Ho letto la stroncatura, anzi l’invettiva, che Christian Raimo rivolge al film di Pietro Castellitto, Enea, e ne prendo spunto. Raimo esprime la “rabbia di classe” che si ha contro una famiglia ricca e potente, radicata nel cinema. Sicuramente è vero che si vorrebbe che tanti altri talenti potessero godere degli stessi mezzi e delle stesse facilitazioni. Ma c’è un ma, oltre al ricordo del fatto che a Raimo proprio non era piaciuto Liquorice Pizza. Discorsi politici, anticapitalisti e antilobbisti sono in generale legittimi, ma penso che sia necessario saper distinguere tra questi e i discorsi estetici, per onestà intellettuale. Fin qui, insomma, per dire che secondo me il film c’è, e con un portato di profondità e originalità che non mi aspettavo.
Dirò le cose che personalmente mi sono piaciute (meno importanti quelle, in minoranza, che mi sono piaciute meno):
1. Non è un film narrativo, ovvero non c’è una trama, uno svolgimento, se non caricaturalmente e indirettamente. Questo crea una grande distanza dal linguaggio pervasivo delle serie e del cinema di genere e spinge verso il cinema d’autore. E’ un affresco su una precisa Roma, che ha il merito di partire e radicarsi nella famiglia, in un cortocircuito vizioso società-famiglia.
2. La comunicazione tra i personaggi è in massima parte non verbale. Questo vuol dire, insieme al punto 1, che il linguaggio cinematografico parla al posto delle parole, salvando il film dal rischio di banalizzazione.
3. In primo piano ci sono costantemente le sensazioni dei personaggi e le loro relazioni profonde, e mi sembrano davvero originali la relazione omosessuale impossibile tra Enea e Valentino e quella tra Enea-dominante e fratello minore (vero)-dominato;
4. Il film ha una sua cifra precisa, molto particolare, originale, spericolata, che è senz’altro un grandissimo pregio. Una cifra che si può anche rifiutare ma che non si dovrebbe negare. Una cifra che potrebbe rischiare costantemente il ridicolo e che invece riesce a evitarlo sempre, anche nei tratti più portati all’eccesso.
5. E’ scritto bene, girato bene e interpretato bene.
6. Pietro Castellitto sa essere inquietante.
7. L’arte sottile di Andrea Cavalletto ai costumi si sente.
8. Mi sembra un film pessimista, finalmente senza speranza, capace di un ribaltamento radicale rispetto al mito di fondazione di Roma che sa richiamare nel titolo. Un film non moralista.
9. Il fatto che il lieto fine non ci può essere, ma se ci fosse sarebbe quello del recupero, molto difficile, utopico, delle relazioni familiari.
10. Per tornare a Raimo, lui è sicuramente un combattente, ma il piano politico e quello estetico sono due cose diverse. Non si può fare un discorso politico attaccando qualcuno, anche un po’ ciecamente, sul piano estetico. I due piani sono anche legati, certo. E Castellitto fa un esame sostanziale della borghesia, dall’interno, non aggressivo e non moralistico, cosa più rara e difficile.