Jörg Widmer è uno dei più importanti operatori di macchina e direttori della fotografia contemporanei. Specializzato nell'utilizzo della steadycam, in qualità di operatore di macchina o direttore della fotografia di seconda unità ha preso parte a film come Al di là delle nuvole di Wim Wenders e Michelangelo Antonioni, Il pianista di Roman Polanski, pluripremiato agli Oscar, il cult Good Bye Lenin di Wolfgang Becker, Babel di Alejandro Iñárritu, La pianista, Il nastro bianco e Amour di Michael Haneke, gli ultimi due entrambi premiati con la Palma d'Oro a Cannes, e Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino. Nonché la prima stagione dell'acclamata serie Netflix tedesca Dark. Fra i film di cui ha firmato la fotografia spiccano il documentario Buena Vista Social Club e il docufilm 3D Pina di Wim Wenders, in quest’ultimo ha condiviso il ruolo con Helen Louvert. Ha iniziato a collaborare con Terrence Malick nei primi anni Duemila, facendo da operatore di steadycam e direttore della fotografia di seconda unità prima per The New World (2005), poi per la Palma d'oro The Tree of Life (2011), e per il trittico To the Wonder (2012), Knight of Cups (2015), film metacinematografico in cui Widmer, per decisione di Malick, appariva brevemente anche come attore nel ruolo di un fotografo, e Song to Song (2017). Se in questi primi cinque film era Emmanuel Lubezki l'autore della fotografia, nel più recente A Hidden Life, presentato al Festival di Cannes del 2019, Widmer ha assunto il ruolo di cinematographer. Ha inoltre fotografato The Book of Vision, prodotto esecutivamente da Malick e diretto dal suo discepolo Carlo S. Hintermann, presentato in apertura alla Settimana della Critica di Venezia 2020, e ha proseguito la sua collaborazione con Malick anche per The Way of the Wind, il nuovo progetto del regista texano incentrato sulla vita di Gesù.
Si ringrazia Simone Marra (AIC - MicroSalon) per la consulenza nella traduzione dei termini tecnici. Revisione della traduzione Silvia Tarquini
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The New World, girato nel 2004 e distribuito in sala nel 2006, ha segnato la tua prima collaborazione sia con Malick che con il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki. Come sei stato coinvolto nel progetto? Come e quando hai incontrato per la prima volta Lubezki e come e quando hai incontrato per la prima volta Terrence Malick?
Inizialmente era previsto che io girassi un altro film con Malick, ma quando andai a Los Angeles per incontrarlo mi ha chiesto di girare The New World. Anche Emmanuel Lubezki si trovava a Los Angeles in quel momento perché stava girando Lemony Snicket - Una serie di sfortunati eventi, e mi ha proposto di andare sul set del film e di incontrarlo. In qualche modo ci siamo piaciuti e abbiamo deciso di collaborare. Eravamo entrambi piuttosto eccitati perché anche per lui quello era il primo film che avrebbe girato con Malick. Una serie di sfortunati eventi era il classico film in studio, con uno storyboard, illuminato in maniera dettagliata, ogni inquadratura pianificata con elaborate sessioni di trucco, prove con segni di posizione e così via. Emmanuel non vedeva l’ora di girare The New World, perché entrambi pensavamo che avrebbe rappresentato un’esperienza completamente diversa rispetto a quello a cui eravamo abituati: scoprire situazioni inaspettate, mantenendosi pronti a filmarle nel momento in cui accadevano. Eravamo aperti a scoprire delle cose mentre giravamo come la troupe di un film documentario invece di pianificare ogni ripresa prima del ciak. In quel momento nel percorso artistico di Malick c’era ancora una sorta di sceneggiatura, c’era un piano di lavorazione, ma già allora accogliere l’inaspettato e l’imprevisto era una regola chiave sul set.
The New World ha sviluppato ulteriormente l’innovativo stile di regia visto ne La sottile linea rossa, con movimenti fluidi della macchina da presa e un grande spazio lasciato all’improvvisazione, tanto del cast quanto della troupe. Quali discussioni preliminari avete avuto tu e Lubezki con Malick, per impostare la fotografia e i movimenti di macchina del film? Una volta sul set, come ha funzionato la relazione fra te, la macchina da presa e gli attori?
