Chiara Lagani è co-fondatrice e direttrice artistica, assieme a Luigi De Angelis, dell’acclamata compagnia teatrale Fanny & Alexander, attiva dal 1992. I loro spettacoli hanno avuto grande successo, attirando contemporaneamente l’attenzione di pubblico, studiosi e critica, e procurando ai loro autori inviti a seminari, laboratori e convegni nell’ambito delle più importanti istituzioni culturali italiane ed europee. Nel 2003 la compagnia ha realizzato una versione teatrale di Alice attraverso lo specchio e Chiara Lagani prese parte, un paio di anni dopo, a un convegno di anglistica dedicato a Lewis Carroll organizzato dall’Università di Rennes, invitata a parlare dello spettacolo. Il 15 giugno scorso è uscita per Einaudi una sua traduzione di Sylvie e Bruno, terzo e ultimo romanzo di Lewis Carroll. Sylvie e Bruno, dalla trama duplice e dall’ambientazione tripartita, giudicato da molti “intraducibile”, è alla base del nuovo spettacolo di Fanny & Alexander, presentato negli stessi giorni al Ravenna Festival.
Quale è stato il tuo primo contatto con l’opera di Lewis Carroll? Come hai continuato ad approfondirlo nel corso degli anni?
Il mio primo incontro con Lewis Carroll, da bambina, furono i due libri di Alice: in realtà non si tratta di racconti per bambini, ma capita spesso che vengano dati da leggere già alle elementari, magari in edizioni ridotte. Io li avevo letti nell’edizione BUR, con la celebre, bella traduzione di Masolino d’Amico, e subito mi incantarono. Per quanto avessi da poco imparato a leggere, leggevo e rileggevo ossessivamente quei due libri raccolti nello stesso volume, proprio come facevo negli stessi anni con Il mago di Oz di Frank Baum. Le storie delle due Alici mi impressionarono moltissimo e infatti mi hanno accompagnato fino ad ora: uno dei miei primi spettacoli con Fanny & Alexander veniva da lì, e si intitolava Alice vietato > 18 anni, titolo provocatorio che voleva evidenziare proprio la natura adulta di quel libro, che aveva per protagonista una bambina alle prese con una caduta, con la superficie scivolosa di uno specchio e con esseri magnifici e mostruosi.
Come mai venisti invitata, ormai quasi vent’anni fa, al convegno su Carroll dell’Università di Rennes? È sfortunatamente raro che autori e attori di teatro abbiano parallelamente un percorso accademico di questo rilievo.
Mi ritengo prima di ogni altra cosa una “curiosona”. La curiosità è la molla di tutto quello che faccio, il teatro o le traduzioni letterarie. Nei Libri di Oz di Frank Baum c’è un personaggio, una ragazza, di nome Jellia, che a un certo punto viene ingaggiata come interprete da due strampalati signori che, poiché non si comprendono, credono di parlare lingue diverse. Jellia si accorge subito che i due parlano invece la stessa lingua. Eppure, per un’indomabile, umanissima curiosità, accetta di tradurli, e lo fa appunto perché muore dalla voglia di sapere tutto di quei due strani individui. Così aggiunge domande e commenti suoi, semplicemente per soddisfare la sua curiosità, finché non si crea una situazione piuttosto paradossale fra i tre. Allo stesso modo io molto spesso mi impiccio di questioni altrui, con apparenti fuoriuscite dal mio campo, quello teatrale; dunque non è affatto raro per me, come del resto non lo è per Luigi De Angelis, con cui ho fondato Fanny & Alexander, essere chiamati nei contesti più vari a testimoniare del nostro lavoro.
Come si svolse la tua partecipazione al convegno? E, più in generale, in che modo l’opera e lo stile di Carroll ha influenzato il tuo lavoro nei Fanny & Alexander, prima di arrivare al vostro Sylvie e Bruno?
