È di recente pubblicazione per Einaudi la nuova edizione del saggio La fine del mondo di Ernesto De Martino. Come ogni studioso ed ogni appassionato di antropologia sa, La fine del mondo è un capitolo per così dire “maledetto” della produzione bibliografica del nostro antropologo più fecondo: iniziato nei primi anni ’60, annunciato nel 1964 in un articolo nella rivista «Nuovi argomenti» con il titolo di Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, il saggio restò incompiuto a causa della prematura morte di De Martino nel 1965. Pochi mesi dopo la sua scomparsa iniziò fra i suoi collaboratori un intenso lavoro di catalogazione dei frammenti del saggio, che dopo parecchie vicissitudini vide la luce nel 1977, a cura dell’allieva Clara Gallini. Gli inevitabili limiti di questa prima edizione hanno spinto Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio a rimettere mano all’immenso archivio De Martino, realizzando una seconda e più efficace edizione di questa incompiuta opera-mondo che è uscita in Francia nel 2016 e in Italia lo scorso autunno. Complice la situazione attuale creata dal Coronavirus, la lettura de La fine del mondo nella sua nuova, brillante edizione mi ha portato a concepire l’idea di un viaggio a puntate attraverso le varie apocalissi cinematografiche, da Roland Emmerich ad Andrej Tarkovskij, passando per Lars von Trier e molti altri.