Si è trattato semplicemente di una continua scoperta, per tutti noi. Abbiamo cercato di attenerci al principio di evitare movimenti laterali o obliqui, gli attori dovevano muoversi solo in avanti, avvicinandosi o allontanandosi dalla macchina da presa. Un’altra parte delle indicazioni era seguire sempre la luce. La luminosità e la luce hanno determinato lo spazio degli attori, fondamentalmente hanno co-diretto le riprese e le scene. Un’altra scelta fondamentale riguardo le riprese di The New World riguardava le ottiche: invece di avere molte lenti abbiamo finito per usare solo un set di tre focali corte, così che la prospettiva del pubblico sui personaggi non cambiasse.Quando sbagliavamo, la scena semplicemente non sarebbe finita nel montaggio definitivo del film. Gli attori hanno abbracciato questo metodo di ripresa perché permetteva loro di essere molto liberi, e di sperimentare molte idee. Una parte del cast era composta da veri nativi americani ma ovviamente non erano abituati allo stile di vita del primo Cinquecento, quindi hanno dovuto scoprire e imparare come vivevano i loro antenati. Gli attori nel ruolo dei coloni inglesi hanno dovuto adattarsi alla vita e agli strumenti dei veri colonizzatori. Inizialmente si pensava che il Canada avrebbe offerto i paesaggi ideali per girare The New World, ma è venuto fuori che la regione di Jamestown, lungo il fiume Chickahominy, vicino a Williamsburg, era il posto giusto dove organizzare le riprese, in luoghi vicini a dove erano realmente avvenuti i fatti storici raccontati nel film. È stato emozionante trovarsi in questi luoghi segnati dalla storia americana. Il forte è stato costruito da Jack Fisk, lo scenografo, che ha fatto un lavoro grandioso rendendolo molto vicino al reale, anche per le dimensioni. Abbiamo utilizzato per il film la costruzione del forte, facendolo costruire dai coloni inglesi e integrandolo così nella narrazione. Malick e Fisk erano sempre molto attenti al trascorrere del tempo e avevano programmato, saggiamente, di filmare in accordo con i flussi naturali. Si sono preparati per poter girare scene primaverili, estive, autunnali e invernali.
Per The Tree of Life hai fatto anche da direttore della fotografia di seconda unità in Italia. Quanto a lungo sono durate queste riprese secondarie e quali luoghi avete attraversato nel nostro paese? Come ti sei coordinato con Malick e Lubezki per queste brevi scene girate dalla seconda unità?
Lo stile del film era stato chiaramente impostato dalla prima unità di fotografia. Non era diverso dal lavoro della seconda unità, che avevo gestito in Virginia in precedenza. Non ho ricevuto indicazioni da Malick che mi dicessero esattamente cosa fare. Si trattava più che altro di seguire l’idea di fondo, quello che lui voleva ottenere e dove filmare, ma senza nessuna precisa descrizione delle inquadrature. Siccome ero già addentro allo stile del film e ne conoscevo le regole, è stato semplice gestire queste riprese di seconda unità.
In Italia siamo andati in diversi posti a nord di Roma, fra cui Bomarzo, dove abbiamo girato nel Giardino dei Mostri con le sue bellissime sculture. Il produttore Nicolas Gonda venne con noi e ci aiutò a trovare le location che Malick aveva scelto in precedenza. Da quel momento in poi ci siamo mossi liberamente e abbiamo girato tutto ciò che pensavamo fosse adatto al film. Gerardo Panichi e Carlo Hintermann erano i nostri produttori esecutivi per le scene in Italia, ed è stato così che ci siamo conosciuti.
Knight of Cups e Song to Song, così come alcune scene di To the Wonder, sono stati girati sia in pellicola che in digitale, con Knight of Cups che conteneva addirittura brevi riprese con la GoPro. Quali erano per voi i vantaggi tecnici ed artistici dell’alternare pellicola e digitale? Come siete riusciti a unirli organicamente al montaggio e in color?