Il convegno era organizzato da Sophie Marret e si intitolava “Lewis Carroll et les mythologies de l'enfance”. Fui invitata grazie a Jean-Jacques Lecercle, con cui avevo intrattenuto nei mesi una corrispondenza a proposito del nostro Alice vietato > 18 anni. Lo avevo contattato mentre creavo lo spettacolo perché era autore di un bellissimo saggio in cui metteva in correlazione Alice e Lolita, due grandi amori per me, e così non potei fare a meno di parlargli del nostro lavoro. Mi diede molte stimolanti indicazioni e poi fece il mio nome per quel convegno che, per quanto specialistico, era aperto a molti mondi, dal teatro alle arti visive. Ricordo che c’erano molti joyciani anche, e fu allora per la prima volta che iniziai a interessarmi delle tante relazioni tra questi due autori, Carroll e Joyce, così evidenti e illuminanti. L’Università di Rennes mi parve un luogo pieno di creatività e di appassionata conoscenza: fu un’esperienza bellissima. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, penso si possa dire che tutti i grandi autori e le opere che ci colpiscono nel profondo condizionino il nostro pensiero e il nostro linguaggio: potrei citarne molti, a cominciare da Carroll ovviamente. Ma anche Vladimir Nabokov, Tommaso Landolfi, Frank Baum e, più di recente, Elena Ferrante, da cui siamo partiti per uno dei nostri ultimi spettacoli. Credo di avere un grandissimo debito con ciascuno di questi autori.
Quando avvenne il tuo primo incontro con Sylvie e Bruno?
Sylvie e Bruno mi è capitato tra le mani molti anni fa, nell’edizione a cura di Franco Cordelli, che lo aveva tradotto per Garzanti. Sin dalla prima lettura sono rimasta affascinata da questo libro: non posso dire che sia un romanzo che si legge d’un fiato, perché è una storia che si guadagna a poco a poco la fiducia del lettore e che lo mette anche alla prova, animata com’è da una metamorfosi interna continua, e anche, direi, un po’ schizofrenica: il passaggio continuo dal sogno alla realtà. Il lettore è condotto, in una sorta di perenne vertigine, a inseguire due storie parallele, una d’amore borghese e una di fate, affidandosi a un anziano narratore, una sorta di Caronte che lo traghetta attraverso un fiume di parole sospese tra sogno, incanto, logica e riflessioni morali, che si snoda per oltre cinquecento pagine.
Come è nata l’idea di curarne una traduzione per Einaudi?
Da quella prima lettura Sylvie e Bruno mi è rimasto nella testa e nel cuore… Uno di quei libri di cui pensi: un giorno ne farò qualcosa, lo so. In realtà Luigi De Angelis e io già anni fa volevamo trarne un film, poi abbiamo rimandato il progetto, che sentivamo troppo complesso per
l’età che avevamo in quel momento: certe opere richiedono tempi precisi per essere metabolizzate, tempi che vanno rispettati. Dopo aver curato per i Millenni Einaudi i quattordici Libri di Oz di Frank Baum e aver scoperto quanto fosse bello tradurre, mi è tornato in mente Sylvie e Bruno, quel libro così particolare che tanto avevo amato, e che in quel momento era difficile reperire, perché nel frattempo l’edizione Garzanti era finita fuori catalogo. Pensavo che Sylvie e Bruno, terzo e ultimo romanzo ultra-sperimentale di questo grande autore, famoso per le storie di Alice, meritasse di essere ripubblicato in Italia e desideravo farlo con Einaudi, dove avevo incontrato un gruppo di lavoro preparatissimo e appassionato. È iniziata così quest’avventura.
Quanto tempo ti ha richiesto la traduzione di Sylvie e Bruno?
Complessivamente direi un paio d’anni. Il periodo di lavoro più intenso sul testo corrisponde più o meno ai due lockdown: il romanzo di Carroll ha rappresentato per me una bussola e un’ancora di salvezza in un momento in cui la mia principale attività, il teatro, era necessariamente interrotta. Ho potuto dedicarmi per un anno, praticamente full time, a Sylvie e Bruno, cosa che non sarebbe mai potuta avvenire in un tempo ordinario, pre-pandemia, fatto di incastri e calendari schizofrenici: lo potrei definire un vero regalo di questi mesi, per il resto così infausti e disastrati.
Sylvie e Bruno inizia con una poesia che si riallaccia apertamente ai versi che chiudevano Alice attraverso lo specchio. Quali sono gli elementi di continuità e quali invece gli elementi di discordanza e innovazione tra le due Alici e l’ultimo romanzo di Carroll?
