Il richiamo dell’ombra. Conversazione con Antonio Costa
Antonio Costa (Feltre, 1942) è saggista e storico del cinema. Ha insegnato Storia del cinema all’Università di Bologna dove ha diretto il Dipartimento di Musica e Spettacolo dal 1995 al 1998. Successivamente è passato all’Università IUAV di Venezia dove ha insegnato “Cinema e arti visive” presso la Facoltà di Arti e Design. A lungo impegnato nella ricerca teorica e storica, ha pubblicato numerosissimi studi sul cinema. Ha promosso e diretto il curriculum cinematografico del Dottorato di Ricerca in Discipline del Teatro e dello Spettacolo dell’Università di Bologna. In questo ambito ha fondato e diretto con Leonardo Quaresima la rivista «Fotogenia. Storie e teorie del cinema» (1994-1998) e la collana «Thesis» (edizioni Clueb). Lo intervistiamo sull’ultimo titolo pubblicato Il richiamo dell'ombra: il cinema e l'altro volto del visibile, Einaudi 2021.
Il tuo libro porta in copertina un’incisione di Edward Hopper del 1921 (Night Shadows) che mostra una strada deserta sulla quale si allunga un’ombra minacciosa che sembra sbarrare la via all’unica persona che procede solitaria, mentre la prima immagine nel testo è un fotogramma tratto da un film di Gustav Deutsch che riprende le atmosfere solari e trasparenti della pittura di Hopper… Che relazione c’è tra le due immagini?
Ambedue inscenano delle ombre. Credo che per essere un grande pittore della luce, quale Hopper è stato, bisogna essere prima ancora un grande conoscitore delle ombre. Come lo è stato Hopper e come lo è stato Giorgio De Chirico. Del resto il fotogramma del film di Deutsch fa parte di un episodio che si riferisce a un quadro tardo di Hopper intitolato Escursion into Philosophy (1959): in questo fotogramma, in cui vediamo proiettata per un attimo sulla parete della stanza l’ombra di un gabbiano in volo, si riproduce il dispositivo di visione cui sono condannati i prigionieri del mito della caverna di Platone, uno dei testi fondatori della riflessione sull’ombra del pensiero occidentale. E del resto il libro che la ragazza tiene tra le mani e dal quale ha appena finito di leggere un breve brano è Politeia di Platone, cioè La repubblica.
Nella tua vita da spettatore, quali sono stati i film che più ti hanno colpito per il loro utilizzo delle ombre, e quale è stato l’assommarsi delle ispirazioni che ti ha portato a scrivere Il richiamo dell’ombra?
Per molti aspetti questo mio nuovo libro è un prolungamento, un approfondimento delle mie ricerche sull’iconografia del cinema, lungo la linea tracciata con Il cinema e le arti visive (2002) e poi La mela di Cézanne e l’accendino di Hitchcock (2014). Le affinità elettive tra le ombre e le immagini cinematografiche sono state al centro di innumerevoli studi e riflessioni. Quante volte abbiamo sentito evocare le ombre del mito della caverna di Platone, dal libro VII della Repubblica, a proposito delle immagini del cinema? Ho cercato di andare oltre questi generici, e spesso fuorvianti paralleli. Spesso essi non fanno che replicare la condanna platonica circa la falsa conoscenza prodotta dalle ombre. Mentre i nuovi approcci cognitivisti, nel cui ambito La scoperta dell’ombra di Roberto Casati (Laterza, 2008, 2ª edizione) è l’opera più significativa e fortunata, tendono a considerare l’ombra come una formidabile fonte di informazione, di sapere. Più che degli aspetti filosofici e conoscitivi, mi sono occupato all’estetica delle ombre nel cinema e nei campi vicini della letteratura e della pittura. In particolare mi sono interessato ai momenti in cui le ombre che appaiono nell’inquadratura vanno oltre la loro funzione naturale di definire i rapporti tra volumi e superfici investiti dalla luce e acquistano una loro autonomia. Questo accade all’interno di intere stagioni della storia del cinema: l’espressionismo tedesco, il noir americano, certo cinema di genere come l’horror americano degli anni ’30/’40. Per questo mi è stata utile la categoria di «oltranza espressiva» introdotta dal grande critico e filologo Gianfranco Contini.
