Vincenzo Marra (Napoli, 1972) dopo alcuni anni come fotografo sportivo esordisce al cinema nel 2001 con il lungometraggio Tornando a casa, vincitore di 18 premi internazionali tra i quali il Miglior film della Settimana della Critica della Mostra di Venezia. Tornando a casa segna l’inizio di una ventennale carriera organicamente costruita attorno a una riflessione sulla città di Napoli e i suoi abitanti che procede di film in film. Fra le sue opere, sempre oscillanti fra cinema di finzione e documentario, si ricordano anche Vento di Terra, L’udienza è aperta, L’ora di punta con protagonista Fanny Ardant, Il gemello e L’equilibrio, presentato alle Giornate degli Autori di Venezia nel 2017 e candidato ai Nastri d’Argento per il miglior soggetto; ha inoltre partecipato, accanto a registi del calibro di Jean-Luc Godard e Ursula Meier, al film-collettivo I ponti di Sarajevo del 2014. Lo scorso ottobre è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma il suo ultimo lungometraggio, La volta buona, con Massimo Ghini protagonista; l’uscita nelle sale era prevista per il 13 marzo 2020 prima che l’emergenza Coronavirus imponesse la chiusura delle sale.
Apocalisse e sacrificio. Il cristologico inquieto di Andrej Tarkovskij
A pensare a Sacrificio viene sempre in me un’esitazione, quasi un terrore panico. Nessun film ha saputo aprire tali abissi di pensiero come l’opera ultima di Tarkovskij. Aleksandr (Erland Josephson) è un uomo di mezza età. Un tempo attore, adesso intellettuale e studioso, è sostanzialmente un uomo stanco di tutto. «Come sono i tuoi rapporti con Dio?» – «Assenti» è una delle prime battute del film. Aleksandr vive ritirato su un’isola semideserta con la moglie Adelaide, che non ama, le due domestiche Maria e Julia e il figlioletto affettuosamente soprannominato Piccolo Uomo, temporaneamente muto a seguito di un’operazione alla gola. Assieme alla sua casa di legno, il figlio è l’unica cosa che Aleksandr ancora ama. «In principio era la parola, ma tu stai zitto come il salmone», gli dice in una delle prime scene del film, dopo aver piantato con lui un albero mentre gli racconta la storia di un monaco che innaffiò ogni giorno un albero secco finché questo non fiorì.
L’amore come eschaton laico (prima parte). Solo gli amanti sopravvivono
La nausea o la noia o l'assurdo o l'incomunicabilità, la catastrofe della figura o della melodia a noi interessa soltanto come clinici della cultura, che intendono partecipare a un consulto decisivo. Senza dubbio non si tratta della concezione oggettivistica della malattia, che da una parte pone il medico sano e, dall'altra, il malato: qui il medico che lotta contro il morbo lo deve vincere prima di tutto in se stesso.
Ernesto De Martino, La fine del mondo, cap. V
Per il legame inestricabile che nella cultura occidentale si è venuto a formare fra Apocalisse e fede religiosa in un eschaton positivo (ma anche fra Apocalisse e condanna degli ingiusti, Apocalisse come castigo quindi), è inevitabile che gran parte dei film apocalittici contengano tematiche di fede, sia pure come meri accenni o semplici sottotrame. Abbiamo già parlato della tematica scritturale che avvolge tutto Codice: Genesi. Anche Io sono leggenda di Will Smith, di pochi anni anteriore, mostrava due degli ultimi sopravvissuti della razza umana litigare sul fatto che Dio esistesse o no; nel romanzo Cell di Stephen King, subito dopo che un misterioso segnale trasmesso dai telefonini ha trasformato gran parte dell’umanità in zombie, i tre protagonisti in fuga da Boston hanno uno scontro prima verbale e poi addirittura fisico con una testimone di Geova che li accusava di fornicazione e che vede tutta l’epidemia zombie come un castigo divino contro l’aborto legalizzato.
Umanità come presenza. L'immaginario post-apocalittico
Dopo il primo articolo Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche. L’escatologia di Roland Emmerich, prosegue la serie di Ludovico Cantisani sul tema dell’Apocalisse nel cinema contemporaneo. L'analisi prende spunto da La fine del mondo di Ernesto De Martino e dalla differenza da lui posta tra apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche.
