Walter Fasano (Bari, 1970) oggi è uno dei principali montatori italiani, saltuariamente anche regista e sceneggiatore. Fra i film da lui montati, Santa Maradona di Marco Ponti, Il cartaio, Ti piace Hitchcock? e La terza Madre di Dario Argento, Viaggio sola di Maria Sole Tognazzi, 5 è il numero perfetto di Igort e America Latina dei Fratelli D'Innocenzo. È noto internazionalmente per la sua collaborazione con il regista candidato all’Oscar Luca Guadagnino, di cui ha montato tutti i film, dall’esordio The Protagonists, del 1999, fino ai recenti Chiamami col tuo nome e Suspiria. Realizziamo con lui una lunga intervista, in due puntate. la seconda è qui
Quali sono le tue origini e come è nato in te l’interesse per il cinema?
All’inizio degli anni ’70 il passaggio di un film in televisione era un evento: i film si vedevano al cinema e le sale erano numerosissime. Per ragioni personali le ho frequentate molto sin da piccolo: vedevo un film anche più volte di seguito, un tempo con un solo biglietto entravi in sala e potevi rimanerci quanto volevi. Una domenica del 1982, a dodici anni, mi diedero per disperso: ero andato a vedere Fitzcarraldo di Herzog senza avvertire i miei. Accompagnavo questa grande passione per i film alla curiosità nel capire “chi faceva cosa” in un film. Compravo libri sul cinema, leggevo le critiche ed i cast, imparavo i nomi. Compravo i 33 giri delle colonne sonore, che ascoltavo molto prima che il film uscisse in sala. La mia cameretta era tappezzata di poster e locandine e organizzavo nel condominio una rassegna di film proiettati in Super8, con un proiettore che avevo ricevuto in regalo dopo averlo tanto desiderato. Ricordo bene le proiezioni di Sul lago dorato di Mark Rydell, Diritto di cronaca di Sidney Pollack e Rocky III di Stallone. Seguivo le numerose rassegne cinematografiche cittadine, vedendo tutto, facendomi un'idea.
Quale è stata la tua formazione come montatore e quali sono stati i primi film che hai montato?
A diciotto anni ero iscritto a Giurisprudenza e avevo dato i primi esami. Poi ho capito, più o meno all'improvviso, che la mia strada era altrove e mi sono iscritto al DAMS di Bologna, laurendomi in Storia del Cinema con una tesi sul poliziottesco. Nello stesso periodo ho superato le selezioni al Centro Sperimentale per il corso di montaggio: avevo capito che era l'ambito che mi interessava di più. Ho studiato per due anni con Roberto Perpignani, il mio maestro, e mi sono diplomato lì.
Come e quando hai conosciuto Luca Guadagnino?
Luca non frequentava il Centro Sperimentale, rivendicava anzi il fatto di non aver seguito nessuna scuola di cinema, la sua formazione è universitaria e sostanzialmente “autarchica”. Avevamo però un'amicizia in comune: Paolo Bravi, il direttore della fotografia di un documentario di Francesco Munzi che avevo montato a scuola, si chiamava Nastassia. Luca aveva visto il documentario e si era interessato al mio lavoro. Ci siamo conosciuti così nel ’95, una sera, in un bar del quartiere Testaccio di Roma e sono subito emerse coordinate comuni nei gusti: una su tutte, John Carpenter. Era da poco uscito Il seme della follia e ne parlavamo con grande entusiasmo difendendolo da Munzi e Bravi che avevano altri gusti e passioni. Quella sera è nata la nostra amicizia.
Quali furono i vostri primi lavori insieme?