Per quanto riguarda i film che nella mia vita di spettatore hanno orientato il mio interesse per le ombre, non ho dubbi: più ancora che i film espressionisti tedeschi, sono stati i film noir americani che mi hanno fatto capire la bellezza e la forza di quei momenti in cui lo schermo si lascia invadere dalle ombre: la piena visibilità dei corpi cede il campo alla differente visibilità delle ombre, all’altro volto del visibile. Si tratta di momenti speciali che ti mostrano la capacità del cinema di farti percepire il mistero, i momenti in cui non bastano più le parole, non vige più la concatenazione delle azioni e vieni introdotto in uno spazio di sospensione. Certo contava il fascino degli interpreti, dell’intrigo e della detection, al quale si aggiungeva quello di questi momenti che nel mio libro ho cercato di sintetizzare nel titolo Il richiamo dell’ombra. E poi ci sono singoli film, dei casi unici, che hanno assunto un valore paradigmatico, al di là del loro contesto storico. Qualche titolo? Vampyr (1932) di Dreyer, Il terzo uomo (1949) di Carol Reed e La morte corre sul fiume (1955), unico film diretto dal grandissimo attore inglese Charles Laughton.
Come funzioni e in cosa consista questo richiamo lo ho capito più tardi attraverso l’analisi formale e lo studio teorico. L’autore che più mi ha aiutato è stato Gilles Deleuze. Strano che le pagine di Deleuze sulle ombre e sullo spazio qualsiasi (che lui associa alle ombre) non figurino quasi mai nelle bibliografie degli studi sulle ombre nel cinema. Ho cercato di recuperare questo contributo che considero essenziale. Ho cercato di evitare gli eccessi del gergo teorico-filosofico e ho preferito illustrare le idee di Deleuze attraverso il cinema di Ozu e le riflessioni di Tanizaki, autore di un piccolo ma preziosissimo libro che nell’originale s’intitola Elogio della penombra (tit. it. Libro d’ombra).
Oltre al triangolo Ozu, Tanizaki, Deleuze che hai appena ricordato, un altro suscita curiosità ed è il triangolo Antonioni, Casati e Lars von Trier.
Quale nesso può esserci tra Casati, filosofo cognitivista affermatosi nel nuovo millennio, e Antonioni, così legato al cinema d’autore degli anni ’60 del secolo scorso? Apparentemente è un nesso abbastanza casuale: tutti e due ci descrivono un’eclisse di sole. Antonioni in un suo testo diaristico ci descrive l’eclisse di sole del 15 febbraio 1961 che in Italia ebbe il suo punto di osservazione migliore in Toscana. Quel giorno Antonioni è a Firenze con la sua troupe: vuole fissare le immagini dell’eclisse per il film che ha in preparazione, e che uscirà l’anno seguente con il titolo L’eclisse. Casati ci descrive un’eclisse di sole che è andato appositamente a vedere sulle rive del mar Morto, all’epoca (siamo nel 1999) in cui stava preparando il suo libro La scoperta dell’ombra: voleva verificare di persona, perché non si fidava delle descrizioni lasciateci da vari autori. Quello che più ci colpisce è che il regista e il filosofo usano quasi le stesse parole per descrivere il fenomeno. Secondo Casati è sufficiente vivere qualche minuto dentro il cono d’ombra prodotto dalla luna durante l’eclisse per sentirci parte di un universo infinitamente più maestoso di quello che percepiamo a contatto con le cose di tutti i giorni. Antonioni, anche se poi non ha utilizzato per il suo film le riprese fatte a Firenze e ha eliminato qualsisia riferimento all’eclisse, è riuscito, nella famosa sequenza finale, a trasmettere attraverso prospettive del tutto quotidiane, quello sgomento cosmico provato di fronte all’eclisse di sole. La compenetrazione tra questi due piani, quello quotidiano e quello cosmico, viene realizzato in modo superbo da Lars von Trier in Melancholia. All’inizio sembra di essere in un film di Bergman nel quale i comportamenti e le ossessioni dei personaggi sono dilatati dalla presenza di anomalie percettive che ci mettono progressivamente a contatto con uno stravolgimento cosmico. In Malancholia, l’ordine naturale delle cose, definito dall’immutabilità delle leggi fisiche che regolano il rapporto tra luce e ombra, sembra alterato fin dall’inizio. L’imminente catastrofe viene preannunciata, prima ancora che dai notiziari, da alcune anomalie nella nostra percezione dello spazio. La forza del film di Lars von Trier dipende anche dalla sua capacità di farci percepire nella dimensione quotidiana dei rapporti interpersonali un’incrinatura, una dissonanza che sembra il riflesso di uno sconvolgimento cosmico.