Potrei risponderti che, nel caso di autori così ossessivi e tenacemente irriducibili, gli elementi di discontinuità diventano anche elementi di continuità, se letti in una parabola complessiva. Carroll impiegò dieci anni a scrivere Sylvie e Bruno (il primo libro esce nel 1889, il secondo nel 1893) ma quando uscì Alice attraverso lo specchio (nel 1871) stava già incubando questo terzo romanzo. Come? Ce lo racconta lui stesso in una delle prefazioni che corredano i due libri di Sylvie e Bruno: Carroll raccoglieva in un quadernetto tutte le esperienze impressionanti, straordinarie e ordinarie, che gli capitavano e questi appunti in qualche modo gli sembravano già parte di quel libro ancora non scritto: fatti, incontri, parole fugaci, letture, ritagli di giornale, insomma un vero e proprio quadernetto delle meraviglie, il grande archivio della vita da cui attingere per sviluppare la sua ultima opera. Quell’opera, l’autore ne era convinto, avrebbe preso vita quasi da sé da quelle pagine, da quell’ingombrante «ammasso di litter-atura (litter, immondizia, NdR) che aveva solo bisogno di collegamenti lungo il filo consequenziale di un racconto per diventare il libro che speravo di scrivere» (Carroll, Sylvie e Bruno, dalla Prefazione al primo libro). La tecnica compositiva che Carroll adottò è insomma assolutamente atipica, una sorta di stringente contrainte letteraria, che sarebbe certo piaciuta ai successivi colleghi scrittori dell’Oulipo.
Quanto si distanziava questo metodo di scrittura e di composizione da quello che era stato alla base delle due Alici?
Direi che più distante di così non si potrebbe: in verità è anche nelle intenzioni dichiarate di Carroll trovare un nuovo stile, totalmente distinto da quello di Alice, e dar vita ad un libro magari meno compatto, forse più franto e vorticoso, ma la cui storia derivi sempre e solo dagli accidenti e mai viceversa. Il libro è già nelle circostanze, sembra dirci il suo autore, nelle esperienze anche minute del quotidiano, insomma in un amalgama di elementi che si intrecciano tra di loro con un’alchimia molto misteriosa. L’autore vuole aggiungervi il meno possibile, il libro verrà fuori dai sogni, suoi e altrui, e dalla vita vissuta e puntualmente registrata nelle sue annotazioni, e questo è già un piano programmatico piuttosto particolare. Carroll poi porta fino in fondo il suo esperimento letterario e forse anche da questo deriva la natura così fascinosamente imperfetta del suo ultimo libro. Alice nel paese delle meraviglie e Alice attraverso lo specchio sono due romanzi cristallini, dalle architetture compatte, Sylvie e Bruno invece si concede slabbrature, squilibri ed eccessi: sembra proprio che Carroll qui non si curi della dismisura, perché vuole davvero verificare dove lo porterà la sua ipotesi di partenza, mantenendosi in bilico perenne su un crinale molto scivoloso, il confine tra sogno e realtà.
Dunque da parte di Carroll c’era la precisa volontà di non scrivere una terza Alice? Fino a che punto pensi fosse forte in lui la consapevolezza che il suo terzo romanzo sarebbe stato anche l’ultimo?
Se Lewis Carroll voleva lasciare ai suoi lettori un terzo romanzo del tutto differente dai primi due, è vero anche che le sue passioni, le sue ossessioni più intime si ritrovano anche qui: e così la piccola Sylvie ci fa venire in mente i toni irresistibilmente petulanti della saggia Alice, e lo sgrammaticato Bruno, con i suoi errori e le continue letteralizzazioni di senso, compone fuochi d’artificio linguistici che ricordano quelli di tanti personaggi delle Alici che facevano sistematicamente a pezzi il linguaggio per poi ricostruire tutto da capo, a cominciare dal Cappellaio Matto (così simile, per altro, al Professore di Sylvie e Bruno). Sono figure ricorrenti in tutta l’opera di Lewis Carroll, che ha una vera ossessione per i giochi di parole: esseri stravaganti che triturano le frasi e le sillabe riducendole in frantumi di suono, per poi far uscire all’improvviso dal cappello magico della loro lingua impossibile dei sovrumani, meravigliosi conigli. Dico sempre che per capire davvero le due Alici bisogna leggere anche Sylvie e Bruno: Carroll lo definiva esplicitamente il suo “testamento spirituale”, la sua vera eredità letteraria. Insomma, per Carroll Sylvie e Bruno era l’ultima, la più importante delle sue opere e, se davvero si ama quest’autore, come si fa a non desiderare di leggere l’opera che più di ogni altra lui voleva lasciarci?