Luca mi propose subito di montare il suo primo cortometraggio narrativo, Qui, girato in Super16mm. Ricordo ancora il messaggio in segreteria telefonica in cui mi “offriva il lavoro”. Lo montammo in uno studio in via Settembrini, a Roma, su una moviola a otto piatti. Montai il suono in pellicola utilizzando nastro magnetico 35mm perforato, recuperato da uno studio che ce lo regalò: le bobine, prima di essere cancellate, contenevano il mix internazionale di Lo chiamavano Bulldozer, con Bud Spencer. Il cortometraggio era piuttosto estremo e le intenzioni poetiche di Luca erano già lì. Per noi fu la verifica di un'intesa. Un anno dopo lo presentammo al Festival di Taormina, allora diretto da Enrico Ghezzi, generando scandalo. Alcune coppie lasciarono la sala, indispettite. Il grande regista americano Curtis Harrington, cui era dedicata una retrospettiva, era presente alla proiezione e il film gli piacque, ma commentò con delicatezza: “It's too porn for me”. Con Qui Luca creò il gruppo di lavoro che portò con sé per The Protagonists, il suo primo lungometraggio: la truccatrice Fernanda Perez, Claudio Gioè, Fabrizia Sacchi e tanti altri con cui saldammo insieme, profondamente, amicizia, creatività e collaborazione professionale.
Come si svolse la realizzazione di The Protagonists? Era il tuo primo lungometraggio da montatore o avevi fatto altre esperienze prima?
The Protagonists venne girato a Londra nel 1998. Oltre a curarne il montaggio feci anche da aiuto regista. Avevo già montato parecchi cortometraggi e videoclip, diretti, fra gli altri, da Eros Puglielli, Beniamino Catena, Lorenzo Vignolo, ma soprattutto avevo lavorato a un lungometraggio di Tonino De Bernardi, montato in moviola in pellicola 35mm, la terza parte dei suoi Sorrisi asmatici. In questo periodo di esperienze eterogenee desidero ricordare l’entusiasmante incontro con Pietro Balla, un amico che purtroppo è scomparso di recente, e Monica Repetto, due filmmaker eccentrici, sovversivi. Con loro ho imparato tante cose. Abbiamo realizzato insieme diversi documentari, tra i quali Panico Jodorowsky.
Pur essendo un’opera prima a basso budget, The Protagonists spiccava per la presenza di Tilda Swinton come protagonista. Come l’aveva conosciuta Guadagnino, e coinvolta nel progetto? Quali scambi hai avuto tu con lei nel corso degli anni?
Luca ha una progettualità senza limiti, sostanziata da eccezionali qualità personali, fuori dal comune. Da grande fan di lei e del suo lavoro con Jarman le si era presentato in occasione di una sua performance a Roma, The Maybe, in cui Tilda dormiva in una teca di vetro per l'intera giornata. Evidentemente la Swinton percepì delle affinità con Luca venticinquenne e da lì è nato un dialogo che dura tuttora.
Era molto presente sin dall’inizio in Guadagnino il desiderio di interfacciarsi con un cinema internazionale, come poi ha fatto per tutto il corso della sua carriera?
Nelle prime chiacchierate Luca diceva già di voler intraprendere una carriera internazionale con attori internazionali, come Bertolucci diceva. “Poi se mi andrà dirigerò un Marvel movie”. Eravamo freschi di laurea e da tanti veniva considerato un esaltato. Lui si divertiva a rinfacciare a chi lo criticava che anche Godard e Truffaut erano critici passati giovanissimi alla regia, e questo peggiorava la situazione. Era molto divertente.
Cosa ricordi delle riprese di The Protagonists e della presenza della Swinton sul set?
Cominciammo la preparazione del film a Londra nella primavera del 1998, nella casa a Fulham del produttore Massimo Vigliar. The Protagonists ricostruiva un fatto violento di cronaca alternando momenti documentaristici a ricostruzioni finzionali. Incontrammo giornalisti, attori, musicisti ed ovviamente Tilda, che era da poco mamma e con la quale ci confrontavamo sullo sviluppo del film. Le riprese ebbero luogo nel luglio e nell'agosto, e, a seguire, ci fu una settimana in teatro di posa agli studi De Paolis a Roma. Lavorare con Tilda fu per tutti un’esperienza profonda e illuminante. Noi della troupe condividevamo una grande villa, la crew house, che era anche sede di molte riprese: ricordo molte storie divertenti nonostante che, da aiuto regista, avessi l'ingrato compito di far mantenere il silenzio sul set. Nella grande stanza adibita a trucco e capelli ascoltavano i Moorcheba a tutto volume. I bambini di Tilda, Honor e Xavier, gattonavano nell'ingresso mentre gli elettricisti e i macchinisti spostavano cavi e macchinari. Laura Betti, in un solo giorno di riprese, riuscì a seminare il panico con mille dispetti: nascondendo i suoi occhiali di scena e chiamando Tilda “Nina” durante i vari take. Indimenticabile Laura, che quando successivamente vide il premontato ci spronò a fare meglio pronunciando con il suo inconfondibile tono rauco una frase storica: “ricordatevi di fare un po' di cinema”. Abbiamo cercato di prenderla in parola.