È facile mescolare formati diversi, la maggior parte del pubblico non se ne accorge. Anche in The New World c’erano alcune inquadrature girate in 65mm che avevamo mescolato con riprese in anamorfico in 35mm, e nessuno potrebbe distinguerle, se non guardando molto attentamente e con occhio esperto. To the Wonder è stato girato completamente in pellicola, solo un paio di scene ambientate a Parigi di notte sono state girate in digitale, con una RED ONE. In Knight of Cups e Song to Song la quantità di riprese in digitale è aumentata: al tramonto ci spostavamo sempre su una macchina da presa digitale, che permetteva di avere una fantastica definizione dei neri, e quindi trasmetteva meglio l’atmosfera notturna. Se fossimo stati in zone rurali non sarebbe stato lo stesso, ma in città piene di luci notturne l’ALEXA ci è sembrata perfetta.
Lo stile registico di Malick, come hai detto, si sforza di catturare ciò che è spontaneo e inaspettato, andando spesso a filmare molto vicino agli attori, con lunghi take spesso improvvisati. Quali indicazioni Malick dà alla troupe prima dell’inizio effettivo del giorno di riprese? Una volta dato il ciak, come ti coordini con Lubezki e il focus puller, anche per evitare, banalmente, che l’immagine vada fuori fuoco?
Ogni mattina Malick arrivava sempre sul set con un paio di nuove idee che gli erano venute nottetempo e iniziava a parlarne con Lubezki e con gli attori prima che le riprese iniziassero. Mentre giravamo, lui guardava sempre le immagini che la macchina da presa catturava, aggiungeva nuove battute e idee anche durante le riprese e aiutava gli attori e il reparto fotografia a provare nuove versioni della stessa scena. Il suo approccio non era tanto quello di “dirigere” quanto quello di lasciare che le cose accadessero e osservare, fino a quando non accadeva qualcosa di grandioso. È stato un processo complesso, ma molto gioioso e creativo. Il focus puller era quello di noi che aveva il minor numero di informazioni. In un film di Malick, per il focus puller, non si tratta solo di mantenere il fuoco su qualcosa ma di capire in anticipo dove potrebbe muoversi la camera, e di come, letteralmente, spostare il fuoco su un'altra persona o su un altro oggetto. In tutti i film che ho girato con Malick eravamo in costante esplorazione ed era una scoperta continua. Con o senza sceneggiatura, c’era sempre un'idea precisa di come muovere la macchina da presa, di come muoverci con gli attori, di essere pronti a nuove idee e sperimentarle. Le immagini che raccogliamo con la macchina da presa sono la materia prima del film.In fase di montaggio Malick scopre quali scene sono sufficientemente forti e quali scene sono davvero essenziali al film. Terry è sempre molto sicuro di dove vuole girare, ad esempio per To the Wonder era molto importante per lui andare in Francia. Sceglie con grande attenzione le zone dove vuole essere e poi si gira in quei luoghi come una troupe documentaristica, in un mood veloce e con molta libertà. Molto spesso non sapevamo dove gli attori sarebbero andati e cosa avevano in mente di fare, ma cogliendo l’attimo abbiamo ottenuto delle scene meravigliose. Nei primi film che ho girato con Malick, ero io l’operatore, tuttavia, di tanto in tanto, anche Lubezki prendeva la macchina da presa. Uno di noi era sempre pronto a cambiare gli stop per togliere luminosità, dal momento che ci muovevamo in continuazione senza fermare l’inquadratura. Ci spostavamo da zone in ombra a punti della scena più luminosi, e questo richiedeva di cambiare l’esposizione quasi continuamente.
Il look tipico dei film di Terrence Malick viene ottenuto anche attraverso scelte atipiche in fatto di ottiche. Sulla rivista ufficiale dell’ASC ho letto le schede tecniche dei film che Lubezki ha fotografato, ma non coprono tutti e sette i film che tu hai girato con Malick. Ci puoi brevemente dire quali lenti, quali pellicole e quali macchine da presa sono state usate per tutti i film di Malick da The New World fino a Song to Song?