Ne Il richiamo dell’ombra procedi per accostamenti tra film che a prima vista sembrano avere ben poco in comune, che appaiono anzi decisamente lontani tra loro, nello spazio e nel tempo. Vuoi illustrarci il tuo modo di procedere in queste che chiami intersezioni?
Negli ultimi venti o trent’anni è uscito un certo numero di studi sull’ombra. Senza contare la quantità di osservazioni quanto mai pertinenti sparse in saggi di estetica o in testi e interviste di direttori della fotografia che sono spesso chiamati tecnici delle luci, ma potrebbero essere allo stesso modo chiamarsi tecnici delle ombre. Il mio modo di procedere? Mi sono senz’altro ispirato alle Histoire(s) du cinéma di Godard, un’opera immensa. Godard ci insegna che per il solo fatto di mettere un film accanto ad un altro, un regista accanto a uno scrittore o un pittore, un film accanto a un testo filosofico faccio emergere qualcosa che finora non è stato visto, qualcosa che non era evidente fin dall’inizio. È questa la grande lezione che ci è venuta dal montaggio cinematografico che ci è stata magnificamente illustrata da Ejzenštejn, da Benjamin e da Aby Warburg: solo il primo dei tre è un regista e teorico del cinema; gli altri due sono rispettivamente un filosofo e sociologo della letteratura, e uno storico dell’arte.
Sono molte le opere letterarie che citi, ma non c’è dubbio che Storia meravigliosa di Peter Schlemihl sia la più presente nelle tue pagine, tanto più che già Lotte Eisner aveva richiamato l’attenzione sull’importanza di questo breve romanzo come modello per il cinema fantastico.
In effetti Storia meravigliosa di Peter Schlemihl (1814) di Chamisso è l’opera letteraria più famosa fra quante hanno come protagonista l’ombra. La posizione centrale che essa occupa nel cinema tedesco tra le due guerre è stata evidenziata in modo preciso ed efficace da Lotte Eisner nel suo libro Lo schermo demoniaco che ha per sottotitolo Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo. È vero che io metto in discussione l’uso della categoria di influenza, seguendo quanto dice al proposito il grande storico dell’arte Michael Baxandall. Secondo Baxandall, parlando dell’influenza del pittore X sul pittore Y, finiamo per attribuire a Y un ruolo puramente passivo, mentre se ribaltiamo la prospettiva possiamo comprendere meglio il fenomeno attraverso il concetto di forma dell’intenzione, descrivendo il modo in cui il pittore Y si avvicina, si situa, fa riferimento all’opera del pittore X. Ciò detto, non c’è dubbio che per trattare il tema dell’ombra nel cinema tedesco tra le due guerre bisogna fare i conti con l’ombra di Peter Schlemihl. A differenza di quanto ha fatto la trattatistica più recente (Milner, Stoichita, Païni, Sharpe), il mio metodo delle intersezioni mi ha permesso di evidenziare connessioni con Peter Schlemihl, non solo in film dell’espressionismo tedesco, ma anche in opere letterarie italiane, da un classico del primo Novecento come Il fu Mattia Pascal di Pirandello a testi più recenti come il racconto Treni che vanno a Madras di Antonio Tabucchi o il romanzo Marco e Mattio di Sebastiano Vassalli. A proposito di Vassalli, il suo romanzo, la cui scena finale è ambientata nel manicomio dell’isola di San Servolo, ci permette un’intersezione tra Il Gabinetto del dottor Caligari, con le sue astratte geometrie, e il Peter Schlemihl di Chamisso: infatti Marco, uno strano prete tedesco con precise connotazioni diaboliche, si rifiuta di attraversare il cortile dell’ospedale invaso dalla luce del sole perché tutti si accorgerebbero che è privo dell’ombra (il riferimento a Peter Schlemihl è evidente, anche se non è esplicitamente citato). Uno degli effetti dello studio di temi trasversali come l’ombra ti consente di adottare una prospettiva davvero europea.