Come si svolse il montaggio di The Protagonists?
Il montaggio iniziò a settembre del 1998 e durò fino alla primavera dell’anno successivo: il film venne selezionato al Festival di Venezia e poi distribuito con Medusa. Nonostante una sceneggiatura precisa e articolata, il montaggio fu territorio di ricerca e sperimentazione. La prima stesura era lunga e conteneva molte scene tagliate dal montaggio finale. Spesso andavamo al cinema, c'era una sala proprio sotto l'appartamento che ospitava la moviola. Un pomeriggio andammo a vedere Armageddon di Michael Bay e Luca dormì tutto il tempo. Un'altra sera un cineclub sulla Tiburtina doveva proiettare una copia in 16mm de L'uccello dalle piume di cristallo ma successe qualcosa e dovettero “ripiegare” su Non aprite quella porta di Tobe Hooper: altra serata irripetibile.
Melissa P., il secondo film di Luca Guadagnino tratto dal romanzo-scandalo 100 colpi di spazzola prima di andare a dormire, arrivò nel 2005. Com’era nato il progetto e come si svolsero le riprese?
Stavo montando Andata+Ritorno dell'amico Marco Ponti quando Luca venne a raccontarci che Francesca Neri aveva opzionato i diritti del libro di Melissa Panarello e, ottenuto il coinvolgimento di Sony/Columbia, aveva proposto a lui la regia. Luca era incerto e ricordo che lo incoraggiammo, tanto più che molti temi del libro erano vicini alla sua sensibilità come col tempo è emerso chiaramente: il romanzo di formazione, la scoperta della sessualità nell’adolescenza... Luca ha poi scritto il film con Barbara Alberti e Cristiana Farina. Le riprese si svolsero per lo più a Lecce ed iniziai subito a montare il film con una moviola nel centro della città. Avevo promesso a tutti, da pugliese, una primavera splendida e per tutto il tempo delle riprese ci fu un clima freddo e piovoso. Un pomeriggio finii con la mia assistente Alessandra in una proiezione parrocchiale, pre-pasquale, di The Passion di Mel Gibson, che un sacerdote aveva introdotto come una descrizione documentaristica delle ultime ore di vita di Cristo; eravamo circondati da credenti sotto shock per la violenza delle immagini.
Come si svolse il montaggio del film e che tipo di interscambio aveste con la Sony/Columbia?
Era un film su commissione e come tale era sottoposto a passaggi di confronto/approvazione con la major che lo aveva finanziato, a partire dalla sceneggiatura per arrivare ovviamente al final cut. Nelle prime stesure il film era sensibilmente più estremo, soprattutto in una scena che ci piaceva molto, non particolarmente esplicita ma profonda e adulta. Anche il finale era un po' diverso. C'era inoltre una lunga scena in un museo con un custode che si faceva sedurre da Melissa, interpretato da un famoso attore italiano che si era prestato per una breve (ma significativa) apparizione. La collaborazione con i produttori fu sostanzialmente positiva, a parte alcuni momenti fisiologici di confronto e discussione. Di sicuro imparammo molte cose. La post-produzione si svolse nella parte finale a Madrid, perché c’era un apporto produttivo della Spagna. Ricordo bene María Valverde, la protagonista, un'attrice straordinaria quanto Fabrizia Sacchi e Geraldine Chaplin, di suo un mito assoluto del cinema e un'artista semplice e completa.
Melissa P. ottenne un grande successo di pubblico ma venne completamente bocciato dalla critica, ed è tuttora percepito in Italia come un film controverso e contestato. Cosa ricordi della sua uscita e cosa ne pensi adesso?