L’esserci come esser-nel-mondo rimanda alla vera condizione trascendentale del doverci essere. L’uomo è sempre dentro l’esigenza del trascendere, e nei modi distinti di questo trascendere l’esistenza umana si costituisce e si trova come presenza al mondo, esperisce situazioni e compiti, fonda l’ordine culturale, ne partecipa e lo modifica. Linguaggio, vita politica, vita morale, arte e scienza, filosofia, simbolismo mitico-rituale procedono da questo ethos: l'antropologia non è che la presa di coscienza sistematica di questo ethos, la determinazione dei distinti modi del suo manifestarsi storico.
Ernesto De Martino, La fine del mondo, cap. 2
Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche. L’escatologia di Roland Emmerich
È di recente pubblicazione per Einaudi la nuova edizione del saggio La fine del mondo di Ernesto De Martino. Come ogni studioso ed ogni appassionato di antropologia sa, La fine del mondo è un capitolo per così dire “maledetto” della produzione bibliografica del nostro antropologo più fecondo: iniziato nei primi anni ’60, annunciato nel 1964 in un articolo nella rivista «Nuovi argomenti» con il titolo di Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche, il saggio restò incompiuto a causa della prematura morte di De Martino nel 1965. Pochi mesi dopo la sua scomparsa iniziò fra i suoi collaboratori un intenso lavoro di catalogazione dei frammenti del saggio, che dopo parecchie vicissitudini vide la luce nel 1977, a cura dell’allieva Clara Gallini. Gli inevitabili limiti di questa prima edizione hanno spinto Giordana Charuty, Daniel Fabre e Marcello Massenzio a rimettere mano all’immenso archivio De Martino, realizzando una seconda e più efficace edizione di questa incompiuta opera-mondo che è uscita in Francia nel 2016 e in Italia lo scorso autunno. Complice la situazione attuale creata dal Coronavirus, la lettura de La fine del mondo nella sua nuova, brillante edizione mi ha portato a concepire l’idea di un viaggio a puntate attraverso le varie apocalissi cinematografiche, da Roland Emmerich ad Andrej Tarkovskij, passando per Lars von Trier e molti altri.
Cinema delle cose dimenticate. Conversazione con Giuseppe Carrieri
Giuseppe Carrieri (Napoli, 1985) si definisce «regista, docente universitario, un po’ esploratore». Attratto dall'umanità dimenticata e dai paesaggi nascosti, coltiva nel cinema della realtà la sua principale forma di espressione. Nel 2013, con In Utero Srebrenica, racconta le madri bosniache alla ricerca delle ossa dei propri figli vent'anni dopo il genocidio, guadagnando la nomination al David di Donatello e numerosi premi internazionali. Nel 2017, con Hanaa, ci parla dei matrimoni precoci attraverso un film-viaggio che si muove fra India, Siria, Perù e Nigeria). Le Metamorfosi, presentato lo scorso anno alla Festa del Cinema di Roma, è il suo primo esperimento di docu-fiaba, girato nella sua città d'origine, Napoli. Dal 2018 è docente del Laboratorio Avanzato di Regia Cinematografica dell'Università IULM di Milano e collabora con diverse emittenti televisive nazionali e internazionali. (Intervista di Ludovico Cantisani)
Nascita di un post-realista. Conversazione con Ludovico Cantisani
Ludovico Cantisani, nato a Roma nel 2001 da una famiglia di origine meridionale, ha scritto, diretto e prodotto il cortometraggio Penelopes, liberamente ispirato all’Ulisse di Joyce e patrocinato dall’Italian James Joyce Foundation. Partito sulla piattaforma di crowdfunding Ulule come corto a basso budget, Penelopes vanta la partecipazione del direttore della fotografia di Luciano Tovoli. Il film ha avuto la sua première a Terre di Cinema, a Catania, campus cinematografico diretto da Vincenzo Condorelli, ricco di eventi, anteprime e masterclass.
SEGNALIAMO CHE E’ IN CORSO IL PROSSIMO PROGETTO PER “BILOGIA DELL’URLO“: https://www.produzionidalbasso.com/project/bilogia-dell-urlo-tovoli-la-torre-cantisani/