Thomas Edward Ackerman ASC (nato il 31 agosto 1948) è un cinematographer americano. Insegna alla School of Filmmaking dell'UNCSA dal 2009. Ha collaborato con il documentarista pluripremiato con l’Oscar Charles Guggenheim (1970-1973). Tra i suoi film, da ricordare: Frankenweenie (1984), Beetlejuice (1988), Christmas Vacation (1989), Jumanji (1996), Rat Race (2001), Anchorman: The Legend of Ron Burgundy (2004), Alvin and the Chipmunks (2007).
Ti sei laureato all'Università dell'Iowa dove hai seguito un corso di cinema. Chi sono stati i tuoi primi insegnanti o mentori?
L’insegnante che ha avuto più influenza su di me è stato John B. Kuiper. L'Università dell’Iowa aveva relativamente pochi corsi di cinema e non era orientata alla produzione. Un giorno Kuiper, affermato storico del cinema, ha proiettato uno dei suoi primi film per la nostra classe, uno studio poetico su dei bambini su una giostra. La fotografia era molto forte, il montaggio impressionistico e senza dubbio ispirato a La corazzata Potemkin di Eisenstein. Ero al secondo anno di college e fu una grande sorpresa.
Cosa ha generato in te l’interesse per la fotografia cinematografica? Tuo padre era un proiezionista. Ti ha trasmesso questo interesse?
Assolutamente sì, anche se non mi ha mai detto "Tom, un giorno potrai fare il cameraman". Sebbene abbia girato cinegiornali per la Fox negli anni '30, la prospettiva che suo figlio facesse il salto da Cedar Rapids, Iowa, a Hollywood era decisamente una fantasia. L’incoraggiamento è arrivato quando mi sono ritrovato nella cabina di proiezione del Times Theatre. L'odore dell'arco di carbonio e dell'olio per le macchine, mio padre concentrato mentre passava da un proiettore all'altro, facevano parte della mia visione di quasi tutti i film che arrivavano in città. Il meraviglioso film italiano, Nuovo Cinema Paradiso illustra bene questa esperienza. Tragico incendio a parte, ovviamente. Ho imparato i rischi dei supporti di stampa in nitrato quando mio padre ne portò a casa qualche metro e l'abbiamo visto bruciare violentemente nel nostro cortile.
Durante la tua formazione artistica quale film del passato ti ha colpito di più dal punto di vista fotografico?
Guardo film da molto tempo, quindi ci sono diverse parti in questa risposta. Uno dei miei primi ricordi è stato Abbot and Costello Meet the Wolf Man. È interpretato da una nota coppia comica, quindi c'erano molte battute. I tipi stupidi fanno cose stupide e alla fine affrontano un lupo mannaro. Succedono molte cose divertenti ma per un bambino era un film terrificante. Non ero esattamente un intenditore di fotografia ma le immagini in bianco e nero mi hanno tenuto sveglio quella notte. Successivamente, nei primi anni '50, rimasi colpito da Le miniere di re Salomone, girato in Technicolor 3-strip. La storia era supportata dall’'intensa resa cromatica. Non avevo idea del perché, ma quell’esperienza per me è stata travolgente. Negli anni '60, poi, andai al college, sperando di imparare qualcosa su come venivano fatti i film. Le mie facoltà critiche stavano crescendo e film come L’anno scorso a Marienbad, nonostante la sua trama “obliqua”, esercitavano su di me un grande fascino. In realtà stavo diventando un insopportabile e snob cinéphile. Amavo i film che rischiavano. Ben presto, tuttavia, i miei gusti si sono rivolti a film "tradizionali" che, oltre ad andare bene al botteghino, erano realizzati magnificamente e raccontavano buone storie, come Il laureato e Bonnie e Clyde. Infine è stato Il padrino che ha cambiato tutto. Interpretazioni straordinarie, fotografia di Gordon Willis e sceneggiatura impeccabile di Francis F. Coppola. Al quale si aggiunse Il conformista, stilizzato e audacemente lirico..
L'incontro con il regista Charles Guggenheim è stato fondamentale per la tua carriera. Ti ha introdotto nell’industria cinematografica…
Charles credeva che le idee avessero la precedenza sullo stile. Nonostante una carriera che includeva The Great St. Louis Bank Robbery (Gli occhi del testimone), il primo ruolo da protagonista di Steve McQueen, nei primi anni '60 Guggenheim ha trasferito la sua società per dedicarsi al documentario e, successivamente, a film per campagne politiche. Charles era un caposquadra. Per lui, un film − ogni singola inquadratura nel film − doveva avere un'idea dietro.