Fu un grande successo di pubblico, primo negli incassi per due weekend di seguito. Ritengo che fosse migliore di come è stato percepito. Veniva accomunato al libro da cui era tratto, che per molti era un fenomeno letterario paratelevisivo piuttosto trash e provocava accese reazioni di odio. Il film era anche altro.
Maria Valverde in Melissa P.
Un anno prima di Melissa P. tu e Guadagnino avevate collaborato anche al documentario Mundo civilizado. Di cosa parlava questo documentario?
Mundo civilizado è uno dei lavori più interessanti realizzati con Luca. Nasceva su commissione: Luca aveva il compito di ritrarre quattro giovani nell’ambito della cosiddetta “club culture” pedinandoli mentre frequentavano locali notturni e discoteche nell’area romagnola. Luca contropropose di portare i ragazzi a Catania, città che allora ospitava una scena musicale e notturna estremamente vivace, e di farli accompagnare da una specie di Cicerone. La scelta cadde su Libero De Rienzo, con il quale avevo realizzato due film. Ripenso con dolcezza alla partecipazione di “Picchio” a questo film. Dopo aver frequentato spiagge, ostelli, dj set e concerti live, nel finale i ragazzi arrivano sull’Etna, abbandonandosi al vento e all'energia del vulcano. Il brano che chiudeva il film era Rabbit in Your Headlights degli UNKLE featuring Thom Yorke. Avremmo incontrato nuovamente Thom qualche anno dopo, per le musiche di Suspiria.
Come si svolse il montaggio di Mundo civilizado e a cosa si deve questo titolo?
Il titolo viene dal brano omonimo di Arto Lindsay, che è presente nel film. Il materiale del documentario era stato girato in 16mm da Fabio Olmi, con una grande capacità di sguardo; in più avevamo numerose ore consegnateci direttamente dai ragazzi che avevano tenuto spesso accese le loro videocamere. Abbiamo completato il film in circa tre mesi di lavoro vivace, sveglio e consapevole, con molte scelte “trasgressive” anche a livello di suono e musica. Ogni sequenza, come sempre cerco di fare, aveva un'idea specifica di sviluppo. Ricordo che Luca aveva girato delle meravigliose immagini di Catania all'imbrunire, dall'alto. Mi sono tornati in mente i film di Walter Ruttmann e il montaggio di immagini e suoni che ne è risultato è un’apocalisse liberatrice di suono e musica. È un film che amo molto.
Io sono l’amore, il terzo film di Luca Guadagnino, fu quello che lo consacrò come regista internazionale, nonostante lo scarso successo riscosso in Italia. Torna la Swinton, nella doppia veste di attrice e co-produttrice, che al momento della presentazione del film a Venezia affermò che si trattava di un progetto di cui lei e Guadagnino parlavano da molti anni. In che anni Guadagnino ha iniziato a coinvolgerti nel progetto? Il titolo stavolta da cosa derivava?
Mentre si lavora Luca ti parla delle prossime dieci cose che farà, vive proiettato nel futuro. Di Io sono l’amore mi parlava da tempo, anche in relazione a uno dei suoi film preferiti, Philadelphia di Jonathan Demme. In una scena memorabile di quel film il personaggio interpretato da Tom Hanks, Andrew Beckett, fa ascoltare all'avvocato Joe Miller (Denzel Washington) l’aria “La mamma morta” dall’Andrea Chénier di Umberto Giordano, che si chiude con la frase: “Io sono il Dio che sovra il mondo
scende dall'empireo, […] io son l’amore”.
In termini produttivi Io sono l’amore rappresentò sicuramente un grosso passo in avanti per Guadagnino. Oltre alla Swinton, c’era anche un altro mito del cinema come Marisa Berenson.