Un film che forse un lettore potrebbe aspettarsi di trovare citato nel tuo Il richiamo dell’ombra, se non altro per l’assonanza del titolo, è Ombre (Shadows) di John Cassavetes. Come mai non ha trovato spazio nella tua trattazione?
Ombre di Cassavetes è un film che non rivedo da tempo. Non saprei dire se le ombre, tematizzate nel titolo, siano altrettanto centrali nel contesto del film. Quello che è certo, ma devo averlo già scritto da qualche parte, è che Ombre è uno dei due film che mi hanno fatto scegliere il cinema come oggetto dei miei studi (l’altro è Fino all’ultimo respiro di Godard). Per una fortunata coincidenza mi è capitato di vederli nello stesso giorno.
Circa l’uso degli effetti speciali come per esempio la doppia esposizione, particolarmente seminale sembra essere stato Il carretto fantasma, film della scuola nordica diretto nel 1921 dal regista svedese Victor Sjöström. Da un punto di vista tecnico e figurativo, quali sono stati i film successivi ad essere direttamente influenzati dall’opera di Sjöström?
Il cinema tedesco degli anni ’20 ha compreso, come scrive Lotte Eisner, che la tecnica cinematografica poteva diventare lo strumento essenziale per la resa dei grandi temi e delle ossessioni della letteratura romantica tedesca. La fama di Sjöström al giorno d’oggi sembra legata soprattutto alla sua interpretazione del ruolo del dottor Borg in Il posto delle fragole di Bergman. Ma negli ’20 venti Sjöström è stato uno dei più importanti registi della scuola nordica. Del suo film Il carretto fantasma si ricorderà Stanley Kubrick che lo cita quasi alla lettera in Shining nella sequenza in cui Jack Nicholson abbatte a colpi di accetta una porta dietro la quale si ripara Shelley Duvall con il suo figlioletto.
Nel tuo saggio ha grande importanza anche l’opera di William Kentridge, poliedrico artista visivo sudafricano molto attento soprattutto al linguaggio dell’animazione. Siamo in un periodo in cui c’è un grande dibattito sulla forma e sulle “condizioni” del cinema, su quali siano, in un momento in cui le piattaforme streaming stanno riducendo sempre di più la distinzione tra piccolo e grande schermo, i confini tra il cinema e altre forme di linguaggio audiovisive. Dal tuo punto di vista, quali sono i confini e le aperture del cinema, nel e al mondo contemporaneo?
William Kentridge fa archeologia del cinema. Tra gli artisti contemporanei, Kentridge è quello in cui più importante è il nesso tra ricerca iconografica (le ombre) e l’archeologia, come ben dimostra l’ultimo libro di Salvatore Settis (Incursioni, 2021). Per Kentridge lavorare con le ombre e sulle ombre significa scavare nell’inconscio cinematografico per far affiorare il rimosso. Per lui recuperare lo stadio dell’ombra significa far riemergere quanto è stato rimosso dalla norma-normalizzazione della rappresentazione contemporanea. Kentridge recupera una tecnica arcaica come il teatro d’ombre e la rende protagonista di un dispositivo tipico dell’arte contemporanea, l’installazione. L’effetto è sicuramente di grande impatto: si pensi all’installazione Shadow Procession collocata nel cuore di Times Square a New York.