Vincitore di quattro Academy Awards, Charles Guggenheim aveva qualche legame, o parentela, con l'uomo d'affari e collezionista d'arte americano Solomon Robert Guggenheim?
Che io sappia no. Ma nel 1972 ho lavorato con Charles a un documentario commissionato da Norton Simon, altro noto prodigio degli affari e collezionista d’arte tra i più importanti del mondo. Simon in seguito rinvigorì il Pasadena Museum of Art, dove ora risiede la sua collezione. Abbiamo girato in California in modalità cinema verité, seguendo ogni mossa di Simon. Quando eravamo quasi alla fine, sfinito dai suoi doveri rispetto alla camera, si è rivolto a Charles e ha detto: «So quanto è costato portarti qui. Cosa ci vorrà per farti smettere?».
La tua carriera incrocia uno dei grandi registi della New Hollywood, quando prendi parte, come operatore, a Un sogno lungo un giorno (1981), film musicale diretto da Francis Ford Coppola e interpretato da Frederic Forrest, Teri Garr, Raul Julia, Nastassja Kinski e Harry Dean Stanton. In questo film hai l'opportunità di lavorare con il cinematographer italiano Vittorio Storaro, all'epoca premio Oscar per Apocalypse Now. In seguito conquisterà altri due Oscar. Cosa ha significato per te l’incontro con Storaro?
Conoscere Storaro è stata più di un'opportunità di lavoro. Era la mia finestra su una nuova dimensione, in cui la fotografia non era solo un modo per creare immagini, ma un portale per la storia. Penso all'audace uso del colore di Vittorio, per esempio. Non era “letterale”, ma un percorso emotivo per comprendere i personaggi. Francamente, le immagini erano, semplicemente, straordinariamente belle. E poteva richiedere molta fatica. A Vittorio piaceva usare i Bruti ad arco. Era una cosa bellissima da guardare, ma anche stranamente antica. Cosa ha significato per me lavorare per Storaro? Per prima cosa, significava un girato in dolly di 7 minuti con oltre 20 movimenti separati − in tutte le direzioni − mentre l'azione si spostava da un appartamento all'altro. Vittorio è rimasto vicino alla camera con una scheda di rimbalzo, aggiungendo di tanto in tanto un po' di luce riflessa.
Qual è stato il tuo film d’esordio come cinematographer?
New Year’s Evil per Cannon Films, nel 1981. L'attrezzatura venne fornita da Cinemobile, una società che aveva iniziato a rendere popolari le riprese in esterni confezionando camere, impugnature e reparti elettrici su un autobus compartimentato.
La tua filmografia è piuttosto eclettica. Hai sperimentato diversi generi come commedia, commedia horror, fantasy, musica, avventura romantica, parodia. Immagino che non ci sia un genere che preferisci dal momento che i cinematographers girano film, non generi… Piuttosto sei andato alla ricerca delle migliori opportunità a livello visivo/fotografico, giusto?
L'hai detto perfettamente. Ogni film ha le sue sfide e le sue ricompense. Anche se c'è sicuramente un modo per girare seguendo una formula, le persone serie lo evitano.
Impossibile analizzare tutti i film che hai fotografato. Vorrei soffermarmi su alcuni... Vorrei iniziare con la tua collaborazione con Tim Burton. Hai lavorato con lui in due occasioni. La prima è stata il cortometraggio Frankenweenie (1984): è sia una parodia sia un omaggio al film Frankenstein del 1931 basato sul romanzo di Mary Shelley. Burton in seguito ha diretto un remake animato in stop-motion, uscito nel 2012. Come hai lavorato con Burton?
Tim proiettò alcuni video musicali che avevo girato e spiegò quale strada seguire con Frankenweenie. In seguito ho visto gli storyboard che aveva disegnato, che davano un senso molto forte della direzione che avremmo seguito. Non solo la storia, ma lo stile.
Questo è stato il tuo primo lavoro per la Union?
Essendo una produzione dei Disney Studios, questo è stato il mio primo lavoro “sindacale”. Già questo è stato un brivido di per sé, e ho pensato a mio padre nella cabina di proiezione del Times Theatre. Ne sarebbe stato molto felice.
A proposito, l'hai girato in bianco e nero… è stata una scelta concordata con Burton?
