sorta di test sui primi dieci minuti e poi un altro sugli episodi in America. Arrivati a un buon risultato, abbiamo poi proceduto più spediti, seguendo quello stesso ritmo, la stessa musica. L’intreccio cronologico tra presente e passato è stato un atto dovuto, per non affaticare lo spettatore: l’albero genealogico di famiglia era piuttosto complicato!
Una delle prime scene del film mostra alcuni degli eredi di Roberto Rossellini, tra cui Isabella, fare visita alla tomba del grande regista, e tutto il documentario mostra la famiglia in situazioni di scambi e di dialoghi, ora conviviali, ora molto intimi. Come in ogni documentario, vedendo The Rossellinis viene naturale chiedersi: quanto è vero e quanto è coreografato, e fino a che punto?
Le uniche cose prefissate sono stati gli argomenti proposti da Alessandro negli incontri e alcune domande chiave, ma spesso neanche quel “copione” è stato rispettato. Provateci voi a fare domande delicate ai parenti. Credo ci si dimentichi ben presto di dover fare il regista e prenda a volte il sopravvento un altro mestiere, molto più difficile, quello di nipote e figlio. La selezione del girato è la vera e propria sceneggiatura, dove si tenta di mettere ciascuna tessera al posto giusto, come se fosse appunto un film di finzione.
Quanto della sceneggiatura è stato scritto prima delle riprese e quanto invece è stato completato a riprese avvenute? Seguivi Alessandro nei suoi viaggi? Lo hai aiutato nel decidere quali domande fare ai famigliari che di volta in volta incontrava?
Non amo il set e neanche Alessandro mi ha mai voluto tra i piedi. A posteriori credo sia stata una fortuna: bisognava preservare lo sguardo dei parenti verso Alessandro, senza mediazioni visibili degli autori. Gli zii dovevano fidarsi del nipote e non accorgersi del regista. Per quanto riguarda la scrittura vera e propria, ho redatto un trattamento prima dell’inizio delle riprese, anche abbastanza dettagliato, ipotizzando con Alessandro cosa sarebbe accaduto stimolando una certa situazione. La cosa sorprendente è che nonostante sia successo di tutto durante le riprese e il montaggio, il disegno finale gli somiglia molto, proprio come un trattamento ad una sceneggiatura. La scena in cui Isabella rimprovera ad Alessandro di averla truffata per spillarle dei soldi non era assolutamente prevista!
Tutto The Rossellinis in fondo ruota intorno all'eredità umana di Roberto Rossellini. Da un punto di vista artistico, invece, quali pensi siano state le maggiori influenze che Rossellini ha avuto sul cinema dopo di lui, fino ad arrivare al cinema d'oggi, sia a livello di regia che a livello di scrittura cinematografica?
Il cinema come lo conosciamo oggi deve molto a lui. E’ come se Rossellini avesse spostato il suo corso. Fino agli anni ’40, i film erano parenti stretti del teatro, girati nei capannoni degli studios, con fari potenti e attori protagonisti che la gente amava e riconosceva, le star. Dopo Roma città aperta e Paisà il cinema è diventato un linguaggio a sé, rivelando la sua origine fotografica, nel suo rapporto diretto col mondo reale. La Nouvelle Vague è nata dall’influenza di Roberto, come ammettono i suoi stessi autori, che lo seguivano e rispettavano con un amore quasi religioso. Sui «Cahiers du Cinéma» lo chiamavano affettuosamente “Papa Rossellini”. Persino i capolavori di Scorsese degli anni ’70 vengono sempre dalla stessa onda e lui stesso non lo nasconde. Oggi credo che il cinema stia di nuovo tornando indietro, complice un nuovo spostamento di potere. Roberto Rossellini probabilmente odierebbe Netflix, che controlla il “prodotto” blindando i copioni. Il neorealismo – con le sue non-sceneggiature – era anche questo: uno sfuggire al controllo.
Nel film resta in secondo piano, ma negli ultimi anni della sua vita Roberto Rossellini si dedicò all'impresa mastodontica di creare una grossa "enciclopedia" televisiva, incentrata prevalentemente su tematiche storiche e filosofiche: questa enciclopedia era destinata a educare alla cultura il grande pubblico attraverso il medium cinematografico-televisivo e comprende opere come La presa del potere da parte di Luigi XIV e Socrate. Quanto pensi sia attuale questa idea, tanto più in giorni come questi quando si parla sempre più spesso di una "Netflix della cultura"?
Credo che l’intuizione che ebbe allora si sia semplicemente realizzata. Il libro come mezzo di educazione, emancipazione e cultura non è mai arrivato a tutti, complice la “fatica” della lettura. Le piattaforme di streaming adesso sono uno scaffale da cui prendere e sfogliare opere su qualsiasi argomento: scienza, storia, psicologia, inquinamento… Penso che una serie come The Crown gli sarebbe piaciuta parecchio.
Fra i molti discendenti di Roberto Rossellini ha un ruolo importante, sia nella famiglia che nel documentario, Isabella Rossellini, modella, attrice e musa di Martin Scorsese e David Lynch, iconica protagonista di Velluto blu. Hai avuto modo di conoscerla durante la scrittura della sceneggiatura del documentario? Nonostante la sua maggiore fama rispetto agli altri componenti della famiglia la presentazione di Isabella Rossellini non è più approfondita o estesa di quella degli altri familiari intervistati dal nipote Alessandro: come avete deciso di trattare la sua figura nel documentario?
Sì, Isabella non avrebbe dovuto comparire più degli altri familiari, proprio perché è stata sempre la più esposta nei media. Questo documentario dà spazio al punto di vista di tutti, come non era mai accaduto. Oggi vive in America, ma è venuta a trovarci un giorno al montaggio a Roma. Lei ha un’idea molto precisa di come sono andate le cose, che a volte diverge con la visione del regista. Alessandro voleva fargli vedere il montato prima, per prepararla. Ci sono stati momenti di tensione, ma anche lei ha ammesso che non c’è una sola verità, soprattutto nelle storie di famiglia. E questo è stato il definitivo via libera.
Il documentario termina con la prima riunione di famiglia dopo 42 anni, ovvero dal giorno del funerale del patriarca Rossellini, in occasione di un servizio di Vogue. Eri presente sul set dello shooting? Se sì, che emozioni hai provato e si propagavano? Anche grazie a questa scena finale I Rossellinis sembra assumere una struttura quasi da racconto cinematografico classico ma fittizio, con un'autentica "risoluzione" del conflitto esposto sin dai primi minuti (una famiglia divisa in tre continenti e quasi "condannata" a vivere sotto l'ombra di un patriarca imponente): quanto pensi che la forma e la struttura di un film di fiction possa influenzare un documentario, e viceversa?
Non sono andato neanche allo sfavillante shooting di Vogue, ma in effetti lo avevamo immaginato già dal trattamento. Per fortuna le riviste di moda ci hanno dato subito ascolto: non vedevano l’ora di pubblicare un servizio sulla famiglia riunita insieme. Spesso è andata così: la realtà corre in soccorso alla finzione e viceversa. Avendo visto tutto il girato, posso dire quanto la famiglia fosse molto emozionata di ritrovarsi per l’occasione. Ci voleva soltanto una scusa per farlo accadere. Ecco, forse la finzione nel documentario è proprio questo, una scusa per poter raccontare.
Scopri i nostri libri!
Iscriviti alla nostra newsletter!