In questo viaggio attraverso le ombre nel cinema, quale spazio riservi al cinema italiano, al quale è dedicato un volumetto che è appena stato ristampato in edizione aggiornata nella fortunata collana delle edizioni Il Mulino di Bologna?
D’accordo l’Italia è il paese del sole-mio, della luce, anche se è proprio in Italia che è ambientata la novella di Andersen, che è uno dei testi fondatori della mitologia (in senso assolutamente letterale) dell’ombra. E nell’economia della mia trattazione il breve testo di Andersen occupa una posizione di rilievo. Il cinema italiano è presente con Malombra di Mario Soldati e con Partner di Bernardo Bertolucci, come sottolinea Gianni Canova in una recensione che ha dedicato al mio libro. Di Antonioni ho già detto. Resta da ricordare La signora di tutti, un film del 1934 diretto in Italia da Max Ophüls che segna l’esordio nella produzione cinematografica dell’editore Angelo Rizzoli. Si tratta di un esempio di strategia multimediale. Il romanzo di Salvator Gotta, da cui il film è tratto, prima di uscire in volume viene pubblicato su «Novella», una delle riviste di punta dell’editore, e Novella film si chiamerà società appositamente costituita per la produzione del film. In questo contesto diventa essenziale la relazione tra l’opera cinematografica e il romanzo di Salvator Gotta che ne sta alla base e che presenta motivi di grande interesse per lo studio del tema dell’ombra, come ho cercato di dimostrare.
E sulla nuova edizione del tuo volumetto sul cinema italiano cosa puoi dirci?
Mi è capitato di preparare la nuova edizione del mio libro in piena pandemia, quando tutto stava cambiando sotto i nostri occhi: sale chiuse, festival sospesi, produzioni bloccate. L’ora più buia del cinema italiano. Il tutto veniva maledettamente complicato dal fatto che, data la struttura della collana, non erano molte le pagine che avevo a disposizione per gli aggiornamenti. E inoltre non volevo chiudere con una sfilza di dati deprimenti. Avevo idealmente concluso la prima edizione del mio libro, uscito nel 2013, con un capitoletto intitolato Memoria del cinema italiano ai tempi di Tarantino, in cui citavo le ripetute presenze a Venezia di Quentin Tarantino che avevano avuto un ruolo importante per la diffusione di amore, conoscenza e studio del cinema italiano di genere. In quel momento ben altri problemi si presentavano all’orizzonte. Molti film, impossibilitati ad uscire in sala, venivano dirottati sulle piattaforme streaming. Le cineteche e i festival si attrezzavano per offrire sulle loro piattaforme le loro programmazioni. Inoltre il facile accesso alle tecnologie digitali consentiva una produzione di tipo diaristico e minimalista che alimentava parimenti le varie piattaforme. Allo stesso modo i corsi universitari di cinema potevano sviluppare forme di didattica a distanza per la quale i docenti erano indotti a preparare materiali didattici di grande interesse. Quello che veniva a mancare era l’esperienza del cinema, il cinema in sala. E uno spiraglio è venuto anche questa volta dalla Mostra del Cinema di Venezia che è riuscita a combinare l’evento festival (cerimonia d’apertura) con la piattaforma streaming: in cento sale sparse in tutta Italia, è stato possibile seguire in diretta la cerimonia d’apertura e vedere poi, in contemporanea con Venezia, il film Lacci di Daniele Luchetti, scelto per l’inaugurazione della Mostra. Ho voluto chiudere su questo evento la nuova edizione del mio libro perché esso rappresenta un valido esempio di integrazione tra nuove tecnologie e sala cinematografica, con un pieno recupero della centralità della sala e dell’esperienza condivisa di cinema.