È stata una scelta di Tim, con la Disney totalmente a sostegno. Il nostro scenografo, John Mansbridge, in studio da decenni, era fin troppo felice di creare un mondo in bianco e nero. I nostri giornalieri sono stati elaborati in Technicolor, è stata l'ultima produzione che hanno realizzato con la pellicola in bianco e nero.
Ti sei ispirato a qualche film del passato?
Frankenstein, ovviamente. In realtà a tutti i film horror che ho visto crescendo. L'unica cosa che condividevano era l'estremismo. Dopotutto era questo quello che il pubblico aveva pagato per vedere, non la raffinatezza.
Il secondo film è stato Beetlejuice (1988), una commedia fantasy con Alec Baldwin, Geena Davis, Michael Keaton e Winona Ryder. Beetlejuice è stato un successo di critica e commerciale, ed è tra i film più noti di Burton... In questo film c’è in realtà una varietà di luci: da un'illuminazione naturale utilizzata nelle scene in cui Barbara (Davis) e Adam (Baldwin) vivono nel loro stato naturale di essere umani si passa alle scene con Beetlejuice (Keaton), caratterizzate da forti contrasti con toni come quelli del blu, del verde e del giallo. La tua luce spiega perfettamente cosa succede sullo schermo, facendo partecipe lo spettatore delle emozioni che provano i personaggi. Come hai pianificato il tuo lavoro?
Parte del piano è nato per caso, ad esempio durante la mia visita allo scenografo Bo Welch nel suo ufficio. Stava lavorando a un modello in scala dell'"Aldilà" usando un apparecchio fluorescente come luce da lavoro, con un gel giallo malaticcio fissato con del nastro adesivo. Funzionava perfettamente per il film e ha influenzato la scelta dei colori in altre scene.
Quali posizioni stilistiche hai scelto di adottare?
Volevo definire i tre mondi in cui abitano Adam e Barbara: il tradizionale New England, seguito da una sua versione postmoderna ed esagerata, e infine l'Aldilà. Il che era a dir poco surreale. C'erano varie opportunità per fondere questi mondi, come la ripresa che inizia come una lenta panoramica di un prato idilliaco, che si ritira per rivelare i nuovi inquilini Charles e Lydia che si rilassano nel loro nuovo portico, praticamente isolati dalla realtà.
Qual è in generale l'approccio di Burton alla fotografia?
Ha un ottimo gusto e odia le cose gratuite − sai, quelle cose in cui i registi si esibiscono. "Guarda che incredibile movimento del carrello..." Non che non abbiamo svolto un lavoro ambizioso. Ma si spera che, nella maggior parte dei casi, fosse giustificato.
Con Robert E. Collins, Frederick Elmes, John Hora e Crescenzo G.P. Notarile hai lavorato a Moonwalker (1988) un'antologia musicale con protagonista Michael Jackson. Che esperienza è stata?
Il mio contributo è stato una sequenza di Michael che pilota un aeroplano di un parco di divertimenti con un'animazione fantasiosa che lo circonda. Mesi dopo, mentre stavo girando i test per Beetlejuice, Moonwalker si è rimesso in funzione, questa volta su un palcoscenico vicino al nostro, ai Culver City Studios. Stavano usando molto fumo, che veniva risucchiato dal nostro set. Sfortunatamente, avevo bisogno che l'aria fosse perfettamente pulita. In qualche modo lo studio è riuscito a risolvere il problema.
Qual è il tuo ricordo di un'icona della musica pop come Jackson?
Era tranquillo, molto gentile e premuroso nei confronti della troupe. In seguito, ho girato la seconda unità di Captain Io per la Disney. Vittorio era il dop, per Francis F. Coppola. Abbiamo girato in 65mm usando le fotocamere 3D Disney. Giancarlo “Gia” Coppola diresse la 2a unità.
Jumanji è un film d'avventura-fantasy del 1995 diretto da Joe Johnston. Nel cast Robin Williams, Bonnie Hunt, Kirsten Dunst. Spettacolare e adrenalinico, in Jumanji la tua fotografia, unita alla sapienza degli effetti speciali, catapulta lo spettatore in una delle storie di maggior successo di Robin Williams. Cosa puoi dirmi del tuo approccio fotografico?