Abbiamo girato sempre con macchine da presa della Arri, fatta eccezione per The New World che è stato girato con delle lenti anamorfiche della Panavision, e una Panavision 65 Studio Camera a mano; da The Tree of Life in poi abbiamo sempre usato camere Arri e lenti Zeiss Master Primes, senza filtri. La pellicola era Kodak 50, 200 ISO Daylight e 500 ISO Tungsten. In To the Wonder, come dicevo prima, per poche scene girate a Parigi abbiamo usato la RED ONE. Per Knight of Cups e Song to Song l’Alexa M, che era appena stata messa sul mercato, è stata perfetta perché teneva separata la batteria dall’unità di ripresa: l’operatore aveva bisogno soltanto della “testa” della macchina da presa, molto leggera e comoda da manovrare. Un aspetto negativo era che un elettricista o il primo assistente operatore doveva sempre seguire la camera portando con sé il registratore e la batteria, il che non era semplice dal momento che il cavo della fibra ottica era molto fragile.
Una vita nascosta - A Hidden Life è stato il primo film di Malick dove tu sei accreditato come principale autore della fotografia. Come e perché Malick ti ha proposto di rivestire anche questo ruolo? Come ti sei preparato alle riprese? Una volta sul set, hai continuato a fungere anche da principale operatore di macchina?
Si è deciso che fotografassi io quel film perché la storia era ambientata fra Austria e Germania. Giravamo in Europa, tutti gli attori, più o meno, erano tedeschi o austriaci, quindi la comunicazione sarebbe stata molto più facile. Avendo girato già sei film con Terry, ci conoscevamo sufficientemente bene e avevo familiarità con i suoi metodi. Sapevo che non avremmo avuto molto a che fare con la luce artificiale, e che anzi avremmo cercato di usare il più possibile il sole e la luce naturale. Soprattutto per questo film ambientato in aree tanto remote, in cui la natura gioca un ruolo importante, un utilizzo attento della luce naturale poteva rendere le immagini molto belle, con effetti che si sarebbero potuti ottenere altrimenti solo con un grande dispendio di luci artificiali. C’era comunque molto lavoro per gli elettricisti. Soprattutto nelle scene in interni, dove la sfida stava nel creare contrasto e oscurità, era piuttosto impegnativo per loro reagire in fretta per mantenere fuori campo i “riflessi” ‒ delle superfici bianche riflettenti ‒ e le “bandiere”, dei panni neri che invece assorbono la luce. Tanto più perché stavamo girando con lenti molto aperte. Il DIT controllava sempre gli stop, ed era incaricato di trovare la giusta esposizione quando ci muovevamo da interni ad esterni senza fermare la ripresa. Per la prima volta in un film di Malick, oltre a molte camere a mano e Steadicam, abbiamo ampiamente usato anche gli slider. Ma mai un dolly. Ai vecchi tempi del cinema in pellicola, le scene che giravamo finivano quando il caricatore si srotolava dopo sei minuti. Con le macchine da presa digitali abbiamo cercato di non superare mai i quindici minuti a ripresa per non far stancare troppo gli attori e me, ma a volte è capitato che abbiamo girato ininterrottamente 40 minuti in un unico take. Era un’esperienza stupefacente vedere come l’azione cominciasse a sembrare reale e gli attori si trasformassero davvero nei personaggi che fino a quel momento stavano solo interpretando. Iniziavano a sentirsi davvero quelle persone, e per loro era molto intenso mantenere lo slancio e rimanere immersi nella parte. La ripresa più lunga è durata 43 minuti ed era ambientata nel villaggio, mostrava Franz e Fani giocare con i bambini dopo essere tornati a casa.
A Hidden Life è stato il primo film di Malick ad essere girato interamente in digitale. Quale macchina da presa digitale avete scelto e perché? Era sempre l’Alexa?
Lubezki aveva scelto l’ARRI ALEXA come macchina da presa digitale per i precedenti film di Malick; io però avevo girato altri film anche con la RED Dragon. Ho mostrato alcuni test a Malick e abbiamo deciso di usare la RED per A Hidden Life. Dal mio punto di vista la RED ci dava maggiori possibilità in fase di post-produzione, potevamo girare in 6K e ciononostante avere una macchina da presa molto leggera, aspetto da non sottovalutare visto che già sapevamo che avremmo girato take molto lunghi. Sono molto soddisfatto del risultato, soprattutto per quanto riguarda le scene in ambienti con poca luce, che erano un’autentica sfida. Passavamo rapidamente dalla macchina a mano alla steadycam, a seconda della scena che stavamo girando: soprattutto quando giravamo con i bambini dovevamo reagire istantaneamente, perché si mettevano a giocare e noi dovevamo cogliere quei momenti. Ero molto felice di passare, nel giro di quindici secondi, dalla steadycam alla camera a mano, o dallo slider alla steadycam quando il sole si affacciava tra le nuvole ed era la luce giusta per seguire Fani, la moglie del protagonista, attraverso il villaggio. Anche per girare con gli animali a volte dovevamo essere veloci e pronti a cogliere il momento come una troupe documentaristica, mettendoci in ascolto della natura e cogliendo la luce giusta. Abbiamo girato anche due giorni in inverno; per questa breve sessione di riprese abbiamo usato la Helium, il nuovo modello di RED, allora una novità. La RED aveva introdotto anche l’IPP2 Imagines Processing Pipeline, un processore che ci ha permesso di avere un migliore controllo dei riflessi e dei punti in ombra. Questo strumento venne messo in circolazione nello stesso periodo in cui stavamo girando e ci ha dato un grande aiuto in fase di post-produzione.
