In occasione della prima presentazione del libro di Gianfranco Pannone - È reale? Guida empatica del cinedocumentarista - al Fondi Film Festival, organizzato da associazione Giuseppe De Santis, (18 settembre, Chiostro San Domenico, ore 21.00), pubblichiamo la postfazione al volume di Daniele Vicari.
Il libro che avete appena letto è un’opera particolare, per certi versi inconsueta. L’autore, attraverso l’analisi dei film che ha visto e anche di quelli che ha fatto, ci conduce al cuore di un ragionamento ineludibile se si vuole affrontare una riflessione seria sul cinema, cioè quale sia il rapporto di questa straordinaria forma espressiva con la cosiddetta “realtà”. La premessa è nel titolo in forma di domanda: è reale? Eppure, arrivando in fondo alla lettura, più di qualcuno avrà notato che il libro rivela anche qualcosa di diverso e probabilmente di più intrigante, qualcosa che riguarda la formazione della coscienza del cineasta attraverso una sorta di autobiografia intellettuale che, pagina dopo pagina, emerge con forza fino a superare il “tema” indicato dal titolo.
Non tutti i registi sono avvezzi a scrivere e riflettere sul proprio lavoro e nemmeno ad insegnarlo. Per fare queste cose bisogna evitare almeno due scogli non di poco conto. È necessario prima di tutto superare l’imbarazzo o l’inibizione della autoanalisi, mettendo in campo l’attitudine a generalizzare, nel senso del saper riflettere ad ampio spettro, guardando fuori di sé pur partendo dalla propria esperienza, altrimenti si corre il rischio di un pericoloso ripiegamento ombelicale. E Pannone non mostra alcun imbarazzo né alcun timore operando in questa direzione, d’altro canto tra i suoi punti di riferimento cita apertamente Carlo Lizzani che, oltre ad aver realizzato nella sua lunga vita moltissimi film, ha anche scritto una storia del cinema e numerosi altri saggi; in quella Storia del cinema italiano Lizzani parla in terza persona dei film di Carlo Lizzani senza esitazione né falsa modestia.
Il cinema è poi una forma espressiva fabrìle, cioè una cosa che si fa, al punto che un radicato luogo comune vuole che il cinema s’impari davvero solo facendolo, come l’omicidio o come il sesso. Ecco che l’insegnamento del cinema contiene quindi una apparente aporia, o quantomeno una forzatura: si vorrebbe insegnare ciò che, per definizione, si può soltanto imparare. Questo è quindi il secondo scoglio da superare e Pannone addirittura rivendica la funzione dell’insegnante, che ha persino un ruolo etico. Il formatore, nel cinema (come in tutte le altre scienze e pratiche sociali e artistiche), è cosa ben diversa dalla figura del divulgatore, o dell’analista; deve per forza di cose avere un piede nella analisi ma l’altro deve averlo ben saldo nella esperienza sul campo. Il formatore trasmette cioè una conoscenza sia teorica che pratica, si potrebbe dire esperienziale, infatti nel territorio del cinema si tratta di trasmettere un sapere sì, ma soprattutto un saper fare o addirittura un saper essere, si tratta quindi soprattutto di esercitare una attitudine al saper fare. All’apparenza una cosa impalpabile, ma nei processi di apprendimento è l’asse sospeso nel vuoto attraverso il quale si passa dall’altra parte del nulla sottostante.
Questo doppio sforzo nel superamento di radicate convinzioni, o inibizioni, sembra avere come base una perfetta e lucida presa di posizione esposta con chiarezza proprio nell’ultimo capoverso del libro: «Ho un netto rifiuto per qualsiasi forma di divario tra teoria e pratica, il senso del mio libro è principalmente in questo pensiero. E poi non credo nelle isole cinematografiche; anzi, auspico che il regista cerchi in tutti i modi di sfidare i generi del cinema, e che ne sappia anche di arte, teatro, letteratura e, non ultimo, di vita. Se poi, da regista e insegnante di cinema, io sia riuscito o meno a rompere queste distanze non sta a me dirlo. Forte del mio pensiero-azione, che considero la vera risorsa del cineasta, il desiderio di trasmettere quel poco che so non si esprime solo realizzando dei film o provando a insegnare agli altri il mestiere, ma parte da un principio che va ben oltre il cinema e la sua indubbia fascinazione: interrogandosi e interrogando, sentirsi sangue vivo della società cui si appartiene».