La storia inizia in un'idilliaca cittadina del New England, dove non accade mai nulla di insolito finché un bambino non scopre un vecchio gioco e decide, imprudentemente, di giocarci. Viene risucchiato in un altro mondo e non lo si vede mai più. Finché... un fratello e una sorella, nuovi occupanti della casa molti anni dopo, trovano un tabellone da gioco in soffitta. Ci giocano e il proprietario originale, ora adulto, si materializza (il personaggio di Robin) e il divertimento inizia. La fotografia passa alla modalità “avventura totale”, con un sacco di emozioni e azione. E quindi, ottimi effetti fotografici. Nessuno ha mai visto rinoceronti ed elefanti sfondare il muro di una biblioteca, per poi dirigersi in centro in città a schiacciare le auto. O scimpanzé che lanciano coltelli o che rubano un'auto della polizia. Il nostro regista, Joe Johnston, ha mantenuto comunque sempre un’impronta realistica. Ci sono cose divertenti e cose spaventose insieme. Abbiamo giocato davvero!
Potresti ricordare per me Williams, uno degli attori più amati nella storia del cinema?
Robin Williams era molte cose, tutte buone. Era un perfezionista, ma mai in una modalità “It's my way or the highway”. La troupe adorava Robin. Era una delle persone più operose che abbia mai conosciuto. Robin voleva fare le cose bene.
Tra i tanti altri film di successo che hai fotografato ricordo National Lampoon's Christmas Vacation e Dennis la minaccia. Hai ricordi particolari di questi film?
Ho bei ricordi di entrambi i film, forse perché ognuno di loro risuonava con la mia esperienza personale. E questo era il grande talento di John come narratore. Per un cinematographer questi film erano un'opportunità per visitare persone che avevo conosciuto da piccolo. John Hughes era un conoscitore della vita del Midwest, cresciuto qua e là. Christmas Vacation − chi di noi non è rimasto impigliato in una serie di luci disfunzionale? O non ha affrontato complicazioni con degli ospiti?
Nuove tecnologie: cosa pensi del passaggio epocale dalla pellicola al digitale?
Abbraccio la creazione di immagini digitali e le opportunità che offre. Avendo girato così tanti film nel corso degli anni, ho un attaccamento sentimentale alla pellicola. Ma gli strumenti digitali portano una libertà che non abbiamo mai avuto prima. Detto questo, il digitale deve essere utilizzato in modo responsabile. Non dovrebbe, ad esempio, essere utilizzato per rinviare le decisioni. Comincio con una serie di LUT che ci guideranno durante le riprese, anche se ci sarà la libertà di modificare le cose in seguito.
Rispetto agli anni in cui giravi su pellicola, qual è la differenza più grande nel tuo processo creativo?
La possibilità di previsualizzare i risultati. Come saranno la luce e il colore sulla pellicola? In ogni progetto, di qualsiasi dimensione esso sia, ci sono prove di trucco e acconciatura, dei costumi, della scenografia, degli oggetti di scena. Questi test offrono anche l'opportunità di testare l'illuminazione, i colori in gel, le lenti e così via. Ora si arriva al primo giorno di riprese con molta più sicurezza.
Quali tra i cinematographers, passati e presenti, ammiri di più?
Vittorio Storaro ha svolto un lavoro audace e innovativo a partire da Il conformista nel 1970. È stato anche un meraviglioso mentore per me.
C'è una sequenza particolare nella tua carriera di cui sei più soddisfatto?
Mi dispiace no, non posso parlare di una sequenza specifica… Nel complesso, la mia fotografia è cresciuta negli anni ed è stata plasmata dalla mia collaborazione con ogni regista con cui ho lavorato. Devo molto a loro e alle persone eccellenti della troupe che hanno lavorato duramente per realizzare la nostra fotografia.
Qual è la tua opinione sull'industria cinematografica oggi? Pensi che la magia del cinema si stia perdendo a causa delle piattaforme di streaming?
Purtroppo la magia dell’andare al cinema è quasi svanita. L'esperienza di guardare un film senza distrazioni, completamente coinvolti nella storia, è andata perduta.
Insegni alla University of North Carolina School of the Arts. Qual è l'insegnamento più importante che trasmetti ai tuoi studenti?
Il mantra nella maggior parte delle scuole di cinema è "We Are Storytellers". Sarebbe allettante metterlo da parte quando si tratta di studenti di fotografia cinematografica. Alcune persone considerano le riprese di un film principalmente come una questione tecnica. E sì, un film usa le immagini per raccontare una storia. Ma quelli dietro la macchina da presa raccontano la storia, inquadratura dopo inquadratura. Storaro parla eloquentemente di questo processo nel suo libro Scrivere con la Luce.