Dai tempi de I giorni del cielo la filmografia di Terrence Malick è stata contraddistinta dalla ricerca di un’illuminazione il più possibile naturale delle scene. A Hidden Life è stato girato interamente con luce naturale oppure tu e Malick a volte avete scelto di utilizzare delle attrezzature di illuminazione?
Con Malick l’uso della luce naturale è una priorità. La luce naturale è meravigliosa da vedere e ti permette di girare molto più velocemente, perché non devi modificare la posizione delle luci di scena tutto il tempo. Questo è molto importante quando usi obiettivi grandangolari e vuoi essere pronto a cogliere tutto immediatamente. Per A Hidden Life comunque avevamo delle luci che abbiamo utilizzato di sera. Inoltre le scene nella prigione erano troppo buie per essere illuminate senza forti fonti di luce, ma ci siamo in ogni caso sforzati di farle apparire il più naturali possibile. Le scene ambientate dentro le celle abbiamo cercato di girarle al momento giusto, quando la luce del sole entrava dentro, ma allungavamo il tempo utile per le riprese usando degli specchi. In generale, l’idea alla base delle riprese era sempre quella di usare il momento migliore e di fermarci quando la luce naturale non era più buona. Ciò che rendeva diverso A Hidden Life dagli altri film era il fatto che Terry precedentemente aveva sempre girato in zone con condizioni climatiche prevedibili. In Texas potevamo pianificare dove era più comodo girare di mattina e dove invece ci conveniva spostarci nelle successive ore del giorno. Girare in Europa invece voleva dire non avere condizioni climatiche prevedibili, a volte c’erano le nuvole per giorni interi e questo rendeva l’utilizzo della luce naturale un’autentica sfida. L’aspetto positivo era che Terry sa tutto sulla fotografia cinematografica e sulle luci, per cui era felice di seguire le restrizioni che ci eravamo dati da soli. A volte abbiamo dovuto cambiare il piano delle riprese perché in alcuni set era semplicemente troppo buio o perché comunque avevamo in mente una diversa luce per una specifica scena. Nella nostra visione del film la luce era un vero e proprio personaggio.
Parlando più nello specifico di alcune scene di A Hidden Life, verso l’inizio del film c’è una meravigliosa inquadratura, intravista anche nel trailer, che mostra Franz e Fani a tavola. Come hai ottenuto un’illuminazione tanto intensa?
La lampadina è la principale fonte di luce ed è in campo. Non c’è molto altro. In post-produzione si possono tracciare delle piccole “maschere” per rendere la luce meno forte, ma di per sé è solo la lampadina a creare quell’illuminazione.
Una delle scene più pregnanti di A Hidden Life mostra il monologo di un pittore di chiese, ascoltato solo da Franz. Il volto vissuto di Johan Leysen è continuamente immerso in un chiaroscuro cangiante, mentre si aggira dentro e fuori la chiesa ritoccando vecchi affreschi. Come hai ottenuto questi contrasti di luce? È bastato gestire con attenzione la luce naturale oppure è stato necessario l’aiuto di illuminazioni da set?