Quali sono state le maggiori difficoltà della tua traduzione di Sylvie e Bruno?
Sylvie e Bruno è un libro difficilissimo da tradurre, una delle avventure più fascinosamente complesse che mi sia capitata nella vita. Innanzitutto perché pullula di sofisticatissimi giochi di parole e sono convinta che una buona traduzione debba sempre tentare quel triplo salto mortale che consegna al lettore ogni gioco di parole intatto, pieno della magia originaria, pur nel passaggio da una lingua all’altra. Per far questo talora si è costretti a tradire la lettera, ma si resta fedelissimi allo spirito. Occorre affidarsi con amore e fiducia al ritmo interno della lingua di partenza e a quello della lingua d’arrivo. Tradurre un gioco di parole è come permettere a un pesciolino di una specie preziosa di balzare da un mare all’altro facendogli nel mezzo attraversare l’aria, e riuscire in quel passaggio a mantenerlo in vita: se il suo guizzo è veloce e leggero a volte tutto il processo somiglierà a un lampo di luce e allora il risultato conserverà il bagliore del principio. Occorre la pazienza di aspettare che il guizzo trasformativo si manifesti, è solo questione di tempo. Bisogna avere molta fede, perché anche quando non sembra possibile, prima o poi l’intuizione verrà.
Per quanto riguarda la traduzione e la possibilità di interscambio dei giochi di parole, quanto sono diversi l’italiano e l’inglese?
L’inglese è una lingua mobile e liquidissima, in cui le parole si trasformano sciogliendosi una nell’altra con una facilità estrema; l’italiano è molto più compatto, ha delle architetture più complesse, un altro ordine di magia. In Sylvie e Bruno poi i giochi di parole aumentano esponenzialmente a mano a mano che il libro avanza: verso il finale Bruno arriva a un punto di vorticismo verbale in cui c’è quasi un gioco per frase, e questa furiosa maratona per chi traduce è come uno strano funambolico training all’abbandono d’ogni possibile resistenza. La cosa più difficile di Sylvie e Bruno, però, non è stata risolvere i giochi di parole, nemmeno quelli impossibili. La cosa più difficile è stata tentare di preservare il profondo senso di vertigine che anima le transizioni, il continuo trapasso tra le due dimensioni, sogno e realtà.
Parlaci di questa “vertiginosità”.
È una sorta di capogiro che prende il lettore in ogni passaggio tra la parte realistico-amorosa del libro, col suo linguaggio borghese impregnato di riferimenti vittoriani, e la parte fatata, col racconto dell’incanto boschivo e la magia. In questi continui passaggi da una dimensione all’altra, che costellano Sylvie e Bruno, il lettore si sente come Alice quando precipita nella buca: è come se il terreno di colpo venisse meno sotto i nostri piedi, permettendoci di accedere a un’altra dimensione. Questa vertigine, ricorsiva, porta anche a voler tornare indietro nella pagina per capire da dove si viene e dove si è precipitati all’improvviso, ed è una delle assi poetiche e stilistiche fondamentali del libro. Preservare questa sensazione spiazzante di spaesamento, di vertigine, è stata per me la sfida più grande: ho tentato di giocare con i fili tesi tra le parole e le immagini del romanzo, quei fili invisibili che sono la trama sotterranea della storia e che improntano lo stile di quest’opera. L’instabilità, così meticolosamente perseguita dall’autore, è la prima cosa di cui, se traduci quest’opera, devi tenere conto, quella a cui devi prestare la più grande attenzione, anche in fase di revisione: dopo la prima stesura i legami invisibili che corrono tra gli elementi del romanzo si rafforzano e diventano più forti e più chiari e al contempo più sottili e trasparenti, come in un prisma infinito di rifrazioni. In questa fase occorrono più occhi per vedere le cose, più mani per toccare il corpo del testo, e infatti la revisione si fa sempre in squadra ed è uno dei momenti del lavoro che più amo.
I tre “stati” di coscienza che si alternano durante la narrazione erano definiti da Carroll come ordinary, eerie e trance. Se nella tua traduzione trance è rimasto tale e ordinary è stato reso semplicemente come “ordinario”, come hai scelto di tradurre eerie?