Ecco che Gianfranco Pannone ha voluto «mettere insieme in questo libro appunti, pensieri, lezioni, interventi passati e presenti, per […] testimoniare, attraverso il […] percorso da regista e da docente di cinema, che teoria e pratica non solo devono convivere, ma che sia utile trasmettere agli altri quello che si sa, unendo ai propri studi l’esperienza acquisita; senza pretendere, certo, di dispensare verità, ma offrendo, più semplicemente, una testimonianza professionale e di vita». Quella dell’autore è quindi una assunzione di responsabilità, che gli deriva dall’intero suo percorso, anche o soprattutto dalla passione politica, rivendicata e un po’ sofferta, che lo ha proiettato nella società, negli studi e poi nel cinema. Non si tratta di un testamento artistico, Pannone ha ancora davanti a sé una carriera lunga, né di un passaggio di testimone, si tratta della rivendicazione di un ruolo intellettuale, di una funzione socio-politica, di una presa di posizione sentita come necessaria a maggior ragione dinanzi ad una società iper-mediatizzata che pare spingere gli individui alla passività.
Prendere posizione sempre, anche nelle discussioni sul cinema, perché certe pretese di neutralità della funzione registica, per esempio, che si trasformano in una programmatica trasparenza rispetto al reale, sono immediatamente smentite dall’esperienza del filmare. L’autore porta le stimmate di questa esperienza e quando (rossellinianamente) si pone dinanzi al dilemma se mostrare o dimostrare, risponde senza tema di smentita: «Secondo me la risposta, che presume una preoccupazione morale da parte del regista verso chi vede, è proprio nella fiducia in uno spettatore capace di interpretare la realtà grazie alla conoscenza del linguaggio audiovisivo e delle sue trappole sottili. Un discorso che dovrebbe partire dalla scuola e che da solo meriterebbe un saggio. Resta una questione aperta: la responsabilità etica che il regista deve assumersi volendo “mostrare” piuttosto che “dimostrare”; la sua capacità non solo di mettersi ad altezza d’uomo, ma di saper gestire il proprio potere sullo spettatore, nella consapevolezza che lo sguardo documentario è inevitabilmente ambiguo e che è solo la reciprocità tra chi filma e chi vede (talvolta con la complicità di chi è filmato) può rendere tutto più onesto».
Eccoci dinanzi alla posizione etico-politica di Pannone, che presuppone la relazione con il testimone ma anche quella con lo spettatore; quest’ultimo è il “tertium non datur” del cinema, colui o colei che, nella scomodissima posizione del fruitore dell’opera, deve avere gli strumenti per decodificare il reale come l’immaginario e che avrebbe quindi bisogno di formazione. Si tratta di colui o colei che completa il percorso etico-politico intrapreso dall’autore, consapevole o meno della sua funzione sociale, e quindi gli restituisce il senso stesso del fare cinema. È dinanzi a questa coscienza critica e dialettica dell’autore che si deve per forza di cose demistificare una certa sacralità dell’arte del racconto cinematografico, che è basata su un evidente inganno: più la rappresentazione cinematografica di un determinato evento “sembra vera”, più alta è l’asticella dell’artificio, quindi della menzogna. La menzogna è l’essenza stessa della rappresentazione cinematografica anche nell’istante in cui si documenta un evento reale, cioè un evento che accade a prescindere dalle intenzioni del cineasta-narratore. Il documentare è un atto spurio, problematico, controverso, non è un atto neutrale.
È talmente forte questa pulsione a disvelare tale essenza del cinema e del suo linguaggio, che a Pannone non bastano le parole esistenti, ha bisogno di crearne una "nuova" per chiarire fino in fondo ciò che vuole dire; si tratta di un neologismo che spazza via ogni dubbio: documentire. E gli dedica il primo capitolo del libro in modo che funga chiaramente da premessa per tutto l’excursus saggistico-diaristico che ci conduce fin qui. Una autobiografia intellettuale in piena regola quindi, nella quale Pannone si lascia andare ad una serie interessante di considerazioni “personali” su autori del passato ma anche su autori viventi. Una anomalia rispetto alla pubblicistica dei registi che, per formazione o per timore, non sono avvezzi a sbilanciarsi sull’operato dei “colleghi”, sia mai che qualcuno dovesse offendersi e poi, qualora si trovasse in una giuria o semplicemente in una situazione conviviale, possa far pesare il proprio risentimento per le parole dette o scritte.
Quindi Pannone si è assunto tutti i rischi possibili in una operazione del genere, e già solo per questo meriterebbe un plauso, ma per fortuna la trama riflessiva intessuta nell’intero volume va ben oltre il coraggio, fornendo spunti, conflitti e domande che fanno bene a chi il cinema lo guarda e anche a chi lo fa.
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