Anche qui si tratta soltanto di trovare il momento giusto per girare e usare con attenzione la luce naturale; quando la luce naturale se ne va, devi spostarti su un nuovo punto macchina per mantenere la continuità fra le inquadrature. Alcune scene nella prigione invece le abbiamo dovute illuminare con delle luci artificiali. Per una scena avevamo un corridoio scuro lungo un centinaio di metri e vedevamo soltanto una finestra che abbiamo dovuto illuminare dall’esterno con delle attrezzature di illuminazione piuttosto forti. Usando i riflessi per indirizzare la luce siamo riusciti a creare un’immagine molto potente e molto scura.
Un’altra sequenza visivamente imponente è quella che precede l’esecuzione di Franz, che accade fuori schermo. Dapprima Franz aspetta con altri prigionieri al di fuori dell’edificio dove avvengono le decapitazioni, poi entra e, mentre si avvicina alla ghigliottina, sembra già immerso in uno spazio metafisico, mentre la scena termina prima della sua morte. Come hai illuminato quell’ambiente?
Anche qui, è solo luce naturale. Per girare quella scena abbiamo scelto con attenzione sia lo spazio che il momento del giorno. Quello che facevamo sempre era oscurare lo spazio dietro la macchina da presa, per avere la profondità di campo che deriva dall’andare dal buio verso la luce, ed evitare che la scena fosse illuminata in modo troppo diretto e frontale. La magia della scena dell’esecuzione deriva dal fatto che non si vede la decapitazione, perché già la scena precedente, in esterni, dove vedevamo Franz che parla all’altro condannato a morte, ti coinvolge emotivamente così tanto che a stento puoi sopportare l’idea che di lì a poco sarà giustiziato. L’impatto della scena all’interno della stanza della morte è tanto forte perché non vedi l’esecuzione, la devi immaginare.
Da un lato, Terrence Malick sembra voler evidenziare l’unicità e le specificità del linguaggio cinematografico, dall’altro il suo stile frammentario e fluido nello stesso tempo può essere associato sia con la tradizione modernista che con lo stile di diversi pittori tra il XIX e il XX secolo, diciamo da Monet a Picasso. Non è raro di fatto trovare un tableau vivant, implicito o esplicito, nei suoi film, come La ronda dei carcerati di Van Gogh citata in A Hidden Life: quali riferimenti pittorici e cinematografici avete condiviso con lui nel corso degli anni?
Malick ed io siamo stati in un paio di musei, non abbiamo mai visto un film insieme ma abbiamo spesso parlato di altri film. Ogni regista e ogni autore della fotografia ha il suo background visivo frutto della formazione e degli interessi personali. Per poter parlare di come fare un film è molto utile confrontarsi su altri film, su quadri, su opere d’arte, su romanzi. Non si deve per forza replicare quello che si è visto, spesso si fa riferimento solo a un dettaglio preciso della “reference”. Magari hai studiato le opere di Caspar David Friedrich e resti affascinato da come dipinge le albe e i tramonti, lo tieni a mente, però poi, una volta sul set, cerchi di ottenere qualcosa di diverso. Un altro pittore che molti direttori della fotografia tengono come riferimento è Johannes Vermeer: il modo in cui, nei suoi quadri, la luce colpisce la superficie degli oggetti e dei personaggi è semplicemente affascinante. Era un grande osservatore e sapeva tracciare con un’abilità unica tanto una luce dolce quanto una luce più dura e forte. Tutto questo fa parte del bagaglio culturale e visivo di un direttore della fotografia, ma in qualche modo viene assorbito spontaneamente e quando illumini un set o un volto tieni a mente degli esempi ma non ne sei per forza consapevole in quel momento.
Durante la post-produzione di A Hidden Life, quali sono stati i vostri principali interventi in termini di conforming e color correction? Avevate sviluppato una LUT prima delle riprese?