Eerie è stato un aggettivo molto discusso in fase di revisione. A seconda dei contesti puoi tradurlo come “fatato”, “stregato”, o semplicemente “inquietante”. Volevamo conservare la qualità incantatoria, ma anche l’inquietudine che ne deriva e poi il senso di possessione: qualcosa che arriva e ci rapisce, ed ecco ne siamo presi, ci ritroviamo persi in questo strano stato, the eerie state. “Incantato” ci è sembrata la parola migliore, perché conservava questo doppio significato: c’era dentro la qualità dell’incanto e la grazia di quel mondo (incantevole), ma anche il sentimento attonito, istupidito, dello sbalordimento di fronte al sortilegio, al demone sconosciuto che ci attraversa come un lampo e poi ci abbandona subito e di nuovo. Lo stato «eerie» per Carroll è quello in cui si ha percezione della realtà e contemporaneamente del mondo soprannaturale. Sei, cioè, in bilico tra due mondi, in una sorta di limbo in cui hai accesso a visioni straordinarie mantenendo coscienza del corpo e della vita che ti scorre attorno. Non so se, alla fine, la complessità di eerie si conservi davvero appieno in “incantato”: traducendo si guadagna e si perde sempre qualcosa nella ricerca inesausta di un colore il più possibile preciso e complesso.
Come hai lavorato invece a rendere il linguaggio infantilistico del title character Bruno?
Carroll gioca continuamente con gli scivolamenti di senso e le contrazioni delle parole: basta frequentare per poche ore dei bambini inglesi per accorgersi che artisti siano della contrazione e agglutinazione delle parole: smozzicare, spezzettare le parole per loro è un atto spontaneo. Ma anche la lingua degli adulti contiene parole liquidissime, appena abbozzate, accorciate, troncate, fuse assieme. Nell’italiano succede altro: nel linguaggio infantile ci sono semplificazioni fantasiose delle parole e dei suoni più complessi, strambi neologismi o storpiature. Io lavoro spesso con i bambini in teatro, e credo che questa frequentazione mi sia stata molto utile per capire come rendere la lingua di Bruno. Tradurre è una pratica profondamente musicale, in cui l’ascolto delle voci è di primaria importanza: tradurre le frasi di Bruno, un bimbo notevolissimo alle prese con l’apprendimento del linguaggio, è stato quasi come comporre stringhe ritmiche e melodiche di senso. Del resto Carroll era un grande versificatore e rimatore e nei suoi giochi di parole c’è una componente ritmico-musicale accentuata che rende alcuni passi di testo quasi prossimi all’idea di partitura: sono brani in cui la lingua si crea e si distrugge di continuo. Il farsi e il disfarsi del linguaggio è, del resto, una delle ossessioni di Carroll: nei suoi tre romanzi, la lingua si distrugge e si ricompone di continuo, in mille modi differenti.
Nelle pagine di Sylvie e Bruno infatti sono molte le filastrocche, le canzoni, le nenie, composte da Carroll con una grande attenzione nei confronti delle rime e della metrica. Quando sei stata costretta a scegliere, hai privilegiato il significato, il ritmo o la musicalità?
La Duchessa di Alice dice «pensa al senso e il suono verrà da sé», ma in tutto Carroll si potrebbe dire tranquillamente anche il contrario. Qui ritmo, senso e musicalità sono una cosa sola: i suoi sono metri cristallini e le sue rime «scivolano via con la corrente, lentamente, nel dorato bagliore», per citare un verso dello stesso Carroll. Quanto al senso, quando traduci devi sempre fare delle scelte, a volte anche importanti. Nelle filastrocche, per quanto ho potuto, ho preservato innanzitutto la metrica, scegliendo il metro italiano più possibile assonante all’originale, e mantenendo per quanto potevo anche lo schema delle rime, quando questo non mi portava a forzature troppo estreme.
Come hai lavorato in fase di traduzione sulla famigerata Canzone del Giardiniere?
A differenza di altri componimenti e filastrocche del libro, nella Canzone del Giardiniere era molto importante conservare le figure originarie, gli esseri e gli eventi. Esseri ed eventi sono le due categorie cui fa cenno anche Gilles Deleuze quando ci parla delle due serie costitutive della Canzone: la prima è fatta di animali, esseri consumatori e consumabili, descritti in base a qualità fisiche, sonore o azioni; la seconda è fatta di simboli, definiti da attributi logici o relazioni di parentela e associati a eventi, oppure a messaggi, stringhe di puro senso. Era molto importante la fedeltà a queste figure che mano a mano, come metafisiche sculture, vanno a creare i bordi di quel viale simbolico lungo cui il Giardiniere ci conduce, facendoci attraversare l’intero romanzo. La Canzone del Giardiniere infatti è disseminata nel romanzo e c’è chi sostiene che sciogliere il suo enigma equivarrebbe a trovare la chiave della storia: peccato sia un enigma senza apparenti soluzioni.