Io sono l’amore è stato girato nell’estate del 2008. Sono state girate a luglio anche le scene invernali nella Villa Necchi Campiglio a Milano. Gli attori, compreso lo splendido Gabriele Ferzetti che allora aveva più di ottant'anni, indossavano vestiti invernali mentre fuori c'erano 35 gradi. Solo la nevicata che apre il film venne girata nei primi giorni di gennaio del 2009. Nonostante fosse reduce da un'appendicite, sotto le feste di Natale Luca scappò da Roma per girare sui tetti di Milano e catturare la città sotto un'abbondante nevicata. Sono molto fiero della sequenza dei titoli di testa del film, che omaggia il cinema degli anni ’50 e non era prevista in sceneggiatura. I cartelli vennero realizzati da un calligrafo. Il sodalizio con Tilda era ormai pieno. Lei si preparò a interpretare Emma Recchi con l'immaginabile profondità, recitando, lei scozzese, in italiano con accento russo. Marisa Berenson è una meravigliosa attrice, icona di stile. Ricordo anche le ottime prove di Alba Rohrwacher e di Edoardo Gabbriellini, un'idea geniale di casting, lanciato in un cinema diverso da quello che aveva fino a quel momento praticato.
La sceneggiatura di Io sono l’amore è co-firmata da Guadagnino, Barbara Alberti, Ivan Cotroneo e da te. Quale fu il tuo apporto e come si è sviluppata la storia nel corso del tempo?
In questa occasione Luca non si limitò a chiedermi una lettura dello script “da montatore” ma di partecipare attivamente ad un'ultima riscrittura del film prima del set. La prima stesura importante era stata realizzata con Barbara ed una prima revisione con Ivan. Luca aveva bisogno di mettere a fuoco alcuni passaggi del film, e anche di accorciarlo un po'. C'erano inoltre alcune sotto-trame che modificammo, ad esempio la vendita della ditta di famiglia era originariamente una conversione alla realizzazione di tessuti militari, con forti conseguenze su alcuni aspetti dell'intreccio. Condividendo con Luca una comunione di intenti profonda l'operazione di revisione e messa a fuoco è stata semplice.
Dopo il mockumentary di The Protagonists e l’erotismo soffuso di Melissa P., Io sono l’amore riesce in una curiosa commistione tra una struttura pasoliniana e un ambiente viscontiano, creando un vero e proprio melodramma cinematografico. Come cambiò il tuo lavoro in fase di montaggio rispetto ai film precedenti di Guadagnino?
Non saprei in che termini l'intenzione di Luca si possa definire curiosa, di certo era profondamente consapevole, e ardita. I materiali girati mi sembrarono subito potenti e ispirati. Il lavoro di Luca con Yorick Le Saux, direttore della fotografia è stato eccezionale, l'intera direzione del film dimostrava coerenza e “polso”. Abbiamo cominciato a montare Io sono l’amore nell’autunno del 2008, a riprese finite, ed abbiamo chiuso il film a giugno dell'anno successivo. Ci trasferimmo per alcuni mesi in un bellissimo casale in Toscana; c'erano spesso con noi mia figlia Emma, che allora aveva tre anni, e il nostro assistente Francesco Garrone. Ho un ricordo sereno ed entusiasmante di quel lavoro. Ricordo che nelle prime stesure ogni dettaglio narrativo, scenografico e geografico, andava magnificato, ogni sequenza doveva raggiungere la giusta intensità espressiva. Poi accorciammo il film e mettemmo più a fuoco gli elementi di nostro interesse.
Quali furono le scene che più ti colpirono per come erano state girate?
Quella in cui a Sanremo Emma Recchi si imbatte in Antonio e comincia a pedinarlo è meravigliosa. Era una delle prime riprese del film, erano tutti in stato di grazia.
In che modo la musica di Adams, uno dei maggiori fra i compositori statunitensi viventi, ha influenzato il montaggio di Io sono l’amore?
La musica di John Adams pre-esisteva al film e ha avuto un ruolo fondamentale: ha rappresentato per noi un riferimento non solo per le sequenze costruite proprio sulla musica ma anche, in generale, nelle sue coordinate estetiche, emotive, compositive. Eravamo preoccupati che John Adams potesse non approvare il lavoro di selezione, taglio e adattamento da noi realizzato sulle sue opere. Luca e Tilda proiettarono per lui il film in una sala di Londra e al termine della proiezione diede la sua approvazione in modo coinvolto e commosso.
In quali scene la musica di Adams ha rappresentato una traccia importante?
