Ci ha lasciati oggi Giuseppe Pinori grande direttore della fotografia ma soprattutto grandissimo amico. Vogliamo ricordarlo con la sua stessa voce, con la bellissima introduzione che ha scritto per il suo volume La luce come compagna, disponibile sul nostro sito, amazon e altri rivenditori on line, e presso il bookshop di Cinecittà.
Pino aveva cominciato giovanissimo a occuparsi di fotografia e di documentario. Riconosceva alla collaborazione con Fernando Cerchio un importante valore formativo sulla comprensione e interpretazione della luce. Come operatore e direttore della fotografia ha collaborato con Florestano Vancini, Ansano Giannarelli e Piero Nelli a una avventurosa stagione di documentari che, prodotti da Marina Piperno, indagavano le piaghe del post-colonialismo e del disagio sociale in Italia, Africa, Asia. Ha collaborato ai film-inchiesta sulla società italiana di Cesare Zavattini e Enzo Biagi. Nel ’69 esordisce nel lungometraggio di finzione al fianco dei fratelli Taviani per Sotto il segno dello Scorpione, loro primo film a colori. Stabilisce un rapporto di profonda e assidua collaborazione con Valentino Orsini, con il quale realizza, tra l’altro, I dannati della terra e Corbari. Attraversa senza preclusioni il cinema di genere collaborando con registi quali Duccio Tessari, Mauro Severino, Lucio Fulci (I guerrieri dell’anno 2072 e Murderock uccide a passo di danza), Pier Giuseppe Murgia, Michele Massimo Tarantini, Alessandro Fallay, Italo Alfaro, Luigi Cozzi, senza mai abbandonare il cinema d’autore, che prosegue con Maurizio Costanzo (Melodrammore), Luigi Mangini (Abbasso tutti, viva noi), Samy Pavel (Le due stagioni della vita), Nanni Moretti (Ecce bombo), Marco Tullio Giordana (Maledetti vi amerò e La caduta degli angeli ribelli), Giuliano Montaldo (Circuito chiuso), Roberto Faenza (Copkiller). Lavora con grande empatia con Giorgio Albertazzi al suo film da regista Gli angeli del potere, e ancora con Vanna Paoli, Giuliano Biagetti, Claver Salizzato, Romano Scavolini. Con quest’ultimo aveva ancora in corso l’ambizioso progetto de L’apocalisse delle scimmie. Solo per citare alcuni dei grandi attori i cui volti ha illuminato, ricordiamo: Mario Adorf, Tina Aumont, Fabrizio Bentivoglio, Giulia Boschi, Lucia Bosè, Barbara Bouchet, Eleonora Brigliadori, Giulio Brogi, Flavio Bucci, Olga Carlatos, Piera Degli Esposti, Gabriele Ferzetti, Giuliano Gemma, Fosco Giachetti, Clio Goldsmith, Leo Gullotta, Alessandro Haber, Harvey Keitel, Philippe Leroy, Ray Lovelock, Vittorio Mezzogiorno, Enrico Montesano, Gianni Morandi, Amedeo Nazzari, Paola Pitagora, Kim Rossi Stuart, Lina Sastri, Renato Scarpa, Rosanna Schiaffino, Sylvia Sidney, Gianmaria Volonté, Milena Vukotić.
Pino Pinori, Introduzione a LA LUCE COME COMPAGNA
C’è una cosa dalla quale non posso prescindere, il filo rosso che ha tenuto insieme tutta la mia vita. Parlo della luce. Non so ancora se sia stato io a seguirla per tutta questa vita o se invece mi sia capitato ogni volta di incontrarla per caso, fatto sta che ad un certo punto l’abitudine mi ha portato a cercarla in ogni momento. La cosa di cui sono certo è che provo per la luce un sentimento indescrivibile e sconfinato. Credo fermamente che l’atto di guardare non sia altro che il saper ascoltare ciò che si vede, ciò che la luce ci rivela. Di conseguenza chi, nel cinema, orchestra la luce, rende possibile l’atto di compenetrazione tra ciò che l’occhio vede e ciò che si vuole svelare e comunicare. Credo che debba trattarsi di un atto devoto, sia da parte di chi si serve della luce per manifestare il senso, sia da parte di chi si lascia guidare nello sguardo.
Non credo nelle divinità o in cose al di là della sfera sensibile, ma la luce accende in me un forte senso del sacro. Io “credo in lei”, la sua presenza o assenza è determinante per ogni cosa, sempre. La luce dà forma, definisce la realtà. Questa devozione me la porto dentro, è parte di me, non è legata soltanto a quello che è il mio bellissimo mestiere: la luce è con me sempre. A casa mia, ad esempio, non c’è abat-jour, lampada o lampadina che sia disposta casualmente o in base a una mera idea di arredamento: la posizione e intensità delle lampade è parte di un progetto che mi azzarderei a definire artistico. Come nessun pittore metterebbe mai a caso dei colori all’interno di una tela, io non posso posizionare delle luci in maniera casuale.
Ho capito presto che la luce non si limita ad avere un unico ruolo, ma ricopre infinite funzioni. Il senso del mio lavoro, e forse della mia vita in generale, è stato anche questo: fare in modo che la luce avesse sempre il suo posto, che le fosse riconosciuta la sua capacità di dare senso a ciò che ci circonda. Il cinema è tante cose: un universo polifonico che consente di parlare della realtà e della fantasia, di ciò che è e di ciò che potrebbe essere. Forse nessun’altra arte ha tutte queste potenzialità.