Dal momento che avevamo sul set Christian Kuss come DIT, lui quotidianamente si prendeva cura dei “giornalieri” – vale a dire delle riprese del giorno – e grazie a lui già a fine giornata potevamo vedere immagini piuttosto vicine a quelle che volevamo ottenere come risultato finale in post-produzione. Questo si è rivelato molto utile anche durante il processo di montaggio, dal momento che i montatori potevano sentire l’atmosfera del film già mentre mettevano insieme le scene. È stato inoltre molto utile il fatto che già si era deciso che Kuss, oltre ad essere il DIT, sarebbe stato anche il colorist di A Hidden Life, per cui usava sul set le sue impostazioni preferite in DaVinci Resolve, facilitandosi da sé la color. Così facendo abbiamo avuto bisogno di appena 12 giorni per ultimare il color grading del film. Grazie alla latitudine di posa di queste macchine da presa, in fase di color correction abbiamo potuto sfruttare al meglio le cosiddette “maschere” per migliorare alcuni punti luce o creare situazioni visivamente più belle aumentando l’oscurità sul fondo. Oltre a questo, dovevamo rendere più omogenee le scene in funzione del montaggio e aumentare un po’ l’impatto delle inquadrature una volta montate. Non abbiamo usato una LUT sul set, ci siamo limitati a fare una corretta esposizione. Non sarebbe stato necessario, dal momento che avevamo questa fantastica opportunità di correggere i nostri giornalieri sul set!
Dopo A Hidden Life hai girato anche The Book of Vision, diretto da Carlo S. Hintermann, che aveva collaborato, come hai ricordato, alla parte italiana delle riprese di A Tree of Life. Malick in questo film è accreditato come produttore esecutivo. Come sei stato coinvolto nel progetto? The Book of Vision in cosa è stato simile e in cosa è stato differente, dal tuo punto di vista di autore della fotografia, dai precedenti film di Malick?
Carlo Hintermann ha scritto un libro su Malick. Conosce molto il suo lavoro e ama l’idea di abbracciare la natura e seguire gli eventi che capitano davanti a noi. Mi ha proposto di girare il suo film già quando ci siamo incontrati in Italia per le riprese di seconda unità di The Tree of Life: mi diede la sceneggiatura e già allora fu piuttosto chiaro su come voleva girare. The Book of Vision non doveva essere girato nel modo in cui abbiamo girato A Hidden Life, questo era sicuro. Carlo aveva in mente delle scene chiare e già inserite in una sceneggiatura, e voleva utilizzare i dialoghi, non la voce fuori campo. Anche se eravamo affascinati dall’uso delle lenti strette, ci siamo presto accorti che il suo film aveva bisogno di tutto il range delle lenti focali. Era chiaro che avevamo bisogno di scenografie elaborate, prove, posizioni per gli attori, carrelli, gru, pesanti strumenti di ripresa e molto altro materiale; ciononostante c’era comunque molta libertà per gli attori. Per me The Book of Vision è stato sicuramente diverso, in termini di fotografia, dallo stile che usiamo per i film di Malick, ma penso che il modo in cui alla fine abbiamo girato il film di Carlo sia stato adeguato e molto poetico. Per ogni film che faccio cerco di trovare uno stile particolare, e ciò che va bene per uno non va per forza bene per l’altro: quello che è davvero utile è parlare col regista, prima di trovare la giusta chiave. Per andare più sul tecnico, alcune parti di The Book of Vision le abbiamo girate con la RED Helium, altre, girate un po’ dopo, con la Monstro, un altro modello innovativo di macchina da presa RED messo in commercio mentre stavamo girando.
Hai girato come direttore della fotografia anche il nuovo di Malick, di cui da poco è stato annunciato il titolo The Way of the Wind. Rispetto a A Hidden Life, la fotografia di questo nuovo progetto ha avuto qualche cambiamento tecnico? Il Coronavirus ha ritardato le tempistiche del montaggio?
Sì, c’è stata una parziale novità riguardo la macchina da presa perché abbiamo girato con una RED Helium e anche con una RED Monstro, e abbiamo potuto girare buona parte del film in 7K, alcune parti anche in 8K. Il principio generale delle riprese era lo stesso di sempre: fare tutto a seconda della luce del giorno, tenere al minimo l’utilizzo di luci da set, cercare di trovare il momento giusto del giorno per girare; usare lenti strette, steadycam, camera a mano. Per gli attori: provare, anche a costo di fallire, stare al gioco, farsi avanti con delle idee. Come al solito, abbiamo ripreso tutto ciò che era naturale – l’acqua, il fuoco, il vento, le condizioni climatiche – e che avveniva sotto i nostri occhi mentre giravamo. Non so quanto il Coronavirus abbia fatto ritardare il montaggio del film; sicuramente Terry si prenderà il tempo necessario per tirare fuori il meglio da tutto il materiale che abbiamo girato, e fare il miglior film possibile nel rispetto delle sue intenzioni originali.
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