Dopo la poesia d’apertura (“Is all our Life, then, but a dream…”), Sylvie e Bruno si apre con una sollevazione popolare linguisticamente paradossale (“Meno! Pane! Più! Tasse!”) e che non si tarderà a scoprire essere tutt’altro che spontanea. Dal tuo punto di vista, l’epoca vittoriana durante la quale Carroll ha vissuto e ha scritto Sylvie e Bruno quanto ha influito sull’immaginario e sulle tematiche del romanzo?
Carroll è un apocalittico e un integrato della sua epoca. Di fatto con Sylvie e Bruno scrive un romanzo vittoriano che del romanzo vittoriano stravolge i codici, mantenendone alcuni elementi costitutivi, narrativi, tematici e formali: come il triangolo amoroso, le frequenti dissertazioni morali o la struttura bipartita: Sylvie e Bruno è anche un archivio di citazioni e riferimenti continui che rimandano ad altri mondi letterari in maniera più o meno esplicita. Carroll cita Shakespeare, naturalmente, ma anche moralisti vittoriani, o note figure pedagogiche del suo tempo. Molti di questi riferimenti per noi sono oggi poco riconoscibili, ma per il lettore dell’epoca, che aveva molta familiarità con quel sistema di citazioni, dovevano certo innescare un gioco al riconoscimento continuo: in nota ci sono tutti gli estremi per ricomporre il puzzle e recuperare qualcosa di questo divertimento, per noi meno istintivo. Dobbiamo ricordare che Carroll aveva una cultura sterminata: insegnante, grande esperto di logica e filosofia, religioso, appassionato di fotografia, teatro, curiosissimo nei confronti di ogni branca del sapere umano.
Le notazioni politiche, circa il popolo o gli stessi regnanti, che si trovano in Sylvie e Bruno, così come nelle due Alici, cosa volevano significare? Penso anche alla famigerata “Regina Rossa” di Attraverso lo specchio…
L’ambiente e il tempo in cui Carroll viveva si rispecchia nel suo romanzo, ed è evidente come lo scrittore vivesse anche con sofferenza alcuni dei problemi sociali dell’epoca vittoriana: le disuguaglianze, la povertà, la miseria, l’idea di una religione che si è ridotta a pura esteriorità, in tutte queste tematiche si riconoscono ossessioni e contraddizioni di quel tempo. Inoltre, Carroll era al tempo stesso affascinato e respinto dal sentimentalismo letterario tipico della sua epoca, che pure dissemina nel romanzo, soprattutto nella storia d’amore che sta nella parte realistica della storia (ma parallelamente si prende gioco di ciò che in letteratura è sdolcinato e “zuccheroso”). Come leggere un autore che ci mostra così tante facce? Mi viene sempre in mente un’immagine quando penso ai tanti volti che Carroll mostra in Sylvie e Bruno: vedo una tavola con molti convitati, e ognuno rappresenta un aspetto della personalità di Carroll. C’è l’insegnante di logica, il matematico, il sognatore, l’amante dei bambini, il fotografo. Tutti questi aspetti guardano allo stesso centro, in un modello prismatico che è certo specchio anche della società vittoriana: un mondo complesso, anche da comprendere e decifrare, a cui Carroll, anche se in modo assolutamente eccentrico, appartiene a pieno titolo.
Nella tua prefazione scrivi che alcuni hanno considerato Sylvie e Bruno come “un’esemplificazione perfetta del passaggio dal romanticismo etico” del romanzo vittoriano “al modernismo” che poi sarà di Eliot, di Joyce, di Pound… Fino a che punto concordi con questa tesi della “liminarietà” del Sylvie e Bruno rispetto al modernismo a venire e, in particolare, quale pensi sia stata l’influenza di Carroll su Joyce?
Finnegans Wake in particolare è costellato di citazioni e di piccoli e grandi omaggi all’autore delle Alici e di Sylvie e Bruno. Sarebbe riduttivo darne conto in poche parole. In ogni caso credo che la complessità di un’opera, per quanto rappresentativa delle questioni estetiche del suo tempo, non possa essere mai totalmente contenuta da nessuna categoria.