Vengo dalla fotografia, per così dire, “statica” e da questa arte ho appreso che la luce è una despota assoluta e allo stesso tempo madre di ogni cosa. La prima lezione che faccio agli allievi nei corsi di fotografia che ho tenuto in varie sedi parte sempre da Caravaggio. Dal momento che ho la fortuna di abitare e di insegnare in una città in cui si possono vedere, nelle vie del centro, molte opere del pittore, ne approfitto spesso per andare con i miei ragazzi – o anche da solo – ad ammirare con quale abilità questo artista sia riuscito nelle sue tele a restituire centralità e maestosità alla luce, forse come nessun altro dopo di lui. Penso alla Deposizione per esempio, a quella luce che si fa spazio da sinistra per andare a scoprire e a poggiarsi lentamente sulle costole del Cristo, sull’anca, sui muscoli, sul drappo… Dando la sensazione di una scena che accade in quel momento. Penso a quelle mani che, una ad una, si disegnano nel nero delle tenebre, agli occhi che abitano il dipinto, ora fulgenti, ora scuri e chini sulle ombre del viso. Mi viene in mente il San Girolamo, anche lui raccontato con la luce da sinistra, con quel teschio che sembra aprirsi un varco in una terza dimensione, mentre esce dal buio dello sfondo: mi vengono in mente i sapienti contrasti tra la pelle bianca del petto del Santo e le mani più in ombra… Caravaggio è stato indubbiamente il primo a comprendere fino in fondo l’importanza della luce e del suo contrasto con le tenebre, a dare alla luce un ruolo attivo di voce narrante, come ha fatto poi il cinema moltissimo tempo dopo.
Naturalmente non ho la minima intenzione di paragonarmi a Caravaggio, ma posso certamente dire che il suo modo di interpretare e comprendere la luce è il moto che mi anima nel lavoro: la volontà di cercare di interpretare al meglio la materia attraverso la luce e le sue sfumature. Cosa più facile a dirsi che a farsi, perché il procedimento che si deve attuare per concretizzare il tipo di immagine o di effetto che si ha in testa è estremamente complesso e articolato. I fattori che possono condizionare il tipo di luce da utilizzare per una determinata inquadratura o un intero film sono moltissimi. A seconda del tipo di risultato che si vuole ottenere, la luce può richiedere tempismo, originalità, denaro ecc. E il compito dell’autore della fotografia è quello di scrivere la luce e dare senso all’inquadratura tenendo le fila di tutto ciò che ruota intorno ad essa: le ombre, i contrasti, le tonalità…
In omaggio alla luce, cercherò di ripercorrere le tappe del meraviglioso mestiere che la vita mi ha regalato, anche per restituire il calore e le ispirazioni che tanti incontri, tanti amici e compagni di strada mi hanno saputo dare. Qualcuno mi ha detto che ho sette vite, come i gatti. Ora che mi volto indietro e guardo al mio percorso con una certa consapevolezza, capisco il senso di questa affermazione, ma non sono d’accordo. Come dovrebbe sentirsi chi ha vissuto sette vite, una dopo l’altra? Un “sopravvissuto”, un “resuscitato”? Non è il mio caso. Pensando a tutte le volte in cui ho rischiato la vita devo dire che forse un po’ sopravvissuto lo sono… ma non mi sono mai sentito prossimo alla morte, neanche tutte quelle volte in cui l’ho sentita passare così vicino che avrei potuto toccarla. Ad ogni modo, più che quello di avere sette vite a disposizione, il segreto che posso confessare è che ho sempre il bicchiere mezzo pieno, il mio bicchiere è sempre mezzo pieno.
Durante il mio lavoro nel cinema, per come era diversi anni fa, ci sono stati molti episodi che avrebbero potuto mettere a dura prova il mio innato ottimismo. Ma nonostante le citate “dis”-avventure, la Fortuna è sempre stata dalla mia parte e ho sempre cercato, istintivamente, di trarre il meglio da ogni situazione. Lavorare come direttore della fotografia, in un momento in cui il cinema in Italia raggiungeva l’apice della sua completezza, è stata certamente la porta più grande che mi sia mai stata aperta. Il cinema, che insieme a mia moglie Mirella e alle opere di Caravaggio è la mia passione più grande e duratura, mi ha insegnato che tutto può accadere, ma proprio tutto: da un incontro che conduce a qualcosa di assolutamente impensabile, al ritrovarsi nel bel mezzo del mare in tempesta, al cercare inutilmente di mettere il diaframma e il fuoco alla cinepresa di Pasolini.
Tutto sempre dipende da con che luce si guarda. È la luce che dà il senso a tutto. Non lo dico solo (e umilmente) da “autore” della luce e custode dell’immagine, ma da uomo, da padre, da docente: la luce che decidiamo di dare alle cose che ci accadono è ciò che ne determina il senso. Non so se sia una cosa che ho sempre pensato o se invece lo stia realizzando ora, ma mi rendo conto che la mia vita è il risultato del modo in cui ho deciso di illuminarla.