Tante, di sicuro quella dell’idillio sensuale/bucolico tra il cuoco Antonio ed Emma: una scena amata e detestata allo stesso modo. Non abbiamo però sempre montato “sulla musica”: spesso costruivamo libere associazioni visive senza suono, la musica arrivava solo dopo (ma di sicuro ce l’avevamo in testa). Il montaggio di Io sono l’amore ha rappresentato un altro momento in cui ancora una volta la ricerca formale, il divertimento personale e la crescita artistica sono andate di pari passo. Luca di suo non ama le soluzioni prevedibili, a me piace esplorare e le due cose sono andate perfettamente insieme.
Come hai montato le inquadrature della (pen)ultima scena del film, la “resa dei conti” tra la protagonista Emma e la sua famiglia?
L'ho montata con Luca al mio fianco, mi dirigeva guidato dalla musica di John Adams. Aveva immaginato la sequenza nei minimi dettagli: un momento cruciale ad esempio era il pianto disperato di Ida (Maria Paiato): ci teneva che fosse lunghissimo, aveva ragione. Saltando invece all'inizio del film ricordo che lo abbiamo completamente tagliato e “ristrutturato“: il film cominciava con il risveglio all'alba di Emma Recchi che sente suo figlio Edoardo andare via in motocicletta e poi una gara di canottaggio, dopo la quale Edo si congratulava con il vincitore, il cuoco Antonio! I due giovani si conoscevano in quella scena, era lì che diventavano amici. Abbiamo deciso, per molte ragioni, di cambiare tutto. Essendo stato io anche sceneggiatore, è stato in qualche modo un cambio di rotta meno pesante da realizzare al montaggio.
Nel 2012 venne presentato in molti festival in giro per il mondo il documentario Bertolucci on Bertolucci, co-diretto da te e da Guadagnino, un viaggio visivo attraverso cinquant’anni di interviste e apparizioni televisive del regista di Ultimo tango a Parigi e Novecento. Come era nato il progetto?
Il progetto di Bertolucci on Bertolucci ebbe un primo inizio da un lavoro su commissione. Luca doveva documentare la masterclass che Bernardo tenne nel 2011 alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, che quell'anno gli dedicò una retrospettiva integrale. Ebbi in quell'occasione la gioia di mostrare Piccolo Buddha a mia figlia di 5 anni, comprendendo finalmente la vocazione semplice e didascalica del film.
Nella presentazione del documentario si parla di oltre trecento ore di materiali visionati su Bertolucci: come è stato possibile gestire questa mole di lavoro, e sulla base di quale criterio avete selezionato gli spezzoni di interviste? Quali sono state le diverse ipotesi di struttura vagliate per il documentario?
Sulla falsariga dei libri-intervista come Scorsese on Scorsese, l’idea originale di Luca era quella di filmare un'introduzione/prefazione chiedendo a un altro regista (pensava proprio a Scorsese) di introdurre Bernardo, quindi la masterclass, accompagnata dal montaggio di qualche vecchia intervista di Bertolucci, e infine una chiusa (atipica per Luca): una sorta di montage di scene di film di Bernardo. Cominciai quindi il lavoro. La nostra ricercatrice aveva procurato circa trecento ore di interviste e apparizioni televisive di Bertolucci, dai primi anni ’60 ai giorni nostri. Man mano che mi immergevo nei materiali mi rendevo conto che Bernardo era un grandissimo performer; con le sue interviste aveva costruito un doppio binario in cui il racconto di sé era sempre espressione di una propria poetica coerente, personale, affascinante. E tutto racchiudeva, con estrema potenza, un senso del tempo preciso, profondo. Pensai a come sarebbe stato fare un film solo con questi elementi, senza immagini tratte dai film, solamente un suo monologo continuo, senza continuità cronologica, anzi con continui salti temporali. Condivisi questa idea con Luca, gli mostrai un “sample” di alcuni minuti, lui approvò con entusiasmo.
Da dove provenivano queste trecento ore di materiale?
Luca chiese a Sila Berruti di cercare negli archivi audiovisivi di tutto il mondo: le trecento ore che lei riuscì a portarci erano diversissime per qualità e risoluzione, temi trattati e datazione. Ho guardato tutto, è stato un processo lungo e straordinario: ho un rapporto di amore profondo con i materiali di archivio, e quelli di Bernardo in particolare erano straordinari.