In che modo e in che senso dici che si può de-categorizzare Carroll?
Sylvie e Bruno è evidentemente un’opera di passaggio. Ma è anche, essa stessa, un continuo passaggio: c’è dentro il mondo bucolico, ci sono tanti paesaggi magici (eerie), ci sono i prati con le fate miniaturizzate nascoste tra i fili d’erba, insomma tutti i loci amoeni che rimandano a generi letterari precisi, ma che poi si combinano disinvoltamente tra di loro per dissolversi all’improvviso e farci entrare magari in una stanza cupa in cui ha luogo la più erudita delle discussioni tra professori e borghesi che si lasciano andare a interminabili disquisizioni su linguaggio, etica e religione. Leggere Sylvie e Bruno è tutto un chiedersi: e adesso? Dove sono finito? Un attimo prima ero perso nell’idillio di lande bucoliche fatate, come posso essere entrato all’improvviso in un elegante salotto borghese circondato da chiacchiere vane? Tutto questo fa parte del meccanismo di transizione continua tra livelli di percezione, stati della mente e dei corpi, così tanto indagati in questa storia.
In questo onirismo di Carroll, fino a che punto trovi se non un’anticipazione una convergenza, rispetto agli studi di Freud di pochi decenni successivi?
Se si leggesse l’Interpretazione dei sogni in parallelo a Sylvie e Bruno sono certa che si potrebbe pensare che ne è una sorta di esemplificazione romanzesca. Carroll e Freud devono aver letto gli stessi libri, o almeno la temperatura culturale in cui lavoravano era la stessa. In Sylvie e Bruno si parla già d’inconscio, perfino lo si nomina in un paio di passi.
Dopo quest’opera di traduzione, hai preparato con i Fanny & Alexander una versione teatrale di Sylvie e Bruno, che ha debuttato a giugno 2021 a Ravenna. Come si è svolto il processo di adattamento e come è impostato lo spettacolo? Chi è in scena oltre a te?
In scena siamo in cinque: oltre a me, Andrea Argentieri, Marco Cavalcoli, Roberto Magnani ed Elisa Pol. Ho preparato questa versione teatrale di Sylvie e Bruno assieme a Luigi De Angelis, che, come dicevo prima, è il regista della compagnia. È tutta impostata su un meccanismo di scivolamento liquido e continuo tra le due storie e i due mondi, per restituire l’impressione di un grande organismo pulsante. L’idea strutturale dello spettacolo insiste su questa sensazione di squilibrio continuo: lo spettatore deve continuamente chiedersi dove è finito, dove si trova, nell’alternanza tra le apparizioni e le metamorfosi di personaggi e luoghi appena evocati. Lo spazio è spoglio ma il suono suggerisce sempre la concretezza di luoghi precisi e mutevoli: un prato sfuma in un treno, il treno in una strada trafficata. Ogni attore ricopre più figure, è una sorta di personaggio prismatico: Muriel è anche il suo alter ego bambino, Sylvie; Arthur è anche Bruno; i Professori sono fusi in un unico strambo figuro. Abbiamo così cercato di mantenere intatta la sfida linguistica del romanzo.
Quale pensi sia il vero punto di convergenza tra romanzo e spettacolo?
Nella nostra intenzione, così come accade già nel romanzo di Carroll, il passaggio da una storia all’altra e da una dimensione all’altra porta lo spettatore, come accade al lettore, a diventare vero e proprio co-autore della storia, a creare cioè dei “ganci” di senso a cui aggrapparsi per non soccombere alla furia del moto ondoso della trama, e a ritrovare così risonanze intime nella serie delle metamorfosi e delle convergenze interne tra personaggi e situazioni. Sylvie e Bruno ti pone direttamente questa domanda: sarà possibile leggere un romanzo come se si stesse sognando? Del proprio sogno, infatti, si è solo in parte autori, perché qualcosa ci sfugge sempre e pare quasi essere scritto da un’altra mano con una forza straordinaria e soggiogante, capace di trasformarci all’improvviso da protagonisti in spettatori. Allo stesso modo chi viene a teatro a vedere Sylvie e Bruno potrà chiedersi: sarà possibile assistere a uno spettacolo come se si stesse sognando?
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