In quali contesti venivano trasmesse queste interviste o questi special televisivi sul cinema di Bertolucci?
Un tempo la televisione offriva numerosi approfondimenti sul cinema: non si trattava solo di promozione delle uscite in sala, si parlava del cinema con rispetto e interesse. Il nostro film ad esempio si apre con un’intervista a Bernardo di Beniamino Placido, scrittore e critico di grande acume, in cui si parla del rapporto fra Bertolucci e il musical, commentando l'uscita nelle sale di allora di The Last Waltz di Martin Scorsese. È interessante notare che man mano che ci avvicinavamo ai giorni nostri la qualità delle interviste peggiorava, la televisione si instupidiva.
Su quale criterio avete strutturato poi il documentario, una volta deciso che sarebbe stato composto solo dalle parole di Bertolucci sul suo cinema?
Lo scheletro ce lo ha fornito, sottotraccia, la filmografia di Bernardo: su di essa abbiamo innestato diversi temi e sotto-temi. Luca aveva pensato che la psicanalisi dovesse esserne una struttura portante, e l’idea si rivelò una chiave fondamentale. Con queste premesse mi sono messo all'opera: tutto è venuto da sé in un processo di continue illuminazioni sul da farsi, seguite da momenti di stallo. Due anni dopo ho presentato a Luca la mia stesura del film.
In un’intervista Guadagnino ha affermato che Bertolucci on Bertolucci era il modo suo e tuo di confessare alla persona amata tutto l'amore poetico, erotico e possessivo che provavate per lui. Tu hai evidenziato di Bertolucci soprattutto “una capacità perduta di fare un cinema personale, battagliero, colto, profondo, vivace, sensuale e popolare tutto insieme”. Come e quando avete conosciuto Bertolucci, e cosa vi ha lasciato come cineasti?
Luca aveva conosciuto Bernardo ai tempi dell’università semplicemente chiedendo di incontrarlo: mentre era studente alla Sapienza visitò la moviola di Piccolo Buddha dove Bernardo montava con Pietro Scalia. Io lo avevo incontrato pubblicamente qualche anno prima in occasione del festival Europacinema, che si tenne per un’edizione a Bari. Ci sono suoi film che per me hanno un’importanza fondamentale, come La luna, un film che mi disturba, mi mette in soggezione come spettatore, al pari di film come Crash di Cronenberg, per capirci. Si tratta di film di potenza indicibile.
Come fu presentare il film a Bernardo Bertolucci in persona?
Bernardo ci aveva chiesto di vedere il film prima che venisse proiettato al Festival di Venezia, dove sarebbe stato presidente di giuria. Da Crema lo abbiamo raggiunto in auto in una villa in campagna in Umbria. Eravamo lì a metà mattinata, pronti a vedere subito il film, ma Bernardo ha ci ha invitato a mangiare qualcosa insieme prima della proiezione. C'erano la meravigliosa Clare, sua moglie, Marisa Paredes e suo marito, nonché Jeremy Thomas e sua moglie. A pranzo, per metterci subito, amabilmente, in difficoltà Bernardo ci disse: “Sappiate che mi sento molto a disagio a vedere le mie immagini del passato e a sentire la mia voce”. Lui ancora non sapeva che il film era solo lui, che era un suo assolo. Però ero molto sicuro del film, che gli sarebbe piaciuto, questo mi ha permesso di finire la mia insalata godendo dell'atmosfera e del sole d'estate.
Bertolucci lodò il film al momento della sua presentazione a Venezia dicendo che si era “fin troppo” riconosciuto nel documentario, ma quali furono le sue prime reazioni durante e dopo la visione?
Dopo dieci minuti abbiamo capito che Bernardo stava reagendo al film in maniera profonda. Rivedeva interviste e situazioni ormai dimenticate, avevamo ricostruito un percorso emotivo-psicoanalitico in cui lui si riconosceva. Ne comprendeva la tessitura, gli ambiti più misteriosi e oscuri dell'indagine su una vita.
(continua, la prossima settimana la seconda parte)
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